L’amante dell’ingegnere

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Foto F. Bottini

In uno dei primissimi capitoli dei Tre Uomini in Barca di Jerome, la voce narrante racconta di una personale disavventura ipocondriaca: graniticamente convinto di avere qualche tipo di malanno, aveva iniziato a scorrere in biblioteca un’enciclopedia medica, arrivando a presumere, sulla base di alcuni sintomi immaginari, di essere in pratica a un passo dalla morte. Il medico personale, fortunatamente consultato più tardi, gli scriverà su carta intestata una leggendaria ricetta, la cui prescrizione fondamentale suona più o meno: “vai a letto presto e non farcirti il cervello di cose che non capisci”. Noi, oltre a immaginare che magari Marcel Proust possa aver tratto spunto da quel passaggio parafrasandoci il suo altrettanto leggendario incipit, potremmo riflettere sul ruolo del tecnico o dello specialista in genere, in un’epoca di grande pressione partecipativa, magari condita di tuttologia da social network. Un dibattito che riguardo ai temi della città e del territorio attraversa da tempo le pagine e i siti professionali, e si riassume nel classico battibecco a un’assemblea pubblica fra un urbanista e un residente, ben riassunto da: “lei non venga a insegnarmi come deve essere fatto il mio quartiere: ci abito da trent’anni e ne so sicuramente di più”.

Non ascolto il tuo cuore, città

Senza dubbio non ha tutti i torti, questo abitante, ma sappiamo benissimo che qualche torto ce l’ha: innanzitutto i suoi comodi e desideri non sono certamente il meglio possibile anche per gli altri abitanti, e poi come succede spesso e volentieri tante cose dipendono non tanto dalla zona in sé, ma dal contesto più ampio entro cui si trova, per esempio le arterie di grande comunicazione che la circondano o magari la attraversano, o certe trasformazioni edilizie o d’uso. Recenti ricerche in Gran Bretagna per esempio hanno confermato come uno dei principali ostacoli alla realizzazione di complessi di case economiche in ambiente urbano sia la cosiddetta “legge sul localismo” che conferisce ai consigli di zona un certo potere decisionale e di veto in materia urbanistica. Le cronache americane pullulano di decise reazioni ai piani di cosiddetto urban infill o densificazione locale, magari da parte di persone che si ritengono ambientaliste e che sono convinte di lottare contro lo sprawl suburbano, che invece favoriscono proprio allontanando le trasformazioni. Una delle più note vicende legate all’Expo milanese è stata quella della cosiddetta Via d’Acqua, bloccata dall’opposizione frontale dei quartieri che hanno considerato una vittoria la cancellazione del progetto, anziché il mantenimento del suo valore urbano, metropolitano, ma con anche radicali modifiche locali. La sconfitta di chi per un motivo o per l’altro persegue una visione di più ampio respiro (la scala urbana, le questioni sociali, i servizi, l’ambiente …) è senza dubbio una motivata reazione a una lunga carenza di ascolto delle reali e concrete esigenze degli abitanti, a favore di una razionalità parecchio astratta che non li considera.

Trasporti per chi?

Si è citata poco sopra la questione delle grandi arterie di scorrimento come una di quelle che innescano più polemiche fra l’urbanistica in generale e i quartieri. Perché certamente essere pericolose, rumorose, inquinanti, necessitano di interfaccia, di compensazioni e via dicendo. Non è un caso se lo stesso concetto di quartiere contemporaneo nasce esattamente all’epoca del primo automobilismo, e viene definito come lo spazio in cui il traffico è gestito localmente. Oggi, nel pieno della grande crisi di ruolo dell’automobile nel determinare le forme urbane, pare che l’antico modello della neighborhood unit novecentesca, basata su una certa quantità di abitanti raccolti comunitariamente attorno a un nucleo di servizi, stia cedendo il passo al nuovo transit-oriented-development, definito da un nucleo centrale costituito dalla stazione dei mezzi pubblici, e da un raggio entro il quale gli edifici crescono di densità rispetto al circondario, aumentando anche la presenza di attività economiche. La differenza rispetto a un classico polo di servizi o quartiere della stazione sta proprio nell’essere pianificato e pensato tenendo al centro l’integrazione, il ruolo di area urbana, e il fatto di discendere esattamente dall’antica unità di vicinato.

Il diavolo si nasconde nei dettagli

Tra i progetti di transit-oriented-development più interessanti in assoluto, c’è sicuramente quello di Tysons Corner nell’area metropolitana di Washington D.C., zona un tempo famosa per il suo esatto contrario, quei nodi autostradali detti edge-cities. Una iniziativa coordinata pubblico-privata sta cercando da diversi anni di introdurre contemporaneamente linee di trasporto pubblico invece della monocoltura automobilistica, e diversificare l’offerta funzionale, dal solo commercio e uffici a residenza, servizi, verde, tempo libero eccetera. Ma un recente articolo del sito Greater Greater Washington sottolinea uno svarione del tipo che ha reso leggendarie a suo tempo le critiche di Jane Jacobs ai razionalisti: in certi progetti il fattore umano sembra scomparire. In particolare accade che i passeggeri appena usciti dalle stazioni dei mezzi pubblici, per raggiungere il resto del mondo siano costretti ad attraversare le pericolosissime arterie multicorsia lascito della edge-city automobilistica. Succede insomma che ancora una volta i mirabili specialisti, impegnati a inseguire il modello ideale, ne tratteggino le forme pensando a grandi scenari metropolitani, ma scordandosi che lì dentro poi vengono scaraventati come in un frullino i cittadini in carne e ossa. Ossa fragili, come ben sappiamo, rispetto al micidiale cofano di un’auto, e che meriterebbero una cura certosina nel progetto degli interfaccia. Invece di ascoltare la città, i suoi abitanti, gli algidi tecnocrati dell’urbanistica e dei trasporti pensano un po’ come in quel quadro metafisico di Carlo Carrà, l’Amante dell’Ingegnere, con lei immota a contemplare gli attrezzi del mestiere di lui, evidentemente impossibilitata a cambiarne la logica. Invece cambiarla si può, anche se non necessariamente bloccando ogni trasformazione: i nimby sono quasi sempre figli legittimi di questo atteggiamento distante.

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