L’ape operosa dello sprawl

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Foto J. B. Gatherer

Ci sono nuovi attivissimi operatori delle economie urbane: centinaia di migliaia, a milioni anzi. Indossano un caratteristico abito a righine, sanno essere tenaci e pungenti se necessario, e sono il simbolo di una nuova epoca, in cui la finanza smette di essere il baluardo dell’astrazione assoluta del capitale, per avvicinarsi alle cose che contano, come l’ambiente, l’agricoltura urbana, la sostenibilità. Il fatto, più terra terra, è che fra i pezzi grossi della finanza ce ne sono a quanto pare molti appassionati di apicoltura, del tipo che nei fine settimana invece di schizzare qui e là per il mondo (oltre a schizzare qui e là) su un jet privato si diletta di favi, stagioni, fioriture, produzione di miele. Tutte cose che da diversi anni, nelle grandi città del mondo, sono entrate a far parte del vario panorama culturale e un po’ anche economico dell’agricoltura urbana, che come si sa comprende un po’ di tutto, dagli orti dei bambini svantaggiati nelle aree dismesse e forse contaminate, alle vigne con qualche pretesa di produzioni doc presumibilmente carissime ed esclusive.

E così sbarcano le api nella downtown terziaria, facendo molto erroneamente pensare che in fondo se si riesce ad arrivare fin lì la partita della sostenibilità forse ha qualche chance in più, in fondo anche gli spietati speculatori hanno un’anima eccetera. Ma è proprio vero? Non è che la cortina fumogena, spesso usata per le operazioni di manutenzione sulle arnie, poi serva anche a nascondere a noi popolo ignorante la solita verità, ovvero che una volta finito di baloccarsi coi simpatici insetti i finanzieri possono tornare più riposati alle cosiddette cose serie, ovvero giocare sulla pelle del pianeta, favorendo tutti gli investimenti di rapina possibili e immaginabili, per esempio la devastazione del territorio per sprawl urbano speculativo? Il dubbio è più che lecito.

In ossequio coerente a certe idee di sole responsabilità individuali, applicate stravagantemente alle istituzioni rappresentative, poi si devolvono enormi poteri discrezionali alle comunità e ai quartieri, secondo molti mettendo in pericolo gli spazi aperti. Accade infatti che in assenza di coordinamenti autorevoli a scala vasta le amministrazioni si trovino a fronteggiare su un piano di dubbia parità le spinte di un strapotente settore edilizio-immobiliare, a volte sostenuto da certe strategie per la casa o l’occupazione. Si ribatte, da parte dei medesimi legislatori, che figuriamoci se gli impatti ambientali non sono del tutto verificati dalle procedure di approvazione, ma restano forti perplessità sull’idea di territorio che quasi spontaneamente esprimono quelle api operose che sono i costruttori: investire nella trasformazione edilizia di aree aperte, extraurbane, costa sempre infinitamente meno del recupero di aree ex industriali, o della densificazione dei quartieri esistenti.

La forma di crescita/sviluppo ancora dominate, nonostante tutto, nonostante le tremende crisi mondiali (quella economica partita proprio dall’immobiliare, quella energetica dei trasporti privati, quella climatica delle relative emissioni) pare ancora gagliardamente in auge. E sono proprio i piccoli comuni a doverne subire le peggiori conseguenze. Il meccanismo è abbastanza consolidato a livello internazionale: la città centrale espelle popolazione per motivi sia economici che di qualità generale dell’abitare poco curata, verso fasce via via più esterne della regione; i territori suburbani, di solito senza una regia adeguata di governo coordinato del territorio, competono gli uni con gli altri per mettere a disposizione l’unica risorsa che hanno a disposizione, ovvero lo spazio. Il risultato dovrebbe essere, nelle prospettive migliori degli amministratori, una progressiva evoluzione socioeconomica degli ex villaggi, in direzione di quanto già accaduto con la città centrale, ovvero presenza di importanti attività economiche, gettito fiscale, servizi, eccetera. Ma raramente succede.

Ce lo ripetono in un modo o nell’altro in tanti da sempre, che la densità (edilizia di popolazione, di imprese, di opportunità, nelle forme che qualcuno chiama agglomerazione ecc.) è essenziale per costruire l’ambiente urbano. Nello sprawl questa densità non esiste, e nelle ricette densificatrici di certi architetti new urbanism pare evaporato tutto quanto non sia solo il metro cubo edificato, che chissà perché dovrebbe risolvere problemi. Certo quando pensiamo a posti come Manhattan o Hong Kong ci saltano all’occhio gli edifici alti, ma si tratta solo di un sintomo, di un presupposto, di qualcosa che evidenzia molto, ma molto altro. Ovvero la vitalità e adattabilità, la capacità di esprimere idee, di impresa individuale ma anche di governo collettivo.

Proprio il caso di Hong Kong aveva colpito un osservatore di Manhattan (si vede che fra metropoli dense ci si intende meglio al volo), perché a quanto pare la metropoli asiatica funziona benissimo grazie anche alla eccellente rete di trasporto collettivo. La quale rete – cosa abbastanza inaudita – campa solo di entrate proprie, senza sostegni pubblici aggiuntivi. Come ci riesce? Facendo pagare prezzi esorbitanti il biglietto? No, solo praticando una strategia abbastanza simile a quella usata ad esempio a Londra dalla metropolitana nel primo ‘900, ovvero utilizzando la leva immobiliare integrata al servizio di mobilità. Nella capitale britannica il programma Metro Land speculava sui terreni raggiunti dall’infrastruttura ponendo le basi per la suburbanizzazione tranviaria tanto decantata oggi. A Hong Kong si fa qualcosa di un po’ più complesso, simile a una specie di gestione privata di una rete di quartieri TOD, con centri commerciali, uffici ecc. Si può certamente discutere sull’opportunità di un immenso potere del genere conferito a un ente di settore sullo sviluppo urbano, ma certamente l’idea di considerare le «economie» come qualcosa di meno spezzettato di quanto non si faccia abitualmente, non è così peregrina.

Lo stretto rapporto fra trasporti collettivi e localizzazione di servizi è un fattore determinante dell’ambiente urbano, non di quello caratterizzato dalla pura amorfa massa edilizia, più o meno densa. Indice di vitalità, di interazione fra settori e aspetti, di potenzialità di scambio. Cosa che non pare proprio chiarissima alla gran parte dei nostri amministratori e osservatori quando si tratta anche della sola mobilità: le macchine sulle strade, i pedoni nei sotto o sovrappassi, le biciclette sulle apposite piste, i mezzi pubblici in corsie riservate. Quella non è necessariamente una città, ma un buon esempio di schizofrenia, che ci viene servito fresco fresco ogni giorno.

I ciclisti nonostante tutto (nonostante le arterie egemonizzate dalle automobili, nonostante l’incredibile disorganizzazione) aumentano ovunque. Gran dimostrazione di buona volontà e intelligenza individuale, perché superata la fase culturale in cui la bicicletta era collegata spontaneamente alla povertà, pare un metodo abbastanza logico per chi deve spostarsi su distanze abbastanza brevi. Ci sarebbero tutte le premesse per assomigliare tutti in breve tempo a Copenhagen e ai suoi vitali spazi condivisi, ma pare che si ragioni a compartimenti stagni, che l’idea di urbano moderno faccia incredibile fatica a staccarsi dallo schema ingegneristico per componenti staccate. Si discute del mezzo meccanico e degli accessori, dei percorsi dedicati e (qualche volta) anche delle infrastrutture minime, dal bike-sharing ai parcheggi, ma mai e poi mai si va oltre qualche piccolo immediato ragionamento sulle zone pedonali e simili.

L’intreccio fra spostamenti intermodali e funzioni urbane: in che modo è difficile, e potrebbe diventare più facile, fruire davvero della città al 100% senza usare l’auto? Questo pare non chiederselo mai nessuno, almeno in pubblico. Si è mai vista una carta di pista ciclabile che riporta, invece delle solite attrazioni turistico-naturali, cose un po’ più quotidiane come uffici pubblici, negozi ecc.? A quando l’obbligo di installare (col medesimo criterio rigido di legge dei parcheggi per le auto) rastrelliere vagamente adeguate allo scopo, così che non si debba vagare ore alla ricerca di pali, ringhiere, eventuali decorazioni liberty sporgenti a metà facciata per appenderci la bici? Esistono addirittura geniali amministratori locali che ritengono addirittura certi spazi «deturpati» dalla sola presenza di biciclette in sosta. E partono operazioni di decoro urbano repressive e surreali, tra i fumi dei veicoli a motore. Di certo si può fare di meglio, usando il cervello, se no che ci sta a fare? Altrimenti all’orizzonte si intravede solo la prossima lottizzazione immersa nel verde, raggiungibile con Suv di famiglia … ma desolatamente popolata da fantasmi!

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