L’imbianchino urbanista, le isole di calore e altre storie

foto F. Bottini

A proposito delle recenti trasformazioni urbane partecipate, specie quelle milanesi apparentemente avanzate e pilota dette con neologismo ardito «Urbanismo Tattico» (*), spesso la discussione assume toni che sfiorano il surreale, e pare che le varie opinioni siano riferite a qualcosa di sempre diverso, anziché al medesimo luogo, progetto, contesto. Perché sia gli entusiasti favorevoli, che i decisamente contrari, che i semplicemente critici, parlano di cose considerate fondamentali, a volte ampiamente riassuntive dell’insieme, che invece per altri sono del tutto secondarie, sia nel qualificare che nello squalificare le trasformazioni. Prendiamo ad esempio un solo aspetto, quello assai vistoso delle specifiche tecniche di realizzazione che qualcuno ha chiamato «da imbianchini urbanisti», e che consistono nel marcare lo spazio della trasformazione con disegni colorati sull’asfalto, con vari schemi geometrici regolari o meno su varie tinte. Secondo alcuni quella proceduta «tattica» si esaurisce esattamente nei disegni a terra, che sono il progetto di trasformazione, mentre secondo altri, critici, i vivaci disegni che nella teoria originaria Tactical Urbanism dovrebbero semplicemente segnare il campo per una sperimentazione sociale e spaziale, qui finiscono per sostituirsi ad essa, senza chiarire affatto che si vuol fare di quel luogo e in che logica si inserisce la trasformazione puntuale: si vogliono sottrarre spazi alle auto private inquinanti nel quadro di un non trasparentissimo piano strategico a scala cittadina in questo senso? Si costituiscono aree pedonali e di sosta con mezzi poveri in attesa di avere le risorse per i progetti definitivi? Qualcuno ha anche scritto che quegli strati di vernice colorata sono soprattutto strumenti per combattere il riscaldamento delle temperature urbane indotto dal nero dell’asfalto delle superfici impervie. E avrà pure ragione.

Isole di calore urbane e arcipelaghi di raffreddamento

Ecco: proviamo a uscire dal rischio di qualunque genericità delle critiche alle Piazze Tattiche e dei loro disegni al suolo, o peggio dall’accusa di «critiche distruttive pregiudiziali», concentrandoci su questo singolo punto, molto interessante dal punto di vista sociale, sanitario, climatico urbano. Quegli «imbianchini urbanisti» inducono davvero una importante trasformazione dello spazio, quella da superficie scura che scalda a un’altra più chiara che scalda molto meno. Per combattere le isole di calore urbane a livello internazionale si sono sperimentati una serie di interventi che comprendono alberature, tetti verdi, incremento generalizzato del verde pubblico e privato, e infine appunto colori più chiari per strade, piazze, coperture, edifici, per incrementare l’effetto albedo, ovvero la frazione di luce assorbita o respinta. Ma come detto si tratta di esperienze, in sostanza tentativi con qualche risultato che però non appare chiarissimo quanto a calcolabile efficacia, e quindi difficile da esportare altrove. Perché un intervento che funziona molto bene in un certo contesto può non dare risultati altrettanto buoni in un altro, semplicemente mancando di interagire col resto. Ogni area urbana ha infatti caratteri diversi per la distribuzione del verde rispetto alle superfici impervie e le qualità delle specie, e quindi non è detto che prati, alberi, asfalto schiarito o tetti verdi in sé «funzionino»: qualcosa interagisce positivamente col resto, e abbassa la temperatura, ma non si capisce quanto, come perché. Si tratta di approfondire sistematicamente i casi di interazione, e cercare di individuare qualche genere di modello davvero esportabile e riproducibile.

Ancora: piani e programmi, non progetti tecnici

Ricerche recenti hanno studiato comparativamente gli effetti di interventi vari sulla vegetazione gli edifici e gli altri spazi urbani riguardo ai microclimi locali. I risultati indicano come la depavimentazione, una maggiore quantità di piante e vegetazione, i colori più chiari di strade e coperture per l’effetto albedo, certamente contrastano le isole di calore, ma anche come specifiche zone diverse della città reagiscano anche molto diversamente al puro incremento quantitativo di queste variabili, se si calcola l’effettiva diminuzione delle temperatura comparata agli interventi. Aggiungiamoci, anche se dovrebbe apparire ovvio, la variabile socio-spaziale, ovvero che le differenze di contesto (verde, schemi spaziali, composizione generale) hanno certamente una componente urbana fisica, ma anche una zonizzazione economica, di fasce di età, di godimento della proprietà … ed ecco emergere quegli aspetti di programma, partecipazione, pianificazione che, si rilevava prima, non appaiono affatto chiari negli interventi di Tactical Urbanism milanesi, pur non negando per esempio l’utilità dell’urbanistica imbianchina per combattere le isole di calore, o l’invadenza delle auto, o la carenza di spazi di relazione di vicinato. È una questione di metodo e di trasparenza: se si ha una idea di città, di trasformazione, di sostenibilità, salute, partecipazione, la si dovrebbe esplicitare. E non presentare a pezzi e bocconi travestita da simpatiche pennellate per terra, lasciando che poi ci si azzuffi tra di noi per gusti personali sugli accostamenti di tinte. Pare il minimo.

Nota (*) Un po’ sconcerta questo uso del termine Urbanismo dopo quasi un secolo dalla sua messa in soffitta almeno a Milano. Erano più o meno i tempi della aggregazione di Comuni Contermini e del successivo primo Concorso per il Piano Regolatore, a dare qualche unitarietà territoriale di massima alla nuova compagine urbana. L’Urbanismo era quella scienza-arte di costruire città armoniche belle e giuste, e il termine era come tanti altri di derivazione francese (anche il non ancora dilagante le Corbusier l’aveva usato per il suo libro d’esordio in materia). A Milano di Urbanismo parlava molto l’ingegnere municipale Cesare Albertini, prolifico nei suoi articoli sulla stampa, locale o tecnica specializzata. Ma si trattava di una dizione destinata a tramontare perché il modello francese, dell’urbanistica insegnata soprattutto per gli uffici tecnici pubblici in Alte Scuole, venne sconfitto dalla Corporazione degli Accademici e Liberi Professionisti, che a Roma fondarono l’Istituto di Urbanistica, consolidando quel nome che è arrivato sino a noi. E adesso l’assessore senza saperlo lo ricicla, traducendo un po’ alla buona dall’originale «Tactical Urbanism» americano a sua volta denominato così perché costola del Congress for the New Urbanism, associazione di professionisti attiva dagli anni ’90. Perché l’assessore non dice semplicemente urbanistica, che sarebbe pure una delle sue deleghe tematiche? Forse qualche sciagurato tecnico degli uffici gli ha detto che no, l’urbanistica come l’ha studiata lui all’Istituto dei Geometri è quella che calcola gli indici, e le piazze verniciate per terra non calcolano densità altezze funzioni eccetera? Ci ripensi assessore: facciamo un grande referendum partecipato, che fa pur sempre immagine, no?

Riferimenti:
Yasuyo Makido,Dana Hellman, Vivek Shandas, Nature-Based Designs to Mitigate Urban Heat: The Efficacy of Green Infrastructure Treatments, Atmosphere, vol. 10 n. 5, 2019

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