Lo sviluppo regionale dell’Italia nelle previsioni degli urbanisti (1967)

astengo_biancoChe gli urbanisti dovessero, prima o poi, imboccare la strada della geografia, è cosa che non può meravigliare. Solo chi non ha seguito il lento processo di avvicinamento della programmazione ai problemi posti dal territorio e contemporaneamente il profondo travaglio dell’urbanistica per passare dalla usuale dimensione urbana a quella regionale può restarne stupito. Chi invece ha seguito la crisi di questa disciplina dopo il tramonto del mito dell’urbanista come progettista-demiurgo della società ideale, e chi ha sempre creduto che per operare bisogna prima conoscere, non poteva non attendersi una conversione verso la geografia.

Il numero 49 di Urbanistica dedicato per intero allo «sviluppo regionale a lungo termine» dell’Italia è una prova di questa conversione. Le diciannove monografie regionali (in riassunto) e quelle di sintesi dedicate rispettivamente al Centro-Nord e al Mezzogiorno sono impostate secondo una metodologia che innesta le «ipotesi di assetto territoriale» su una preventiva analisi del territorio, nelle sue tendenze di sviluppo «naturale» e nelle sue «vocazioni» o «suscettività». Non è certo questa l’occasione per approfondire il nuovo discorso di metodo e neppure per discutere del concetto di «vocazioni naturali» che, nei lavori pubblicati da Urbanistica, suscita alcune perplessità perché, il più delle volte, serve solo per escludere dallo sviluppo «intensivo» tutte le aree di collina e di montagna. Conta invece notare come si sia sentita la necessità di partire dalla conoscenza della geografia regionale, e come questo avvicinamento tra urbanistica e geografia non possa che giovare al progresso di entrambe le discipline e a migliorare la qualità degli interventi di «programmazione» sulla superficie terrestre.

Tuttavia, detto questo, bisogna subito aggiungere che – per quanto è possibile capire dai riassunti delle monografie regionali e dalle sintesi «circoscrizionali» – le analisi del territorio non sempre convincono e soprattutto non suggeriscono rimedi ed interventi per quelle «ipotesi di assetto territoriale» che avrebbero dovuto giustificarle, ma restano invece sospese e come a sé stanti. La perplessità, cioè, non nasce tanto dal fatto che, per la metodologia assunta, la ricognizione del territorio è limitata ai cosiddetti «fenomeni emergenti», a quegli aspetti formali che vengono ritenuti a priori «urbanisticamente rilevanti». La perplessità nasce dal fatto che l’analisi del territorio si limita a riscontrare le aree di più intenso sviluppo e di più alta densità, come se si trattasse di fare l’elenco dei «mali geografici» del Paese, e non di distinguere innanzitutto e di capire poi i «meccanismi» che hanno presieduto ai diversi tipi di distribuzione degli uomini e delle loro attività.

Così, per fare solo qualche esempio, la constatazione di ordine generale che, nell’Italia settentrionale specialmente, è in atto un progressivo processo di inurbamento, vela la necessaria distinzione tra città che crescono a spese dell’immigrazione dal Sud al Nord, e città che crescono a spese dell’emigrazione dalle circostanti campagne, e dunque potranno esaurire rapidamente il «serbatoio di popolazione» al quale attingono; tra città medie e piccole che crescono per effetto di una espansione dell’area «metropolitana» delle maggiori città, città medie e piccole stazionarie o addirittura in regressione, e città medie e piccole che crescono di forza «autonoma» per la nascita di industrie locali.

Del pari, non si possono mettere sullo stesso piano lo sviluppo industriale del nord-ovest e del nord-est dell’Italia, anche e soprattutto dal punto di vista distributivo, così come non si può genericamente affermare che solo la Pianura Padana occidentale ha trovato «nei rapporti con l’estero una forte spinta propulsiva di sviluppo», mentre il resto del Paese «veniva posto in crisi proprio … dalla integrazione dell’economia nazionale nel Mercato Comune». E non lo si può dire perché è vero proprio il contrario, e cioè che gran parte della recente moltiplicazione di attività industriali del Veneto e del Friuli, dell’Emilia e della Toscana (per non ricordare che i casi maggiori) si spiega con la conquista alla nostra esportazione dei mercati dell’Europa e specialmente di quelli della Germania Federale.

Quando si premette alla ricerca delle «ipotesi di assetto territoriale» un’analisi del territorio, non basta, cioè, accertare l’esistenza di un profondo squilibrio tra le aree ad alta densità di abitanti e di industrie e quelle prevalentemente agricole e demograficamente in perdita. Bisogna anche cercar di capire le «cause» generali che possono spiegare la tendenza alla concentrazione (urbanesimo, «economie esterne», «fattori agglomerativi», disposizione radiocentrica delle vie di comunicazione, ecc.) non si configurino o non si specifichino localmente in particolari condizioni che favoriscono o rallentano il fenomeno. Nel caso, ad esempio, delle quattro regioni dell’Itala nord-occidentale, ci si poteva e ci si deve domandare perché i recenti lavori di attraversamento del Bianco e del Gran San Bernardo, che dovevano contribuire a rompere l’«isolamento» della Val d’Aosta e l’«eccentricità» del Piemonte, possano rappresentare invece un ulteriore fattore di squilibrio a favore dell’asse Milano-Genova, finché non sarà risolto il problema di un efficiente «aggiramento» occidentale dei rilievi terziari e del Monferrato che sorgono ad est di Torino.

Ancora, ci si poteva e ci si deve domandare perché i prospettati miglioramenti del porto di Genova siano da considerarsi fin d’ora compromessi dalla costruzione dell’autostrada Torino-Piacenza e dal ritardato completamento di quella Torino-Savona; perché la crisi dell’industria tessile piemontese di lontana tradizione non possa in alcun modo paragonarsi alle cause che altrove, e anche nella stessa regione, provocano l’abbandono delle valli alpine, o perché lo sviluppo del «triangolo» Alessandria-Tortona-Acqui, se potrà alleggerire la «congestione» lombarda, non contribuirà a risolvere i problemi dell’economia genovese, e così via. Solo un’analisi di questo tipo consentirebbe infatti di capire perché, ad un geografo, appaia inesplicabile l’aver trattato della val d’Aosta e delle province occidentali della Liguria come di aree separate dal Piemonte; l’aver trattato del porto di Genova senza aver preso in esame, contemporaneamente, tutti i porti della Liguria, e magari perfino quelli della Toscana settentrionale, l’aver incluso nell’area studio lombarda la provincia di Novara ed averne esclusa quella di Vercelli.

La difficoltà ad uscire dai limiti regionali, lo scarso approfondimento delle differenze locali, le frequenti genericità in sede di descrizione ed in sede di spiegazione, in una parola l’analisi geografica formale delle nostre regioni non sono rimaste senza conseguenze sulle proposte d’intervento. Le «ipotesi di assetto territoriale» che corredano la parte descrittivo-analitica delle monografie si riducono spesso ad un discorso monocorde sulla necessità di evitare gli squilibri geografici. L’indicazione dei mezzi per farlo appare talora superficiale. Gli stessi interventi proposti non si misurano quasi mai con la realtà che vorrebbero modificare e con quella a cui dovrebbero dar luogo. E pertanto si nota come una specie di salto logico tra la parte «diagnostica» e la successiva «prognosi», dove le proposte richiamano talvolta ad un tipo di «programmazione» del territorio simile a quello utilizzato dall’architetto «progettista-demiurgo».

Così può capitare che si proponga un disegno di sviluppo della Padania orientale fondato su auspicabili, ma certo lontane relazioni con l’Europa dell’est, e si dimentichi che il recente sviluppo industriale di questa parte d’Italia è dovuto a una sorta di «dilatazione» territoriale del meccanismo di sviluppo del «triangolo» occidentale (che presumibilmente agirà ancora per molti anni). O si dimentica anche che la relativa inferiorità della Padania orientale è in relazione con l’altrettanto relativa debolezza sull’asse Bologna-Verona-Brennero, e che contro il suo rafforzamento convergono sia il ritardo nella costruzione dell’autostrada e la progettata costruzione di quella Venezia-Monaco, sia i progetti ed i lavori di miglioramento ai valichi alpini di comunicazione tra la Svizzera e la Lombardia (ad esempio lo Spluga), che finiranno per far gravitare sul «triangolo» anche i traffici con l’Austria occidentale e la Baviera.

Tutti questi rilievi, che non possono essere trascurati da una Rivista di geografia, non debbono tuttavia fuorviare: il lavoro che Urbanistica ha testé pubblicato, riveste un grande interesse. Innanzitutto esso propone una utile considerazione d’insieme delle due grandi parti del nostro Paese sotto il punto di vista dei problemi, che si pongono all’opera di «organizzazione» della superficie terrestre. E propone contemporaneamente una ricognizione unitaria dei tradizionali e più recenti «mali geografici» dell’Italia, che il processo di trasformazione e di sviluppo in corso non deve aggravare, in un momento quanto mai opportuno: i Comitati regionali per la programmazione economica si apprestano infatti a tradurre in schemi di sviluppo regionali il piano economico nazionale.

Ma si deve anche salutare positivamente l’avvicinamento dell’urbanistica alla geografia e alla conoscenza della diversità e complessità del territorio italiano (che appartiene all’esperienza tradizionale dei geografi), lungo le linee di una nuova organizzazione metodologica, dell’approccio ai problemi della «organizzazione» dello spazio. La strada da percorrere per perfezionare questo metodo è lunga, come forse le annotazioni precedenti possono aver lasciato intendere. E perciò le carenze di questo primo tentativo vanno considerate con tanta maggiore attenzione quanto maggiore è il convincimento che la strada imboccata sia quella giusta, e proprio perché si auspica quella più stretta collaborazione tra geografi ed urbanisti, alla cui mancanza chi scrive imputa molti degli errori finora compiuti nel faticoso processo di trasformazione della geografia del nostro Paese.

Estratto da: Rivista Geografica Italiana, dicembre 1967
Immagine di copertina, G. Astengo, M. Bianco, Agricoltura e Urbanistica, 1944

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