«Lode allo sprawl urbano»

Foto F. Bottini

Mentre si svolge l’eterno dibattito tra i sostenitori delle varie correnti di pensiero dell’urbanistica, i modi di vivere le città cambiano radicalmente. La vita dei secoli passati ormai fa parte della storia, vita di villaggio per i lavoratori della terra e vita circoscritta a fabbrica e cottage per i lavoratori della città industriale; la vita moderna è tutt’altra cosa: spaziose villette suburbane, videochiamate in tutto il mondo e spostamenti senza fatica in aereo o autostrada.

Forse il primo ad aver mostrato al mondo la scomoda verità che la loro vita consisteva nel guadagnarsi una casa nei sobborghi e a compiere ogni spostamento in automobile è stato l’americano Melvin Webber, insegnante, ricercatore, editore e planner professionista, ma che ha offerto il suo contributo più importante come teorico dell’urbanistica sociale. Nato nel 1920 e collaboratore dell’Università della California a Berkeley per la maggior parte della sua cinquantennale carriera, il pensiero di Webber è una parabola che va dalla previsione di una città-megalopoli diffusa senza più alcuna forza centripeta, all’ammissione che la forza attrattiva della città resiste tenacemente. La prima parte del suo pensiero, la lode allo sprawl urbano come unico scenario possibile per gli agglomerati urbani dell’avvenire, è contenuta in The joy of the spread city, il suo inno alla crescita sregolata, al modello spaziale tanto odiato dai teorici dell’urbanistica odierna.

Webber si è imbattuto nello sprawl urbano studiando la crescita degli agglomerati urbani di quel periodo, quello sviluppo in serie delle aree metropolitane in città tutte così simili tra loro. Per capire meglio cosa intende Webber per «sprawl» e se davvero è un concetto così diverso dalle aree di espansione delle città contemporanee possiamo innanzitutto affermare che più che all’idea di Ingersoll, «lo sprawl si distende lungo le vie di scorrimento, in un paesaggio composto da edifici solitari e vuoti ambigui», si riferisce a quello che Alfredo Mela presenta come suburbanizzazione: un fenomeno «legato alla fuoriuscita dalla città centrale di popolazione che va a vivere nelle fasce esterne, a distanza maggiore o minore dal centro, compiendo movimenti giornalieri per raggiungere il posto di lavoro o di studio».

Webber presenta questa scelta urbana come il punto di arrivo delle aspirazioni di standard sempre più elevati delle nuove classi medie di tutto il mondo, che avendo un ventaglio più ampio di opzioni abitative sceglie ovviamente abitazioni singole, circondate da spazi aperti adiacenti e spaziose abbastanza da poter contenere quello che lo scrittore chiama «l’equipaggiamento della vita moderna»: i servizi e le vie di comunicazione sono studiati per essere estremamente «residence-serving», così da rafforzare l’espansione a bassa densità a bordo della metropoli, riassumibile nel concetto di forme della città che si adattano alle nuove esigenze della modernità.

In realtà, quello che difendeva non era nemmeno troppo ignobile: una metropoli che favorisse i rapporti umani, con una forma spaziale determinata dagli stili di vita dei suoi abitanti e progettata per il mezzo di trasporto privato, una città elastica e non legata a identità tradizionali contraria ad una città rigida e basata sul trasporto pubblico, e osservando l’inarrestabilità delle tendenze verso la dispersione spaziale della città, s’è sbilanciato anche in una previsione: «the spread city is here to stay».
E no, non si tratta di un fenomeno che esiste solo in America, possiamo individuare degli esempi italiani del concetto di Webber in quelle che Edoardo Salzano in Fondamenti di urbanistica definisce «propaggini rururbane», oppure nello «svillettamento» di Edoardo Detti, termine che l’urbanista fiorentino “coniò all’inizio degli anni settanta per descrivere un fenomeno che già deturpava la campagna toscana”.

Le ovvie critiche

Chiunque si approcci a questa materia, oggi come ieri, finisce col pensare che l’edificazione rada ai margini della città sia una forma di crescita cancerosa, che minaccia le nostre forme tradizionali e finisce per etichettarla coi termini più accusatori del nostro lessico, come sprawl urbano, sparpagliamento, subtopia, slurb, eccetera, e se vogliamo usare le dissacranti parole di Pier Paolo Pasolini, “un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza” causata dal «vampiro del consumismo», il motore della grande trasformazione sociale che ha avuto luogo: «ognuno sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero».

In realtà Webber stesso, in The joy of spread city, si accorge che tutto questo rende molto simili aree del mondo diverse per religione, cultura, modelli comportamentali, ma soprattutto nella forma stessa delle città: sembra quasi che la storia delle nazioni stia accelerando per renderle sempre più simili tra loro. Quest’ultimo è uno tra gli argomenti principali ai quali si appellano i teorici dell’urbanistica moderna per giudicare esteticamente inaccettabile lo sprawl urbano, oltre che trovarlo costoso e disinteressato ai canoni tradizionali del disegno urbano.
Webber, pur autocriticandosi, non prende in considerazione però il rovescio della medaglia tanto discusso da sociologi ed urbanisti contemporanei, cioè che dal punto di vista dell’abitante niente è sotto casa e gli spazi pubblici sono utilizzati solo per il passaggio da un luogo circoscritto all’altro (che spesso avviene in automobile).

Vecchie teorie e argomenti attuali, ovvero «chi abita nello sprawl lo ama»

L’unica differenza forse è che oggi diamo nomi alle dinamiche della città, anche un po’ creativi. Il mutamento antropologico dell’abitare di fronte al quale siamo è stato denominato «poetica della vita sottocoperta» da Peter Sloterdijk, filosofo tedesco critico della modernità e del razionalismo, perché, diciamocela tutta, la dispersione urbana è ciò che vuole davvero la gente, casetta unifamiliare e spostamenti in macchina, e poi, lo diceva anche Webber: “la mobilità automobilistica, la libertà di scelta e accesso a qualunque cosa offrisse la città moderna, erano più importanti per le persone di qualunque dei caratteristici spazi urbani che sono l’essenza dell’architettura”.

Il pensiero di Webber è stato concepito osservando i cambiamenti nella città dopo la seconda guerra mondiale, ma queste affermazioni possono essere considerate attendibili ancora oggi?
Certo, nonostante i tempi cambino e ci siano state enormi trasformazioni nelle percezioni sociali dell’ambiente e nella sua importanza, stiamo comunque assistendo anche oggi ad una continua suburbanizzazione, che paradossalmente sta incentivando la rigenerazione delle città centrali: rinascita del centro come fulcro di intrattenimento, specializzazione tecnologica, turismo culturale ed elevata densità.
Il punto di vista migliore per capire il perché ci sia tutto questo amore/odio verso lo sprawl forse l’ha involontariamente offerto il sociologo Herbert Gans, nel suo libro che racconta i «modi di vita e le strategie delle nuove comunità suburbane» dal titolo The levittowners, il quale ha affermato che solo «chi abita nello sprawl lo ama».

Riferimenti bibliografici
* Bendixson T. (2007), «Melvin Webber»,The Guardian, 1 febbraio 2007 (trad. it. F. Bottini, Mall)
* Ingersoll R. (2004), Sprawltown, Meltemi, Roma
* Mantovani F. (2005), La città immateriale: tra periurbano, città diffusa e sprawl, Franco Angeli, Milano
* Mela A. (1998), Sociologia delle città, Carocci, RomPasolini P. P. (1975), Scritti Corsari, Garzanti, Milano
* Salzano E. (1998), Fondamenti di Urbanistica, Laterza, Bari
* Sloterdjik P. (2006), Il mondo dentro il capitale, Meltemi, Roma
* Webber M. M. (1998), «The joys of spread-city», in Urban design international, Vol. 3, num. 4

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