Lodo Meneghetti: Dal cucchiaio alla cittadinanza

A partire da un’idea di spazio la biografia e la riflessione personale si fondono nell’evoluzione sociale, politica, culturale del Paese attraverso alcune fasi significative del ‘900

La figura dell’architetto integrale compare in Italia nel secondo decennio del secolo scorso, in un conteso nazionale che da un lato si caratterizza per la relativa arretratezza culturale e sociale rispetto ad altri paesi europei, dall’altro subisce il duplice handicap di una evoluzione democratica post-unitaria troppo breve, e di un regime totalitario e chiuso. Accade così che salvo qualche eccezione personale, locale, episodica, non possano replicarsi nel nostro paese con la massa critica necessaria vicende paragonabili vuoi a quelle che nel mondo anglosassone vedono al centro il garden city movement, vuoi alla grande stagione delle trasformazioni urbane nel segno progressista dei quartieri coordinati razionalisti. E però gli echi di questi eventi, le tracce concrete e nella formazione di giovani e meno giovani protagonisti italiani, pongono solide basi perché un movimento assai simile abbia modo nel dopoguerra finalmente democratico e un po’ più aperto di dispiegarsi e iniziare a inseguire, a volte anticipare i temi della città, della società, del ruolo dell’intellettuale impegnato.

Le stagioni delle scelte. Lodovico Meneghetti, Architettura e Scuola, raccolta di contributi curata da Daniele Vitale per Il Poligrafo in forma di non-monografia professionale, restituisce da una prospettiva inusuale il percorso di uno di questi intellettuali, attraverso le scelte, vuoi in fasi successive, vuoi parallele, di carattere artistico, etico, politico, professionale e culturale in senso lato. Prospettiva inusuale perché l’apparente classico contenitore della monografia dedicata a una figura nota dell’architettura e dell’urbanistica, con regesto delle opere, immagini di architetture e informazioni biografiche, si rivela in realtà un racconto a più voci, intrecciate nel tempo e nello spazio. L’occasione è quella di un convegno tenuto al Politecnico sull’esperienza umana, didattica, professionale di Meneghetti nel 2008, e dedicato soprattutto agli studenti di oggi. Ma grazie all’impegno del protagonista, del curatore e degli autori dei vari contributi raccolti nel volume, la raccolta risulta un prodotto unico, assai diverso dalla logica degli atti.

Espediente retorico di partenza, una piccola foto di gruppo. Una sessione di laurea in Architettura del 1952, l’inizio dell’attività professionale, il battesimo del fuoco, per così dire. Tutto sembrerebbe per molti versi scorrere negli oliati binari del prevedibile (per quanto inusuale per un pubblico di studenti e giovani architetti di oggi): gli incarichi, i problemi, l’incontro con la critica, il mondo associativo, il contesto locale novarese in cui l’attività muove i primissimi passi, il riferimento culturale alto e alla grande città di Milano. Ma non siamo di fronte a una biografia critica professionale, come pure si potrebbe essere indotti a pensare per esempio davanti al rilievo dato alle critiche di Franco Albini al primo progetto: «vedendo la pianta si pensa ne derivi un certo alzato e invece gli alzati sono inaspettati».

E invece anche queste brevi battute apparentemente tutte interne al linguaggio critico disciplinare si rivelano continuando nella lettura un altro espediente retorico, dove via via la pianta sono le pratiche contingenti delle scelte culturali, professionali, politiche, e l’alzato la ricerca e il riferimento a un contesto più ampio, che nello specifico del racconto trova sbocco finale e sintesi nell’ultima scelta, ovvero quella dell’impegno a tempo pieno nella didattica universitaria. Una scelta che matura significativamente oltre che simbolicamente sul crinale di evoluzione sociale e politica nazionale ed europea a cavallo tra fine anni ’60 e primi ’70. Fin qui, pur per sommi capi e semplificando forse oltre il dovuto, la traccia narrativa del protagonista. Ma come si diceva il racconto si articola a molte voci, voci diverse e poco propense ad accontentarsi della pura testimonianza dell’amico, del collega, dell’allievo.

Si impone così, senza per questo rinunciare alla falsariga tracciata nell’intervento introduttivo (che fra testo e immagini dei progetti copre comunque 140 pagine) una molteplicità di prospettive che restituiscono ad esempio lo spaccato di una società italiana di provincia anni ’50 e ’60, al tempo stesso vitale e fin troppo semplice. Coi cenacoli di giovani e meno giovani idealisti, il ruolo sociale del cineforum prima del Pötemkin di Fantozzi o del «No, il dibattito no!» di Moretti. E anche l’importanza generale conferita allo specifico del dibattito sull’architettura e la città, in un’epoca di crescita tumultuosa e di contraddittorio governo pubblico a volte riformista (con la molto citata legge 167 sui piani per l’edilizia popolare) e contemporaneamente piuttosto sordido nel rinunciare a un’idea di città a favore della pura speculazione edilizia e fondiaria. Ancora nel contesto novarese, e proprio sulla questione urbanistica, si svolge la principale esperienza diretta di impegno politico e amministrativo raccontata da diverse voci, ovvero quella che verso la metà degli anni ’60 affronta in contemporanea pianificazione generale, schema di espansione stellare per quartieri, trasformazioni edilizie centrali e periferiche. Ovvero quello che fin dalle Questioni Urbanistiche poste dal Giovannoni nel 1928, e riflesse nell’impianto legislativo del 1942, è il riflesso del concetto di architetto integrale nell’impegno culturale e non solo per runa società futura.

Un impegno che nel caso specifico riesce anche a interagire positivamente con il difficile contesto locale e l’opposizione dei conservatori, ad esempio imponendo almeno in parte la crescita stellare con cunei di verde che tutelano il territorio rurale e la sua integrazione con l’urbano, ponendo le basi per una edilizia di elevata qualità architettonica e quartieri abitabili e serviti. E che probabilmente è di stimolo anche al passaggio (o scelta, per usare il termine del titolo) successivo, focalizzato sulla ricerca e l’insegnamento. Con risultati a molte facce, che risaltano nelle testimonianze di ex allievi poi protagonisti di varie carriere, allo stesso tempo a conferma e smentita della più volte rivendicata unità fra architettura e urbanistica.

Conferma perché è vero e innegabile che il nostro paese nel secondo Novecento, specie fino agli anni ’70, vede un ruolo particolare della cultura degli architetti-urbanisti, del loro specifico impegno politico (si pensi solo per fare un esempio banale alla figura di Olivetti e del movimento Comunità) a delineare un trait-d’union fra la società arretrata e le sue conseguenti rappresentanze, e prospettive europee più avanzate. Almeno in parte smentita perché se è vero che questa figura di architetto in Italia ha modo di declinarsi in un periodo successivo rispetto alle prime esperienze novecentesche europee e mondiali, allo stesso modo probabilmente si evolve a diventare componente di un movimento più ampio e articolato, meno definibile all’interno di un unico percorso. Cosa del resto confermata dalla stessa articolazione del contributi del volume, specie se si leggono in tale prospettiva quelli proprio dedicati a architettura o urbanistica, e soprattutto degli autori più giovani.

Ma anche da una coincidenza probabilmente non casuale: proprio la fase in cui Meneghetti sceglie di dedicare il proprio impegno alla Scuola di Architettura e Urbanistica, è quella che vede nascere in contemporanea le prime Scuole di Urbanistica tout court, che riprendono per certi versi direttamente un filone culturale interrotto proprio contemporaneamente all’affermazione dell’intellettuale a tutto tondo promosso dal Giovannoni emarginando soprattutto le componenti scientifiche e disciplinari non legate al mondo dell’approccio tecnico-artistico alla città, e quelle politiche non orientate alla pur lodevole appartenenza e impegno in gruppi e partiti.

Il che naturalmente nulla toglie al valore delle scelte su cui si articola la raccolta di contributi curata da Daniele Vitale, cogliendo lo spunto delle discontinuità di un lavoro che esplicitamente non si vuole esaustivo (il rinvio ad altre opere anche molto recenti e instant di Meneghetti è continuo) proprio per sottolineare soprattutto le fasi critiche, in cui la virtuosa e costante dialettica tra riflessione personale ed evoluzione del contesto culturale generale, colloca più attivamente il proprio contributo.

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