L’urbanistica come arte (1925)

Hampstead_detailAl vasto pubblico sta diventando sempre più familiare l’urbanistica, vuoi come scienza, vuoi come attività professionale di specialisti che redigono piani stradali, di zone industriali, norme di zoning per regolamentare il tipo di insediamento e le densità. Non si coglie però allo stesso tempo che l’urbanistica è anche un’arte, tanto quanto essa è una scienza. Cosa che rappresenta un pericolo, dato che le due componenti del tutto sono tanto strettamente legate l’una all’altra da non poter essere separate, pena la distruzione di tutto il valore dell’urbanistica. Che non riuscirebbe solo come scienza, se non fosse praticata anche come arte; e fallirebbe in quanto sola arte, se se ne scordassero glia spetti di scienza. E l’equivoco su questa duplice natura non si limita al grande pubblico: anche fra gli esperti non si è ancora raggiunta quella chiara unità di valutazione che si potrebbe auspicare.

La cosa non sorprende, visto che le ultime generazioni non capiscono l’arte, e non colgono la funzione di chi è dotato di sensibilità artistiche nella nostra società. Energie che perciò sono state deviate verso percorsi collaterali di minore importanza. Una delle grandi necessità della nostra epoca è di introdurre nella complessità della civiltà meccanica, di cui le città sono espressione, anche la creatività e la visione dell’artista. Ciò non per sminuire il valore di coloro che definiamo persone pragmatiche, ovvero per fortuna la gran maggioranza dell’umanità, né per sottovalutare l’importanza del loro contributo alla nostra vita. La continuità e il benessere sociale dipende dalla costanza con cui essi sviluppano le proprie attività pratiche, perfezionano i propri metodi, avanzando passo dopo passo nella fiduciosa costruzione del grande edificio, mattone su mattone. Ma non è soltanto in questo modo, però, che le città moderne sono cresciute sino a diventare quel che sono oggi.

Ogni dinamico imprenditore, da pratico uomo d’affari quale è, considera le condizioni esistenti e sceglie il migliore appezzamento di terreno al prezzo che riesce a permettersi, alla periferia della città che gli interessa. Scopre che la speculazione sui terreni ha già fatto arrivare questo prezzo al massimo del valore, a volte anche oltre; ma confrontando questo prezzo pur elevato per una localizzazione vantaggiosa e uno più basso che però comporta qualche inconveniente, farà la sua scelta migliore. Da lì in poi potrà dedicare tutte le proprie energie e cure al lavoro sul suo specifico progetto. Questo è il dono della praticità, senza prezzo. Senza il quale la civiltà non potrebbe continuare ad esistere. Ma non basta. Ē una vera ingiustizia per questi stessi pragmatici uomini d’affari, che con la loro costanza nell’agire costruiscono il grande edificio della città, che il loro lavoro non possa essere anche guidato dalla visione creativa di un grande piano ricco di immaginazione. Perché solo così si colgono al meglio tutte le occasioni della città, e si possono offrir loro non semplici lotti edificabili, ma gli spazi più adeguati e le migliori strutture per quei progetti che il contesto consente.

Di solito si tende a pensare un forte contrasto fra la persona pragmatica e l’artista. La facoltà artistica dell’intuizione, che comprende la capacità più o meno accentuata di capire cosa si può o si potrebbe fare, la spinta a tradurla in realtà, a darle espressione evidente, è una delle caratteristiche più pragmatiche e utili di cui si può essere dotati, se essa riesce a svolgere adeguatamente il proprio ruolo nella società umana. È dall’unione del lavoro pragmatico con l’operare artistico che scaturisce il progresso. Ciò che chiamiamo atteggiamento artistico non è facile da definire, né generalmente riconosciuto, si tratta di capacità possedute appieno solo da chi le condivide. Perché esiste chi ha qualche capacità di visione, ma non la spinta a tradurla in realtà, altri mancano di energia, o di capacità espressiva. Dato che esistono alcuni in grado non solo di concepire grande bellezza, ma anche dotati della straordinaria capacità di esprimerla in colori, parole, suoni, è stato forse troppo sommariamente giudicato che siano solo queste le forme espressive del temperamento artistico, che il compito adeguato di chi ha questo dono, evitando tutto quanto è pratico, sia di operare, per quanto in modo imperfetto, nell’una o nell’altra delle belle arti.

Vediamo così centinaia di coloro che sono dotati di qualità artistiche sprecare la propria esistenza nella produzione di quadri modesti, o poesie, o musiche altrettanto modeste. Mentre negli affari pratici manca qualunque ispirazione e guida immaginifica, con cui invece attraverso un’adeguata preparazione essi potrebbero contribuire: la fantasia, come tutte le altre qualità, si può usare per finalità utili. E l’urbanistica, a mio parere, è un’attività che più di altre basa la propria riuscita sull’applicazione di questa facoltà ai problemi da risolvere. Prima di lasciare che gli uomini pragmatici possano aggiungere casa a casa, strada a strada, dedicare tutte le proprie energie a portare a temine i propri progetti, e farlo in tutta certezza e bellezza, ci deve essere una visione di quanto la città nel suo insieme potrebbe diventare, un progetto o piano che indichi la migliore organizzazione degli spazi per il lavoro, il commercio, abitare e passare il tempo libero. Con le indicazioni e gli orientamenti degli uomini pragmatici, usando al meglio la loro esperienza e le loro conoscenze, chi è dotato di sensibilità artistica può aprire la strada, esprimerne la visione in un quadro comprensibile in grado di tradursi in realtà concreta. E farlo in modo che il nuovo ordine, i rapporti fra le varie componenti, le proporzioni e organizzazioni parziali, diventino espressione della vita della comunità in forma di magnifica città.

Alcuni non colgono questo aspetto artistico dell’urbanistica, convinti che un piano possa derivare solo da dati tecnici, che il progettista possa assorbire la massa dei dati statistici che descrive tutti i vari aspetti e bisogni della vita di una città, e rispondere ad essi via via, escludendoli da un elenco man mano si risolvono. Ma non è così che nascono i grandi piani. Dati e statistiche servono; l’urbanista deve proprio assorbirli; ma badare che non siano però loro ad assorbire lui. Perché gli possano essere d’aiuto li si dovrà per quanto possibile mettere in forma grafica, così che siano facilmente compresi, ed esercitino la necessaria influenza sulla costruzione preliminare del quadro mentale di progetto. Anche aspetti apparentemente semplici, come ad esempio un villino operaio, non si possono affrontare adeguatamente col sistema della pura elaborazione: i rapporti fra le stanze, le diverse componenti, la relazione attraverso le porte, le finestre, camino, ripostigli e altri dettagli, una moltitudine di variabili da risolvere via via spuntandole dall’elenco, un lavoro enorme sempre che si arrivi a un buon risultato.

Il vero architetto però non lavora in questo modo, e al contrario usa la propria immaginazione. Mentre progetta il villino tiene sempre presenti le immagini della vita che si svolgerà al suo interno. Non è necessario che ricordi ogni particolare; ad esempio colloca la cucina economica in rapporto alla finestra, così che chi la usa non interferisca con la luce, ma non lo fa perché consapevolmente tiene presente quella regola, ma perché ci sarebbe qualcosa che disturba l’immagine della cucina e dalla vita che vi si svolge. È questa la differenza fra un progetto e il semplice spuntare un elenco di problemi: è vedere i rapporti, le proporzioni fra tutte le parti componenti, ed esprimerle in forma di disegno. Rapido, perché l’immaginazione lavora per balzi, ma non certo semplice, perché bisogna conoscere a fondo la situazione nel suo insieme, capire nel profondo quali ne sono gli elementi, costruire istintivamente un’immagine mentale. Questa capacità di astrarre dai particolari del problema, di cogliere il quadro generale della vita a cui si sta rispondendo, si tratti di un villino o di una intera città, guida l’urbanista e impedisce di farlo impigliare nell’enorme massa dei dettagli, nella moltitudine delle risposte, situazioni, materiali, azioni, che lo compongono e chiedono soluzione.

In urbanistica, molto più che in edilizia, la massa dei dati diventa così ingente da richiedere al massimo grado una capacità immaginativa ben formata, che possa liberare da essi il progettista, consentendogli una visione della città, della vita che si svolge complessivamente in quello spazio. Se l’urbanista ha un’immaginazione adeguatamente formata, se ha osservato tutte le fasi della vita urbana, riflettuto su di esse, se è entrato in sintonia coi bisogni e i limiti di ciascuna, e costruito una visione per fare in modo che possano svolgersi in modo migliore e più efficiente, tutto ciò entra a far parte della sua conoscenza istintiva, e contribuirà a definire e perfezionare le immagini che riesce ad evocare. Visioni da artista che senza dubbio devono essere anche guidate e verificate dall’uomo pragmatico e dallo scienziato, che operano con metodi diversi, ma è il dono dell’immaginazione creatrice che solo può, da una gran massa di particolari, ricavare un vero progetto generale, nel quale tutte le varie parti assumono un ruolo in relazione alle altre, ciascuna con propria specificità e con le dovute proporzioni rispetto al tutto. È questa capacità di evocare un nuovo ordine, a trasformare una visione in realtà, da cui scaturisce quel che di misterioso in più che chiamiamo bellezza, l’espressione più alta dell’immaginazione, anche se non certo l’unica.

Ritengo la si possa trovare fra gli architetti, questa capacità tanto necessaria. La loro formazione è particolarmente orientata a stimolare ed esercitare l’immaginazione: già nel singolo edificio essi cercano soluzioni a problemi del medesimo tipo, anche su su scala contenuta. Ma conta poco se è l’architetto ad esercitare la sua capacità formata all’arte del progetto, nello studio della condizione urbana e dei suoi problemi, oppure l’urbanista già formato agli aspetti più scientifici, che spinto dalla necessità di immaginare la esercita sino a diventare pienamente padrone dell’arte del progetto, creatore di bellezza! Ciò che conta è l’uso delle capacità adeguate, nonché la reciproca comprensione e rispetto per chi le sfrutta, dato che di solito le possiedono in molti. Sostengo il pieno riconoscimento dell’importanza pratica dell’intuizione artistica nella vita umana; la comprensione che l’urbanistica non è solo scienza, ma nella stessa misura anche arte, e richiede l’esercizio di un’immaginazione formata e di capacità creatrice. Sono convinto che solo in questo modo si possa pensare a una città che sia magnifico spazio di vita civile, in grado di infonderci tutti i vantaggi della cultura comune.

City Planning, luglio 1925, Titolo originale: The Art of City Planning – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Immagine di copertina da: Raymond Unwin, M.H. Baillie Scott, Town Planning and Modern Architecture at the Hampstead Garden Suburb, Londra 1909

Commenti

commenti

2 pensieri su “L’urbanistica come arte (1925)

  1. Molto interessante
    comporre la città coniugando la forma con l’architettura la quantità con la qualità
    città paesaggio architettura il progetto urbano torna ad essere lo strumento completo per creare armonia e bellezza

    • Il progetto urbano all’epoca in cUi scriveva Unwin non “tornava” a nulla: semplicemente c’era pochissimo altro

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