Mangiare in santa pace sul territorio

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Foto M. B. Style

Spesso la produzione agricola locale viene vissuta e percepita come una specie di moda, roba trendy per chi se lo può permettere, di interesse circoscritto. Invece, oltre a interessare tutte le fasce sociali e i settori economici, assume oggi valore globale e politico. Le varie proposte per la tutela degli spazi di produzione e il contenimento del consumo di suolo a funzioni urbane, spesso si attirano motivate critiche, la principale delle quali è di essere settoriali, potenzialmente inefficaci se non rafforzate in alcuni aspetti sistemici, propositivi riguardo all’assetto del territorio in generale, il rapporto città-campagna, quindi in grado incidere su altre distorsioni del nostro modello di sviluppo urbano, infrastrutturale, socioeconomico. Critiche fondate, se si pensa che parallelamente molti altri soggetti anche pubblici (ovvero «colleghi» di chi sta legiferando) con la scusa di rilanciare economia e occupazione si prodigano nel varo di grandi opere, stradali e non solo, vere e proprie macchine da guerra quanto a frazionamento di territori agricoli e dispersione insediativa, ovvero le cause principali dello spreco di suolo.

Ma c’è un’altra osservazione pertinente, sulle culture che sottendono la tutela dell’equilibrio città-campagna, e riguarda il loro localismo, o meglio vistoso distacco dalle pratiche di trasformazione, distribuzione, consumo più diffuse, che fanno generalmente riferimento alla dimensione globale dei mercati: approvvigionamenti dalla rete internazionale prima di tutto, con le lodevoli ma episodiche eccezioni di alcune nicchie elitarie e/o militanti. Oggi più che mai occorrerebbe ribadire che, oltre la soggettiva soddisfazione di chi sente di poter fare qualcosa personalmente proprio muovendosi in questo ambito (come consumatore o come operatore o produttore), diventa urgente una azione per far si che la cultura del chilometro zero diventi norma per una quantità enormemente più vasta di prodotti e una estensione enormemente maggiore di reti. In gioco c’è molto di più del paesaggio e del territorio locale, di equilibri a scala regionale, o addirittura dell’ambiente: sono a rischio la sicurezza e la pace mondiale.

Lo sostengono parecchi studi, che hanno individuato da tempo nel mescolarsi perverso delle speculazioni sulla crisi petrolifera, del cambiamento climatico coi suoi effetti sui cicli agricoli locali, e soprattutto nella pratica dell’accaparramento di suoli agricoli (land grabbing) un bomba a tempo che deve essere disinnescata con urgenza. Nel giro do pochissimi anni infatti si è consolidata nei paesi poveri e in via di sviluppo la tendenza a cedere in proprietà o in affitto vastissime superfici di territorio, di dimensioni quasi inconcepibili per un europeo, calcolabili in milioni di chilometri quadrati complessivamente. Lo scopo di queste enormi distese è quello di sostituire e affiancare le produzioni agricole della madrepatria, sia in termini di derrate alimentari, sia in termini di colture a scopi energetici. Si è toccato dal punto di vista ambientale e climatico l’effetto che questo tipo di globalizzazione agricola e dei mercati ha sui consumi petroliferi e le emissioni dei trasporti su lunghissime distanze. Da qui, soprattutto, è nata la cultura del chilometro zero, prossimità produzione-consumo per contenere o addirittura azzerare questo genere di effetti. Ma c’è naturalmente molto altro.

Il land grabbing avviene quasi sempre in situazioni di democrazia a dir poco imperfette, spesso di corruzione e di sostanziale cessione di sovranità per i territori venduti o affittato agli investitori. Ciò vuol dire intere popolazioni strappate alla propria terra, spesso per carenze legislative sulla proprietà, spesso con metodi apparentemente più accettabili dal punto di vista umano, ma egualmente devastanti se si mette in conto il rapporto e l’equilibrio società-territorio-risorse. Sui due fronti in sostanza avviene che sul lato dei paesi più ricchi, destinatari delle produzioni, la superficie agricola esistente può con maggior facilità essere convertita ad esempio a funzioni urbane, e comunque non diventa oggetto di ricerche privilegiate, investimenti produttivi, tutela particolare. Ciò perché la pressione del mercato trova sfogo nella grande disponibilità delle altre superfici, quelle sottratte ai paesi in via di sviluppo e alle popolazioni contadine che le abitavano e coltivavano. Al duplice effetto di squilibrio ambientale si somma dunque una grave emergenza sociale e politica: la creazione quasi pianificata di masse diseredate senza patria e senza radici, che possono alimentare i flussi già discutibili dell’urbanizzazione forzata a slum e/o della migrazione verso paesi più ricchi; la fame che quasi fatalmente interessa non solo le popolazioni così private della principale attività di sussistenza, ma anche le potenzialità che quei territori con adeguati investimenti e promozione possano rivolgersi al mercato locale.

Si intuisce quindi come contrastare l’accaparramento di suoli agricoli da parte di operatori e speculatori senza scrupoli sia una vera e propria urgenza, che ci tocca molto da vicino, e non solo moralmente. Per farlo esistono naturalmente molti strumenti a vari livelli, e il primo che viene in mente è quello degli organismi internazionali che hanno queste azioni come compito statutario, e degli stati nazionali che attraverso la loro pressione politica possono favorirla e complementarla. C’è però un altro piano di azione di meno immediata visibilità, quello locale sia statale che regionale o metropolitano, che può coinvolgere molto direttamente i cittadini e il tessuto economico a cui partecipano in modo per nulla simbolico o indiretto. Se il land grabbing opera sul piano dell’offerta di superfici per attività agricole e prodotti di consumo, i territori locali possono contrastarne il ruolo attraverso una sorta di concorrenza, producendo a loro volta alimenti e integrandoli nella rete di attività locale con maggior efficacia di quanto non avvenga con le importazioni da lontano. È uno dei tanti modi in cui si declina lo slogan «pensare globalmente agire localmente», e con un obiettivo che è immediatamente sia globale che locale. In questo senso, e con implicazioni che sarebbe forse troppo lungo discutere, anche limitate norme sul contenimento del consumo di suolo sono un passo avanti. Sempre che non vengano vanificate dall’azione contraria di soggetti concorrenti, ma questa è ovviamente un’altra storia.

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