Mobilità dolce e lavoro metropolitano

Spesso i teorici della città terzo millennio ribadiscono come il futuro delle economie locali stia nella conoscenza, meglio ancora se nella conoscenza di secondo grado, quella che produce idee in grado di riprodursi in idee di gerarchia inferiore, e così via. Forse è anche giusto rispondere così alle indirette aggressioni dei tradizionalisti dello sviluppo che non si allontanano mai dal loro modello sostanzialmente industriale, a sua volta legato a crescita continua, espansione territoriale, per arrivare abbastanza presto ai peana sulla superiorità sociale e democratica dello sprawl col capofamiglia che parte in missione ogni mattina dallo steccato bianco. Ma, ci spiegano meglio le ricerche progressiste, è vero che l’uomo non vive di sole idee, e per esempio di grano per mangiare, o petrolio per scaldarsi e produrre altri attrezzi, che poi gli servono per zappare il grano eccetera. Però come ci insegnano millenni di evoluzione tecnologica, sia le quantità che le qualità delle trasformazioni fisiche che chiamiamo ricchezza dipendono al 100% dalla qualità e quantità delle idee da cui discendono.

Ancora per fare un esempio vicino ai nostri temi abituali, il valore del petrolio, e magari anche gli impatti ambientali suicidi del suo sfruttamento, cambierebbero parecchio nel passaggio da un buco per terra per alimentare una fiamma, alle forme un po’ più raffinate odierne, incluse quelle del risparmio o dei calcoli sul picco di produzione. E tornando alla faccenda del suburbio automobilistico, vera camera di decompressione di tutto questo discutere su modelli assai più astratti di sviluppo, emerge chiaro quanto l’ideologia della capanna di tronchi persa nella prateria faccia a cazzotti coi giovani intellettuali postmoderni nelle piazzette pedonalizzate stile new urbanism, dove ormai stabilmente li colloca l’immaginario collettivo. Le cose però non sono così facili, ovviamente, non ci sono i buoni e i cattivi, il bene e il male.

Basta aggiungere al cocktail un altro fenomeno, che per ovvi anche se diversi motivi di bottega sfugge a molti: la cosiddetta suburbanizzazione della povertà, ovvero che gli sterminati quartieri di villette, funzionanti esattamente come nei sogni del determinato William Levitt anni ’50, non sono più popolati esclusivamente da impeccabili rappresentanti della middle class, comunque intesa, come quando spuntavano sul palco della sociologia moderna negli studi dell’altro William, Whyte, che col suo L’Uomo dell’Organizzazione di fatto ce ne svelò l’esistenza e il ruolo. Quello che oggi irrompe è invece l’esito di un processo migratorio abbastanza strisciante prima, reso evidente dalla crisi poi, secondo cui minoranze e ceti a basso reddito hanno ripopolato le aree della dispersione insediativa.

Cosa si può dire, in sintesi? Che da un lato il modello di vita industrialista suburbano o delle sacche urbane tradizionali sopravvive e anzi conferma la sua forza (ad esempio confermando governi nazionali e locali sostenuti dalle lobbies autostradali, villettare e capannonare). Che d’altro canto esiste, ed esprime altrettanta forza stavolta proiettata verso il futuro, quella economia locale delle idee certamente più vicina alle alte divagazioni sociologiche e ambientaliste, che però dal punto di vista del modello di città e relativa società galleggia ancora in un limbo, ed è priva di chiara rappresentanza politica. Perché certo non bastano gli elettroni della indefinita smart city a costruire un’alternativa credibile e praticabile alla cosiddetta città infinita o diffusa a seconda di chi si fa interprete della narrazione ultraconservatrice. Quella delle autostrade, dei capannoni, delle villette a schiera rancorose e un po’ razziste che, complici le cicliche crisi più o meno manovrate, rischia di ingoiarsi idealmente anche le caricaturali downtown mixed-use terziarie cresciute nei cicli di effimero miracolo palazzinaro-finanziario.

E non di ingoiarsele secondo quei soliti processi di disinvestimento, analoghi in fondo alla suburbanizzazione novecentesca, ma in quel modo assai più sottile e strisciante che, ad esempio nei processi di gentrification o di ricolonizzazione commerciale, vede la logica suburbana atterrare in città con i suoi antichi e autoritari sbrigativi riti, specie nelle gerarchie e nell’organizzazione del lavoro, per non parlare di una propria particolare idea di composizione funzionale e zoning. Come accennato nel titolo di questo articolo, lo spunto è l’idea di mobilità dolce per lavoro così come emerge da un articolo di giornale che parla delle «Nuove opportunità nel settore logistico» con la creazione di posti di lavoro. Logistica, come ben sappiamo, è parola che evoca già di per sé lo sprawl, i grandi poli insediativi che si stanno assestando con vario successo nei nodi autostradali. Logistica sono gli infiniti mezzi su gomma che dalle dorsali di interscambio si riversano nei rivoli della viabilità minore e locale ad alimentare produzione e consumi. Logistica però è anche strategia e management, cose abbastanza smaterializzatelogistica e rarefatte da suggerire all’immaginario uno sfondo urbano, posti di lavoro di alto livello, cose ben diverse dall’inferno camionistico o dei furgoni persi nelle consegne in qualche cul-de-sac.

All’immagine camionale dispersa evocata dal termine logistica, l’articolo citato sceglie di sostituirne un’altra, molto vistosa e a tesi: spicca a centro pagina, l’immagine bella grossa e colorata (un disegno, non una foto) di un ragazzo in sella a una bicicletta tipo cargo, che sfreccia tra i grattacieli trasportando un enorme scatolone sul piano di carico. Classica immagine da smart city, ma che ovviamente evoca problemi a non finire. Perché, esattamente come dietro alle solite immagini patinate dei giovinotti e giovinotte creative class intenti a guadagnare milioni digitando su un tablet, ci sono anche tutti quelli che si rompono la schiena quasi gratis per garantirglieli, quei milioni: dietro al ciclista logistico a colori, che non inquina e si mantiene in forma, si cela un’idea del mondo.

Un mondo in cui c’è la downtown terziario direzionale che bene conosciamo, coi soliti grattacieli da architetti, e le aiuole coi praticelli appena sotto, per farsi guardare dai privilegiati manager della logistica e dai loro ospiti in ufficio. Là sotto, in basso (nella gerarchia sociale e anche di inquinamento) si aggirano le biciclette da carico con gli scatoloni, introdotte obbligatoriamente dopo le pedonalizzazioni, ma tutto a un certo punto finisce, perché il raggio d’azione dei fattorini a pedali scavalca naturalmente il quartiere direzionale, e comincia a inoltrarsi nella città vera e nella dispersione che la circonda. Lì ci sono traffico, inquinamento, povertà e stridore di denti.

La metropoli dei flussi immateriali c’è, ma i fattorini a pedali «sostenibili» la vedono soprattutto attraverso lo smartphone aziendale che comunica direttive. Paranoica visione, questa, di futuri cupi, di medioevi prossimi venturi? Magari anche un pochino, ma è certo che continuando a non rivolgersi mai con idee progressiste e accettabilmente futuriste alle fasce meno scolarizzate della popolazione, alle fasce meno agiate, alle fasce meno urbanizzate, si scava la tomba a qualsiasi idea di progresso nel senso di redistribuzione dei vantaggi tecnologici e organizzativi. Alle stesse idee di cui ci si vorrebbe paladini: non c’è nulla di smart, di intelligente in una città che è virtualmente anticittà.

Dove magari ci sono tante idee, ma tutte concentrate da una parte, mentre le risorse di base stanno dall’altra, e quelle sociali da un’altra ancora. Dove le classi autonominatesi dirigenti stanno asserragliate dentro un pensatoio che produce idee, per sfornare altre idee, che tornano ad alimentare idee di primo livello … senza mai confrontarsi col bagno rigeneratore della realtà. O meglio del territori, se parliamo di cose specificamente urbano-sociali-ambientali. Per adesso c’è stato lo stupore del mancato consenso ai bravi bambini volenterosi e pieni di idee per il progresso del popolo. Poi potrebbe arrivare il peggio, dallo sprawl creato e tollerato, oggi pudicamente nascosto dietro un patetico schermo di tablet alimentato a ideologia e ribattezzato smart city, manco fosse un dentifricio.

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