Origini bibliche e storiche della Green Belt (1945)

Le Tre Calamite sul frontespizio di To-morrow A Peaceful Path To Real Reform, 1898

La grandiosa idea della città giardino di Ebenezer Howard alla fine, dopo lunga battaglia e tante contraddizioni, è stata accettata. Così come lo si intende il temine «Città Giardino» significa al tempo stesso città in un giardino che città di giardini. Uno dei suoi tratti distintivi è il margine imposto alla crescita della città, e la separazione tra una città e l’altra tramite zone di territorio rurale da cui è esclusa l’edificazione. Molto modestamente Howard definiva il proprio schema come «somma» di altre precedenti proposte (che è un po’ come descrivere così la macchina a vapore di Watt o la valvola termica di Fleming) e pensava che fosse stata anticipata da J. S. Buckingham quando nel 1849 proponeva una città ideale su 400 ettari per 25.000 abitanti, circondata da una tenuta agricola. Ma né Buckingham, né per quanto abbia potuto verificare io altri autori, anticipano il concetto di Howard: una fascia agricola permanentemente destinata al contenimento dell’espansione.

Precedenti biblici

Le singole idee anticipatrici sono moltissime. La più antica forse nell’organizzazione prescritta per le Città dei Leviti in Palestina verso il XIII secolo a.C.: «Il Signore disse a Mosè […] Ordina agli Israeliti che dell’eredità che possederanno riservino ai leviti città da abitare; darete anche ai leviti il contado che è intorno alla città. Essi avranno le città per abitarvi e il contado servirà per il loro bestiame, per i loro beni e per tutti i loro animali. Il contado delle città che darete ai leviti si estenderà per lo spazio di mille cubiti fuori dalle mura della città tutt’intorno». Passaggi successivi forniscono dimensioni diverse e contraddittorie ma lo schema appare chiaro: «La città sarà nel mezzo» (5). Altri riferimenti nell’Antico Testamento (Cronache, 6 e 13; Giosuè, 21) parlano di queste Città dei Leviti. Che appaiono così come descritte nei Numeri «fortificate e molto grandi». La dimensione è un concetto relativo. In alcuni casi le abbiamo individuate e riscoperte: Gezer, una delle più grandi, copriva un’area urbanizzata di circa dieci ettari. La fascia rurale, se interpretiamo correttamente la citazione dei Libro dei Numeri, era quindici volte la città. E si trattava di una superficie inalienabile: «i campi situati nei dintorni delle città levitiche non si potranno vendere, perché sono loro proprietà perenne».

La Città dei Leviti descritta dal Libro dei Numeri e realizzata a Gezer

Il fatto che l’idea di terre a pascolo tutto attorno alla città sia molto radicata si conferma nella proposta di Ezechiele di sette secoli più tardi (592-570) per la pianta di Gerusalemme. Confesso che non vorrei condividere questo onere di pensare una città secondo i criteri del Libro di Ezechiele, 45, con dimensioni così sproporzionate rispetto alla geografia della Palestina, da farmi sospettare che siano stati i trascrittori e traduttori a «interpretare» quei cubiti. Se escludiamo quel calcolo la Città Santa assume proporzioni più ragionevoli, attorno a un po’ più di tre chilometri quadrati, con una fascia interna (o «cintura urbana») profonda 140 metri, e più oltre verso est e ovest «terre da coltivare per mangiare» profonde cinque o sei chilometri, e verso nord un vasto territorio aperto di diciotto chilometri quadrati destinati a Sacre Oblazioni, Santuario e terre agricole per i Leviti.

Un secolo e mezzo più tardi (444 a.C.) il resoconto di Neemia sulla ricostruzione delle mura di Gerusalemme, nel suo discorso dopo liberato dalla prigionia in Persia, dimostra che le prescrizioni agricole vengono ancora rispettate. E una eventuale espansione dispersa della città sul territorio circostante considerata peccaminosa. Salvo il fatto che ai «cantori» viene concesso il privilegio di abitare in villaggi fuori dalla città (Neemia, 12). Non so con certezza se prima Mosè e poi Ezechiele altro non facessero che sistematizzare ciò che era una ancora più antica usanza, o se appartenesse anche ad altri popoli diversi dagli Ebrei. Sono però sicuro che nessuno meglio di loro nella storia si sia avvicinato di più ad anticipare nella sostanza Ebenezer Howard.

L’epoca classica

I Greci accettano in teoria e in pratica il fatto di limitare la popolazione di una città-stato, ma certo non si tratta del nostro medesimo concetto. L’idea di un tetto alla popolazione ha origini molto antiche; è affermata da Licurgo a Sparta (820 a.C.) o da Solone ad Atene (640-658 a.C.). Platone (428-347 a.C.) fa evolvere la formula delle 5040 famiglie (senza calcolare servi e schiavi) e verrà stigmatizzato poi da Aristotele (384-322 a.C.) per quantità eccessive: «La città di Platone occuperebbe un territorio ampio come quello di Babilonia» (Pol. II, 6). Entrambi pensavano alla popolazione di una città-stato comprendente anche i contadini extraurbani. Platone, per essere precisi, prescriveva una città al centro della campagna; e Aristotele sosteneva che dovesse avere spazi aperti su un lato (a est). Inoltre Aristotele si riferiva alle idee urbanistiche dell’architetto Ippodamo di Mileto (nato nel 480 a.C.) non divergenti da quelle dei Leviti (Pol- II, 8). Nella prospettiva del limite di popolazione della teoria greca, il semplice fatto dei margini alla città fisica non costituisce un vincolo, dato che l’impulso allo sciamare lontano degli abitanti in crescita deriverebbe piuttosto dai limiti alla capacità del territorio dello stato di dargli da mangiare. Non vedo tracce, in qualunque schema urbano greco-macedone, di spazi destinati a una fascia rurale, anche se non è detto che potesse esistere qualcosa di corrispondente ai pascoli della città dei Leviti.

Il Pomerium e Ager Effatus degli antichi romani indica una tradizione di limiti posti alla crescita della città, e che questi limiti debbano essere considerati funzione specificamente ed esclusivamente pubblica, non certo discrezionalità privata. Il pomerio era uno spazio sui due lati delle mura urbane, manenuto sgombro da edifici e colture, e controllato contro ogni espansione sia dal senso comune che dalla legge. Evidente la funzione militare di questo spazio; ma non credo che da sola spieghi la tradizione, che si ritiene di origine etrusca. L’Ager Effatus (spazio dichiarato) è una fascia di spazi aperti distinta dal pomerio e al di fuori di esso: esistono quindi due distinte zone a contenere potenzialità diverse. Se la città si allarga si traccia una nuova linea di pomerio con tutta la solennità del caso (il solco arato da una mucca e un toro ecc.) mentre viene de-consacrata la superficie dove si potrà costruire. Quindi ci sono molti aspetti di cautela per mantenere l’equilibrio urbano-rurale e dei margini alla città che fanno pensare già alla fascia rurale di Howard. Ma certo il Pomerium, straordinario in sé, è solo una stretta striscia attorno alla città, e non pare che l’Ager Effatus abbia qualche divieto contro una edificazione periferica.

Cittadini e attività di campagna

Gerusalemme descritta da Ezechiele (utilizzando proporzioni diverse dai suoi «cubiti»)

La storia della civiltà è fatta di distinzione tra città e campagna, tra agricoltura (e allevamento) e altre attività dell’uomo che prevedono un insediamento di maggior prossimità. Con rare eccezioni sino quasi ai nostri giorni è chi abita in città a gestire l’economia delle campagne, un artigiano o commerciante che coltiva la terra dentro o appena fuori dalle mura; un fattore [Osborn usa il termine «husbandman» tra virgolette qui a dare senso anche linguistico all’accoppiamento n.d.t.] può possedere piccoli appezzamenti dentro la città ed altri più grandi al di fuori di essa a volte adibiti al pascolo. Tutte le «città» bibliche e dell’epoca classica, i villaggi medievali con riferimento a una grande tenuta, le cittadelle murate rinascimentali, in questo differiscono di poco. In molti casi i cittadini che si dedicano (a volte a tempo parziale o con coinvolgimento familiare) a questo «husbandry» condividono diritti di pascolo su terreni comuni fuori dalle mura.

La tormentata storia dei diritti sulle terre degli Ebrei, dei Romani, e poi nelle epoche medievali e moderne, evidenzia il conflitto tra la spinta dei potenti e ricchi intraprendenti di privatizzare delimitare e accrescere la produttività di questi terreni comuni spossessando gli operatori minori per fondere i piccoli poderi in entità più grandi, e per contro la tendenza delle masse a spezzettare le grandi proprietà per ottenere i propri «due jugeri» (poco più di mezzo ettaro) o il cosiddetto «un ettaro e una vacca». La sensibilità popolare si oppone sempre alla sovrapposizione dell’edificato sugli spazi aperti nei pressi delle città, o alla appropriazione dei ricchi per realizzare la propria tenuta. Ma ciò significa semplicemente la persistenza della aspirazione alla fascia di contenimento urbano-rurale. Certo non di un meccanismo legale (se si eccettua la prescrizione dei leviti) per mantenerla nel tempo.

Le epoche coloniali

Si nota quanto sia consapevole la correlazione tra città e campagna, l’idea di mantenere un equilibrio in assenza di altri mezzi di sostentamento, nei periodi di colonizzazione. Quelli classici dai Fenici ai Romani, nel Medio Evo da Alfredo (871-900) a Edoardo III (1327-77) e altri contemporanei, alle colonizzazioni moderne dei Portoghesi o della grande espansione britannica, fino alle più recenti di Italo Balbo in Cirenaica. Le città vengono concepite col semplice espediente di definire lo spazio per i coloni distinto da quello della campagna colonizzata. Nel noto piano di Wakefield del 1830 la superficie urbana non arriva al mezzo ettaro mentre quella agricola è cento volte tanto. Le proporzioni cambiano nei 25 secoli ma il principio è generalizzabile. Greci e Romani anticipano la tendenza più moderna di destinare al medesimo colono sia uno spazio in città sia uno in campagna come parte della medesima «assegnazione», il che dà a chi risiede nella zona urbana interesse nel conservare l’equilibrio con quella rurale. Interesse che però finisce davanti al vantaggio di vendere quelle superfici in periferia se si presenta l’occasione con la crescita della città. Non tutti i sistemi coloniali sostengono la formazione di città. Gli olandesi in Sud Africa hanno assegnate grandi tenute e si insediano con la casa al centro di ciascuna senza formare cittadine o villaggi; formano quello schema sociale descritto da Olive Schreiner innescando un conflitto ideologico coi successivi colonizzatori industriali che potrebbe essere alla base delle Guerre Boere. Diverse società determinano diverse modalità d’uso dello spazio urbano-rurale come si è visto nel conflitto della Guerra Civile negli Stati Uniti.

Le anticipazioni delle utopie

Un’altra anticipazione del principio di città circondata da una fascia agricola risale alle Utopie e alla loro letteratura. Fondatore di questo filone è senz’altro Platone: pur non citando esplicitamente la cintura rurale è implicita nel suo impianto di struttura socioeconomica l’idea di limitare la città. Se paragoniamo a Platone l’ingegnere Vitruvio (primo secolo) quest’ultimo appare sociologicamente debole, così come lo saranno i critici di architettura e urbanistica del primo ‘900. Ma Vitruvio propone però una città molto definita nelle forme, priva di periferie «corpose» o staccate, oltre a considerare l’importanza della disponibilità di terreni agricoli nelle vicinanze. La Utopia di Tommaso Moro (1515-16) si avvicina parecchio alle forme della città giardino di Howard. I 54 centri urbani di cui si compone l’Utopia sono distanti l’uno dall’altro almeno trenta chilometri, e si distinguono e correlano contemporaneamente città e campagna, con cittadini impegnati nella «husbandry» che partecipano ai raccolti e i contadini che si recano in città ogni mese. Il centro principale è un quadrato di tre chilometri circondato da mura e da una sorta di Pomerio. Senza uno scopo militare visto che ci crescono cespugli e un po’ di tutto, ma a costituire una zona intermedia tra città e campagna (di nuovo il «margine urbano»).

Moro sottolinea molto il fatto che i bambini della città possano accedere alla campagna e capirla sin da piccoli: «Spesso nella campagna vicino alla città, cresciuti giocando e non solo osservando come la si usa, e a volte partecipando direttamente per esercizio del corpo». Moro è contrario alla formazione di periferie suburbane: quando la popolazione cresce oltre la portata della città gli Utopiani non aumentano le densità o edificano sopra i giardini ma «riempiono i vuoti di altre città». Se queste sono già sature allora «costruiranno la città in un’altra terra là dove agli abitanti sia rimasto molto terreno disponibile non occupato». Quasi casualmente Moro anticipa Howard suddividendo le proprie città in quartieri, ciascuno con un suo piccolo centro e relativa indipendenza alimentare. Anticipa anche Letchworth proibendo i bar, secondo un criterio a cui Howard si opponeva ma che fu sostenuto dall’opinione pubblica della città, schierata con Tommaso Moro da quel punto di vista.

Per gli Utopiani il valore della fascia agricola non è solo economico; Tommaso Moro ci racconta come essi «passeggino a lungo nei campi o negli spazi aperti che appartengono alla città». Non si può mai enfatizzare troppo il desiderio dei cittadini di poter aver a disposizione della campagna, e ne è un esempio il risentimento sollevato nei londinesi ai tempi dell’edificazione di Moorfields sotto Elisabetta, vividamente descritta nel Survey della città, di Stow (Moorfields era un esempio di «pascolo urbano» o «brughiera urbana» risalente a una concessione di Guglielmo il Conquistatore; Howard non sapeva di essere nato e cresciuto in una casa in quei luoghi coincidentemente storici). In generale altri progetti utopici emersi nei tre secoli che seguono quello di Moro non riservano grande attenzione all’organizzazione fisica. Riguardano la religione, i principi di governo, la struttura economica. Ma quando della forma fisica si occupano in genere delineano una città (non sempre murata) che rispecchia l’aspirazione ad essere circondata dal verde. In Nova Solyma per esempio, l’utopia attribuita a John Milton, i notabili possiedono grandi magnifici giardini e tutte le case sono circondate da alberi al punto di «sembrare di stare nel cuore della campagna».

L’epoca dei progetti

Città e campagna nella Utopia di Tommaso Moro

Un ulteriore filone storico rilevante è quello degli innumerevoli piani tra il XVII, XVIII, XIX secolo per alleviare il problema dei poveri urbani. È una vera e propria «epoca di progetti» come la definisce Defoe. Evidente il legame con la spinta coloniale oltre oceano, e si tratta delle idee che poi convergeranno a influenzare la mente originale di Robert Owen, e poi Wakefield, e indirettamente anche Howard. In questa categoria il più classico è il progetto di John Bellers per un Colledge of Industry (1696): insediamento di un numero variabile da 300 a 3.000 persone in un complesso industriale nella campagna inglese. L’idea della fascia di campagna non è specificata ma implicita. Tra i molti altri schemi ricordiamo la «Proposal for a considerable Number of People to joyn Purchas of several thousand Acres of Drein’d and Derelict Land» firmata anonimamente con la sigla R.S. Dove a una citazione di Virgilio segue:

«Il nostro primo Avo fu creato in un Giardino, e noi suoi Discendenti abbiamo naturale Inclinazione a tornarci, tutta l’Umanità mostra con le proprie Azioni che cura dei Giardini e Vita di Campagna sono Oggetti di Amore e Apprezzamento; Grandi Somme di denaro vengono spese nella Cura dei giardini da Re, Principi e Nobili, e quando il verde viene saturato da uno spropositato intasamento per il Piacere di Popolose Città, pensano bene a ciò che fanno (almeno quanti usano pensare seriamente) e si ritirano in Magioni Rurali alla ricerca di ciò che nessuna Folla Umana di Corte o di Città potrà mai dare loro. Solo la fatale Necessità o un depravato Appetito o una Natura corrotta possono farci perdere il gusto della innocente Rusticità».

L’Autore ribadisce (cosa che ci interessa oggi) quanto l’insediarsi di un grande numero di persone su terre rigenerate porti ricchezza «Alle Vicine Città, un maggiore Consumo dei loro Prodotti, e più Occupazione per i loro Poveri». Una consapevolezza delle economie di relazione urbano-rurali che attraversa gran parte dei «progetti» dell’epoca. Il mio riferimento alle contestazioni per Moorfields introduce i successivi proclami e leggi di Elisabetta e del Commonwealth che proibiscono la crescita periferica di Londra. Intesi in parte per proteggere la City dalla concorrenza di altri poli di attività esterni: una battaglia che sarà persa a favore di Holborn e Westminster a causa del disastroso Incendio del 1666. Ma un altro stimolo si trova nelle reazioni dei cittadini alla perdita dell’accesso alla campagna, di cui esistono tracce letterarie per secoli. Permane insomma la sensibilità alla fascia agricola, anche se mancano gli strumenti per rispondere al bisogno.

La comunità di Robert Owen

Arriviamo a Robert Owen, singolarissimo personaggio promotore di tante irrealizzabili idee al punto da poter essere considerato una specie di «architetto a manovella», e comunque un uomo che concepisce idee tanto grandiose per il mondo da poter essere considerato da solo un punto di svolta nella storia. La sua importanza specifica per l’idea di città è il fatto di essere stato il primo industriale a capire che le moderne tecnologie produttive non hanno bisogno della concentrazione di persone in grandi città. Il suo errore è invece quello di non saper distinguere la prossimità fisica dall’integrazione economica: ed è invece l’aspetto su cui Howard lo sorpassa. La proposta di Owen del 1817 per piccoli centri industriali in contatto costante con la campagna non è molto diversa dal progetto di Bellers (che viene citato) salvo che arriva in un momento più adatto.

Ricordiamo che la macchina a vapore viene utilizzata estensivamente nelle fabbriche dal 1785, le guerre napoleoniche sono terminate nel 1815, che è in corso una grande crescita e spostamento di popolazione e attività. Cosa sarebbe accaduto se Owen, industriale di successo e riformatore, non avesse visitato l’America per restare fulminato dal comunitarismo separatista, dal contatto coi Rappiti e altri gruppi religiosi? Il suo dono di saper tradurre le idee in realtà era tale da rendergli possibile qualunque realizzazione salvo quelle irrealizzabili. E la sua comunità economicamente autosufficiente era irrealizzabile. Ma dotata di un fascino enorme sia sul versante economico che su quello delle forme esteriori.

Marx e Engels, persone molto sensibili alle opinioni della classe lavoratrice, presumevano che la grande città fosse un male – corollario di disumanità capitalista – e che dopo la Rivoluzione l’industria si dovesse disperdere nelle campagne. Non parevano troppo interessati alla forma urbana (si vedano sia il Manifesto del Partito Comunista 1848 che La Questione delle Abitazioni di Engels, 1872). Owen aveva le idee molto chiare sulla struttura. Forse se si fosse concentrato su quegli aspetti fisici sviluppando quella che è una anticipazione della «Calamita Città-Campagna» di Howard, avrebbe cambiato l’intera storia dello sviluppo urbano del XIX secolo. Il fatto che le idee di Owen siano state copiate da quel brillante pazzo di Fourier, che mescolava la capacità europea di sistematizzazione filosofica al guizzo giornalistico della divulgazione, contribuisce a rendere ancora più confuso il problema del dualismo città-campagna. Mentre Buckingham (il progetto della città ideale di Victoria è del 1848) mi sembra un più coerente seguace di Owen. Nel 1898 resterà compito di Howard sgarbugliare gli aspetti territoriali e organizzativi da quelli economici della questione urbana.

Le fasce a parco australiane

Edward Gibbon Wakefield nel suo Colonization Plan del 1830 unisce alcune teorie di Owen e autori precedenti con la pratica della colonizzazione. Influenzerà moltissimo le nuove città dell’Australia del Sud e Nuova Zelanda. Si spiegano così abbastanza direttamente le cinture a parco previste nei piani di Adelaide (1837), Wellington (1840), Dunedin(1844), Christchurch (1847). Anche se il riferimento specifico per queste Park Belt a mia conoscenza non è stato mai ricostruito, e resta compito degli storici competenti. Wakefield sviluppa l’idea di controllo dell’organizzazione urbana, contrasta (con successo) la dispersione dei coloni su vastissime aree, che aveva determinato la necessità di lavoro bracciante e schiavi. La necessità di concentramento programmato porta alla gestione del territorio da parte delle compagnie coloniali, e dei poteri amministrativi per una funzione di piano urbanistico-territoriale, che non impedirà però la successiva distorsione degli stessi piani (come invece succede col metodo di Howard del diritto di superficie).

Il Colonnello William Light si accinge a individuare il luogo e decidere le forme della città capitale del Sud Australia (1837). È uomo di cultura, noto artista e «il miglior esperto di paesaggio dell’Australia». Sarà lui a dare ad Adelaide la famosa Park Belt. Una indicazione che gli è stata data dalla Compagnia coloniale? Non ho le prove che sia andata così, anche se gli viene espressamente richiesto di destinare a spazi aperti strisce di trenta metri lungo la costa, e diciotto metri lungo le sponde di fiumi e laghi. La fascia a parco è una ispirazione del Colonnello oppure no? Ed è solo seguendo quel precedente che la New Zealand Company nel luglio 1839 fornirà specifiche istruzioni al Capitano Smith in partenza da Londra per fondare Wellington?

Una città-territorio ideale secondo José Luis Sert, 1942

«Nel definire l’organizzazione della città si lascino ampie superfici di spazi a scopi pubblici, come il cimitero, il mercato, gli attracchi, i previsti edifici pubblici, un orto botanico, ampi viali. È anche molto auspicabile che fuori dalla città nell’entroterra a separarla dal resto del territorio sia stabilita una ampia fascia di terreni, che la Compagnia intende mantenere di proprietà pubblica, senza che si possa costruirci nessun edificio. Quanto alla forma della città lasciamo a Lei di decidere secondo il Suo gusto e giudizio. Su questo aspetto i Direttori si limitano a chiedere che si ragioni pensando più al futuro che al presente, tenendo dovuto conto dell’interesse pubblico, facendo sì che l’aspetto della città sia ispirato alla bellezza in futuro, e che si provveda a questi obiettivi nel piano originale anziché lasciarli alla discrezionalità dei vantaggi immediati della Compagnia» (John Ward, Informazioni Relative alla Nuova Zelanda, 1841).

È possibile che l’idea si sia sviluppata gradualmente. Nell’insediamento del Nuovo Galles del Sud, la Corona dà indicazioni al Governatore Macquarie (1809) «perché per ogni territorio venga individuato il luogo adatto ad una città sufficiente al numero di famiglie che verrà giudicato necessario insediare, con terre e pascoli come si conviene». Più tardi (1810) a Macquarie sarà specificato come il piano debba conformarsi al «modello fornito» oltre a prevedere abbondanti spazi aperti comuni per il pascolo. Non sono riuscito a trovare altre tracce di questo «piano modello» che venne applicato alle cittadine di Windsor, Richmond, Pitt Town, Wilberforce, Castlereagh e Liverpool. Già prima di allora (1792) il Governatore Phillip aveva vincolato a usi pubblici senza possibilità di alienazione o cessione un common di 400 ettari a due-tre chilometri dalle cittadine per usi e vantaggi «perpetui» degli abitanti (dove sarà finito?).

Mettendo tutti i riferimenti uno accanto all’altro credo che emerga: a) l’aspirazione, o tradizione, ad una città con accanto terreno non costruito; b) che nelle prime reazioni disgustate allo squallore crescente della Rivoluzione Industriale emerga la consapevolezza del valore di una campagna prossima. Non saprei dire però chi e come riesca a cristallizzare almeno parte di questa idea nella Park Belt di Adelaide e nelle città della Nuova Zelanda. Forse il Colonnello Light, anche se non parla esplicitamente del principio spaziale nel suo Brief Journal (1839) il che mi fa sospettare possa averla assorbita da qualche entusiasta n Inghilterra. Del resto che la Park Belt sia un fatto abbastanza casuale anziché applicazione di un sedimentato principio ce lo dice la storia seguente. Sul totale di oltre cento chilometri quadrati che copre l’area suburbana di Adelaide nel 1917 ci sono soltanto meno di cento ettari espressamente destinati a spazio aperto, e anche a Melbourne la situazione pare analoga. Christchurch in Nuova Zelanda vende addirittura la propria fascia di parco per usi ferroviari e altro, e Brisbane dispone dei propri spazi aperti urbani nello stesso modo.

Il contributo di Howard

Come si comprende a questo punto, se il concetto espresso da Howard, di una fascia agricola espressamente destinata attorno alla città risponde ad una quasi eterna aspirazione e bisogno, con precedenti ancestrali di formule parziali, non ne esiste un prototipo completo. Howard per la prima volta somma la concezione di Platone del limite alla popolazione, il principio di Tommaso Moro di equilibrare lo spostamento di popolazione nelle aree urbane accorciando le distanze, e quel sentimento universale della città al centro di una campagna. Lo fa con una formula chiaramente definita, ed è il primo a pensare ad un sistema che non solo stabilisce un uso del territorio, ma fa sì che venga mantenuto. Probabilmente il sistema di pianificazione territoriale pubblica supererà questa tecnica della proprietà collettiva, ma non è ancora accaduto. In ogni caso il suo contributo storico risulta decisivo, sia dal punto di vista teorico che tradotto in fatti.

da: Town and Country Planning, gennaio-dicembre 1945; Titolo originale: The country-belt principle: its historical origins – Traduzione di Fabrizio Bottini

Forse per capire meglio l’impianto territoriale di Ebenezer Howard e il suo valore urbano, ambientale e sociale (a cui si riferisce di continuo Osborn nella sua dissertazione apparentemente sul solo aspetto della fascia agricola) si veda il capitolo Social Cities del suo opuscolo 1898 disponibile sul sito della Cornell University nella sezione antologica meritoriamente curata da John Reps 

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