Per un’agricoltura urbana economica e popolare

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Foto J. B. Gatherer

Spesso si pensa alla produzione di alimenti in ambiente urbano come a qualcosa di accessorio, un interessante gioco, un passatempo per annoiati, o magari una elegante sperimentazione. Il fatto stesso che il termine vertical farm evochi quasi in automatico e spontaneamente, sia negli entusiasti che nei detrattori a prescindere, quelle immagini patinate di architetture improbabili, la racconta lunga. E a nulla sembrano servire sia le considerazioni razionali che, a partire dal promotore Dickson Despommier, ne spiegano il senso, sia l’ormai corposa serie delle sperimentazioni in corso, che a tutto assomigliano tranne alle torri scintillanti con cascate di verde viste fino alla noia sulle pagine di giornali e riviste. L’agricoltura urbana tecnologica, semmai, assomiglia fin troppo alle altre attività a cui si va a sostituire, in genere di tipo produttivo industriale o terziario tradizionale novecentesco: una specie di fortino ingombrante e impenetrabile (al solito per imprecisati «motivi tecnici») di cui magari la maggior parte degli abitanti della zona ignorano la funzione esatta. E quindi hanno poi buon gioco, con queste premesse, i venditori di sogni a buon mercato a proporci l’ennesima prospettiva di «città ideale» fatta appunto di immagini superficialmente accattivanti, e però senza gran senso. Anzi, forse a ben vedere un senso ce l’hanno, e molto preciso.

Pur sempre segregazione funzionale è

La vertical farm da rivista di architettura a ben vedere coglie un aspetto chiave della questione agricoltura urbana così come si pone oggi, perché nessuno ha a quanto pare chiaro l’autentico ruolo di questa attività nello spazio e nella società del presente o men che meno del futuro. Quelle torri scintillanti, in altre parole, evocano sottilmente una produzione alimentare autoctona, sana, a chilometro zero, ma solo per quanti se la possono lussuosamente permettere: il look da condominio di lusso di fatto non lascia spazio ad equivoci. Mai visto un rendering con un complesso evidentemente popolare, ma altrettanto evidentemente «immerso nel verde produttivo» come succede coi grattacieli high-tech? E quell’immagine di segregazione, pare tra l’altro corrispondere agli indirizzi imboccati sinora dalle imprese di produzione agricola urbana (spicca forse la sola esperienza di Growing Power, esplicitamente nata con scopi sociali) che fanno riferimento al libero mercato, e che per inciso vengono da tutti indicate come dimostrazione della validità del concetto di vertical farm. Succede cioè che tutte le attività agricole urbane ed elevato contenuto di innovazione, tecnologica, organizzativa, gestionale, pare si rivolgano a un mercato esclusivo di fascia alta. Il che unito al criterio essenziale del chilometro zero fa sì che si formino delle virtuali gated communities integrate, bio-esclusive, con residenti ricchi, ristoranti per ricchi, case per ricchi, produzioni destinate ai più abbienti. Non è un sospetto, ma una realtà verificata, il che pone un problema esattamente speculare a quello della casa: come si governa il fenomeno, accertato che la segregazione sociale è contraria anche al principio di resilienza?

Un mercato corretto

Molti operatori del settore vertical farm e analoghi, pare si siano già da soli posti il problema, vuoi per classici motivi di espansione della propria clientela (i ricchi sono per definizione una élite ristretta), vuoi perché si tratta di attività che tradizionalmente nascono da scelte etiche e ambientali che fanno dell’accessibilità un pilastro. E del resto basta pensare a ciò che si muove ormai da tanto tempo nelle idee di città post moderna, in termini di mixed-use allargato, a capire quanto la torre d’avorio per ricconi evasori d’importazione, del tipo che si è intravisto in certe capitali occidentali come la Manhattan di Bloomberg o la Londra di Johnson, non abbia futuro. Pare quindi indispensabile introdurre gradualmente il sistema agricolo produttivo urbano da un lato entro uno standard di continuità spaziale-funzionale del tipo di quanto viene chiamato in genere infrastrutture verdi, come del resto già indicato nel documento per le eco-città studiato dall Town and Country Planning Association. E, così come avviene per il verde pubblico o le case economiche o altri servizi urbani vari, governare anche l’offerta di alimenti (e magari quella dei posti di lavoro) dell’intera filiera in modo tale che non crei discriminazioni o sacche di privilegio. Non solo per motivi etici, ma perché se la città non è per tutti, semplicemente non funziona.

Riferimenti:
Gina Lovett, Is urban farming only for rich hipsters? The Guardian, 15 febbraio 2016

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