Riconversione abitativa su larga scala

central italy landscape

Foto F. Bottini

Carlo è felice. Vive in una bella casa suburbana con tante stanze, doppio garage e ampio giardino, insieme alla moglie Lucia e ai figli Anna (13 anni), Giorgio (10 anni), la piccola Giuseppina detta Pippa anche se lei un po’ si offende (7 anni). Una bella mattina di settembre, però, Lucia a colazione lo prende da parte a gli fa un discorso a dir poco sconvolgente: lo sta lasciando. Nel giro di qualche settimana Carlo si ritrova da solo nella sua ex casa familiare. «Poveretto, come soffre!» Diceva una vecchia pubblicità, anche se parlava di calli ai piedi. Ma senza entrare nell’intrico dei rapporti sentimentali e familiari del marito piantato in asso, esiste un problema urbanistico e ambientale piuttosto serio, creato da questa crisi di coppia, o meglio dagli infiniti difetti del loro nido d’amore, e ancora oltre del bosco dentro cui si erano costruiti il nido. Non a caso una vecchia canzonetta italiota con liriche del solito poeta Rapetti, in arte Mogol, faceva dire al marito piantato la famosa frase: «Questa casa è tutta da bruciare». Una riga di una canzonetta, ma che corrisponde a realtà.

La «casa da bruciare» di Carlo non è l’unica del quartiere, anzi il problema prima o poi si presenta per tantissime di quelle case, se sono troppe e tutte uguali, se le vie sono tutte uguali, se la composizione sociale è tutta fatta di tante fotocopie della famigliola Carlo Lucia Anna Giorgio Pippa. Al costruttore va benissimo così, perché recupera più semplicemente e rapidamente il suo investimento rivolgendosi a un genere di clientela omogeneo, con un prodotto in serie: se il mercato tira, tira un po’ per tutti e all’offerta corrisponde subito una domanda. Ma dopo un arco di tempo relativamente breve, il costruttore se ne è andato a investire altrove, mentre il quartiere inizia a andare stretto (o largo, a seconda dei punti di vista), a tanti di coloro che lo abitano. Non è necessaria una Lucia delusa per qualche motivo del suo matrimonio con Carlo, basta molto meno. Basta per esempio che prima Anna, poi Giorgio e infine Giuseppina (al liceo ha preteso che non la chiamassero più Pippa) finiscano gli studi e inizino a pensare di farsi una casa loro. O che per motivi di età, o un malaugurato incidente, o chissà che altro, le famiglie inizino a trovare gli spazi della propria casa e del proprio quartiere non più adeguati, o troppo costosi da mantenere, o impossibili da adeguare ragionevolmente a nuove esigenze.

Un problema, questo, caratteristico del suburbio residenziale a orientamento automobilistico della seconda metà del ‘900. Il difetto si può riassumere molto rozzamente ma efficacemente nella sua omogeneità, serialità, e conseguente rigidità. Appena si presenta un elemento anomalo, l’ambiente rigido e non adattabile può solo espellerlo. Quando le anomalie sono troppe, l’ambiente rigido collassa, si degrada, smette di esprimere vitalità. E per restare a queste fasi, potremmo subito chiederci cosa succede delle anomalie espulse dal contesto. Che fa Carlo, impossibilitato se non simbolicamente a dar fuoco alla casa ex nido d’amore? Se ne va, o resta e la usa con impatti ambientali e sociali notevoli, oltre che spendendo un sacco di soldi inutilmente. Vive da solo ma deve scaldare, pulire, tenere in ordine un numero enorme di stanze. Il quartiere che gli sta attorno non offre quasi nulla a un quarantenne single, c’è quasi un’atmosfera di ostilità, e mica per preconcetti. Un uomo solo senza moglie e figli, in un posto dove tutte le case sono abitate da famiglie nucleari, è una specie di granello di sabbia nell’ingranaggio sociale perfetto.

La casa si mette in vendita, ma il modello del suburbio omogeneo pensato per una «prima generazione di clientela» ne rende difficoltosa la commercializzazione, la svalorizza, e spesso la cosa si trascina per le lunghe. Insomma tutto il quartiere via via subisce un processo di dismissione abbastanza simile a quello delle zone industriali o commerciali al mutare del contesto tecnologico, di mercato, urbanistico. Se però industria e commercio hanno trovato nel tempo alcuni metodi di riciclarsi, per il quartiere residenziale omogeneo la cosa appare particolarmente difficile. Negli Stati Uniti, dove il processo è molto avanzato (l’automobilismo di massa data in pratica dagli anni ’30), il dibattito tecnico-scientifico ha coniato almeno due approcci, corrispondenti al medesimo problema e solo apparentemente quasi identici. Il primo si chiama sprawl repair, e fa capo alla corrente professionale dei cosiddetti nuovi urbanisti; propone in sostanza di aumentare le densità edilizie inserendo negli isolati edifici a più piani, incrementare le funzioni soprattutto con negozi di vicinato e spazi pubblici, spezzare il sistema delle vie residenziali a fondo chiuso. Il secondo prende il nome dal libro di Ellen Dunham Jones, Retrofitting Suburbia, e affronta la questione in modo più complesso, tenendo conto sia degli aspetti di mercato che delle possibili politiche pubbliche, anche diverse da quelle urbanistico-edilizie (a partire dai trasporti e dall’energia).

Tutte le critiche al modello residenziale omogeneo suburbano ne individuano, più o meno, i medesimi difetti. La segregazione della residenza innanzitutto, visto che a tutelare il valore degli immobile e un certo modello di abitabilità le abitazioni sono nettamente separate da commercio, uffici, attività produttive, servizi. La dipendenza quasi totale dalla mobilità privata in automobile, visto che tra l’altro le basse densità di popolazione rendono diseconomico investire in mezzi collettivi. Al tempo stesso, la distanza e separazione delle altre funzioni obbliga a spostarsi su distanze medio-grandi per fare qualunque cosa. Tutti i caratteri del suburbio si mescolano a comporre un impasto solidissimo, molto difficile da intaccare, ovvero adattare a modalità diverse. Mentre invece il quartiere urbano presenta notoriamente una molto maggiore varietà: di funzioni residenziali ed economiche in relativa prossimità; di dimensioni di lotti e edifici, destinati questi ultimi a una certa varietà di utenti, classi sociali, fasce di età, sia in proprietà che in affitto. La città è più ricca di spazi pubblici e di proprietà pubblica, e la sua stratificazione e densità la rendono facilmente organizzabile attorno ai trasporti collettivi, con il complemento (viste le distanze minori tra funzioni) di pedonalità e ciclabilità.

Se gli approcci americani pur discutibili e lacunosi cercano in sostanza di cogliere tutti questi aspetti, intervenendo per conferire almeno in parte caratteri fondamentalmente urbani al suburbio, c’è qualcosa che almeno nelle dichiarazioni di principio manca: una strategia di lungo periodo. In altre parole, la densificazione, l’inserimento di nuove funzioni, oppure la progettazione e pianificazione integrata di nuovi insediamenti già dotati di queste caratteristiche, non tengono conto della questione in qualche modo centrale. Ovvero che ci sarà sempre qualche Carlo piantato da Lucia. E che quindi l’obiettivo reale non è tanto e solo provare virtuosamente a riprodurre qualità urbane, ma introdurre elementi di elasticità e duttilità nel tessuto spaziale del quartiere. Cosa che vale sia per le riqualificazioni, sia soprattutto per le città nuove o le espansioni relativamente autonome di grande respiro. Lo slogan si potrebbe riassumere in una specie di: lasciamo spazio alla stratificazione storica! Più correntemente, l’idea è quella di una specie di metropoli riciclabile, dove ciò che contrasta con necessità e tendenze di un’epoca possa essere agevolmente trasformato, senza passare per le costose e impattanti forche caudine del degrado, della dismissione e del recupero.

I grandi quartieri o nuovi insediamenti, per essere adattabili alle (di fatto oggi imprevedibili) esigenze future, devono essere in sostanza concepiti con criteri che mettano già in campo queste esigenze, ad esempio rendendo «deperibili» i classici diritti della proprietà privata che hanno storicamente spinto alla segregazione funzionale e all’esagerata omogeneità. Le nuove funzioni complementari, prossime, permeabili, la mescolanza di spazi individuali e collettivi, la coesistenza di mezzi e percorsi per muoversi, non devono configurarsi come schema eterno, ma appunto lasciar spazio a schemi diversi sin dall’inizio. Questi ultimi sono i criteri base delle raccomandazioni con cui si conclude un interessante studio sul suburbio australiano, Tomorrow’s Suburbs: Building More Flexible Neighbourhoods, di Jane Frances-Kelly e Peter Breadon, pubblicato dal Grattan Institute (2012). La particolarità dell’approccio deriva da una serie di fattori di contesto, fra cui a mio parere spiccano da un lato la fase abbastanza matura raggiunta dal suburbio automobilistico, dall’altro la fase di crescita economica e sviluppo demografico-urbanistico che attraversano le grandi aree metropolitane d’Australia, e che mette in primo piano proprio il tema dell’insediamento greenfield. Non ultima la tradizione di discendenza britannica che, a differenza dell’approccio molto più privatistico americano, può schierare in prima linea una solida idea di politiche pubbliche. Che vogliono anche da questo punto di vista provare a rispondere alla domanda fondamentale: se ci aspetta un mondo di città, che città vogliamo?

Riferimenti:
Grattan Institute (Au), Tomorrow Suburbs – Building flexible neighbourhoods (pagina dedicata, rapporto scaricabile)

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