See You Later, Alligator!

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Foto F. Bottini

Straordinarie le vette che riesce a raggiungere il pensiero umano. Da quando sono arrivate le prime avvisaglie del pericolo di imminente esaurimento delle scorte petrolifere, tutto il mondo della ricerca applicata si è messo in moto per provare a escogitare qualche genere di alternativa sostenibile, o quantomeno vendibile sui tempi medi: smettere di andare in macchina? usare solo trasporti collettivi? e che ne sarebbe del nostro amato stile di vita tutto fatto di spostamenti individuali di qui e di là, da casa al centro commerciale, al corso di violino per i figli dopo la scuola, a comprare il vino dal contadino tre damigiane alla volta? Proprio dall’ispirazione del vino in qualche modo nasce la prima grande risposta, ovvero quella dei carburanti non più estratti da giacimenti, ma prodotti direttamente dalla terra. Dal petrolio, ovvero olio di pietra, all’olio normale, insomma.

Un po’ meno normali gli effetti che la grandiosa pensata ha cominciato ad avere sulle campagne, sui contadini, sullo stomaco delle famiglie. Perché il settore petrolifero-automobilistico come ben si sa è da un secolo la base dell’industria e dei suoi metodi, per così dire, piuttosto sbrigativi. Se ne erano viste alcune avvisaglie, dei risultati di applicare in modo massiccio agli ambienti rurali il modo di produzione industriale: col disboscamento dell’Amazzonia per farci gli hamburger di MacDonalds, o dalle parti della pianura padana enormi territori trasformati in inquinatissime fabbriche integrate di insaccati, dall’accoppiata filari di mais-schiere di maiali al prodotto finito sottovuoto sugli scaffali del centro commerciale. Di questo tipo di effetto collaterale magari al settore carburanti non fregava gran che, con le sue potenziali tenute di soia o palma su un migliaio di ettari per volta da spremere fino all’osso, ma a chi ci sta, in quei territori, magari un pochino di più si.

Il secondo effetto, ehm, secondario sì ma anche più difficile da aggirare del precedente, è piuttosto simile a quello da cui è partito tutto quanto, ovvero l’esaurimento delle scorte, stavolta non di petrolio, ma di terreno. Perché con la popolazione in crescita, e un certo limite verificato allo sfruttamento agricolo delle superfici utili, si pone la questione: se ci piantiamo le colture da carburante nei campi, poi cosa mangiamo? Una domandina non da poco, anche per i pur spietati addetti commerciali del settore, che con la potenziale clientela morta di fame (letteralmente, non per modo di dire) per lasciar spazio ai campi di benzina si sarebbero allontanati dall’obiettivo del profitto di impresa. Ma, come dicevo all’inizio, infinite sono le vie della scienza: recuperando in qualche modo il famoso slogan anni ’70 piccolo è bello, o se vogliamo la cultura di moda oggi del cosiddetto chilometro zero, un gruppo di ricerca ha trovato – molto a modo suo – a un problema globale una soluzione locale. Dei veri geni!

Alla Industrial & Engineering Chemical Research  sono arrivati addirittura ad escogitare lo specchietto per le allodole sceme del grasso di alligatore. Cosa vuol dire, che voi il grasso di alligatore, e in generale l’alligatore come categoria dello spirito, l’avete presente solo nei documentari del National Geographic o nel cartoni animati? Quella è una soluzione, la grandiosa soluzione per un’alternativa praticabile ai carburanti di origine fossile, che contiene principi energetici in quantità, e tecnicamente sfruttabili. Una soluzione locale, naturalmente, per chi abita nelle zone dove non solo abbondano le scagliose bestiole, ma dove già esiste un settore economico con qualche struttura, dalla materia prima al prodotto finale: oggi gli scarti di carne grassa dopo la lavorazione, domani carburante per vostro il serbatoio! E non state lì a ridacchiare, quella è scienza, tutta con le sue belle tabelline.

Quello che conta nella è il metodo, no? Come spiegano eloquentemente i grandi scienziati si tratta di una fonte regionale, limitata a un territorio specifico (il sud-ovest Usa), e questo naturalmente dà il senso del termine «locale» così come l’ho usato poco sopra: carburante a chilometro zero, prodotto con le risorse del territorio, magari con una guida Michelin per chi ha più ottani ed è facile e poco puzzolente da preparare! La super di castagne dell’Appennino, o il gasolio di alghe di Tahiti, chissà. Del resto con la solita straordinaria capacità intuitiva l’arte aveva già scavalcato la scienza, quando nel film Ritorno al Futuro il professore faceva il pieno alla sua Delaurian volante supersport buttandoci dentro un po’ di spazzatura direttamente dal bidone. Oppure, se proprio non siete mai contenti, c’è un’altra possibilità: mandare una squadra di psichiatri in visita a tutti questi centri studi che escogitano stupidaggini potenzialmente pericolose, e a chi inopinatamente li finanzia. Come diceva quella magnifica canzoncina proto-rock di Bill Haley & The Comets: See You Later, Alligator!

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