L’essere umano ha il suo brodo primordiale ristretto e su misura nella città. Ce lo dice già quella radice di ogni conoscenza che è la Genesi quando terminata la creazione dell’universo animato inanimato il creatore ci piazza a sua immagine e somiglianza quei due curiosi tizi che la storia dell’arte ci raffigura sempre con una foglia al posto delle braghette a fiori. E dove li mette? Nel Giardino dell’Eden, recinto urbano per eccellenza e luogo di regole, mica caos naturale dove si impone la forza prevalente. Che sia uno spazio-concetto urbano l’Eden non lo dice qualche archistar credente valligiana venuta giù con la piena e ansiosa di visibilità, ma il fior fior della teologia in persona. E quindi ecco che tutta la vicenda umana di affrancamento dal bruto primordiale fino ai primi precari quanto preziosi trionfi sulle brute forze prevaricanti della natura assume ben altra prospettiva. Ridimensionando anche il ruolo dei muri e di chi li costruisce nella città: sono un pezzo di Eden fanno da recinto contenitore margine (entusiasmo qui dei cultori di Kevin Lynch) ma in sé e per sé valgono quanto un rubinetto un paio di scarpe o una bolla papale nella costruzione dell’Utopia. Che è sempre stata è ancora oggi e presumibilmente resterà qualcosa di umano e non edilizio-architettonico.
Il che la direbbe anche abbastanza chiara e definitiva sulla parola stessa, Utopia, di cui si discute animatamente sin da quando coniato all’alba della modernità preindustriale da Thomas More, a battezzare la sua Isola-Città Ideale, il termine cominciò ad articolarsi per idealità soggettive di ogni ordine e grado. Da patetiche versioni di caserma panottica dove un improvvisato profeta imponeva strampalate regole di via e pensiero degne de Il Dittatore dello Stato Libero di Bananas, a più ragionevoli varianti edilizie del Giardinetto dell’Eden in cui a partire da una base spazio-sociale-etica condivisa i cittadini sarebbero riusciti a elaborarsi regole adatte via via a mutevoli tempi. Ed un ruolo del tutto particolare dentro questo filone delle utopie o città ideali se lo ritagliavano le company town, di fatto più evoluzione della tipologia castello-monastero che del libero borgo villaggio a cui in fondo si ispira l’Utopia. E pareva quasi spontaneo che quando puntualmente anche il visionario Elon Musk decide di mettere la prima pietra virtuale alla sua Città Ideale in Texas, gli osservatori pensino proprio alla città-fabbrica dei padroni delle ferriere otto-novecenteschi.

Una planimetria di fonte «Ufficio Urbanistico di Contea» pubblicata dallo Austin Business Journal nel gennaio 2023
Siamo partiti dall’Eden della Bibbia e pare giusto ripartire dalla Bibbia del Web costituita dalle prime righe che compaiono sul motore di ricerca inserendo il toponimo Snailbrook: il nome – che significa alla lettera qualcosa come «il ruscelletto delle lumache» – è un luogo pensata naturalmente visionaria di Elon Musk, per i dipendenti delle sue branche SpaceX e The Boring Company. Nulla si sa sulle forme edilizio architettoniche spaziali ma è certo trattarsi di «comunità utopica» dove abitare e lavorare (intesi evidentemente come unici scopi dell’esistenza dei non visionari). Anche il nome nasce da una ispirazione aziendalista visto che la mission di The Boring Company sarebbe di «costruire macchine più veloci di una lumaca». Umorismo decisamente visionario inadatto alle menti fragili. Il posto amministrativamente parlando si trova nella Bastrop County, regione urbana di Austin.
A parte il più che vago riferimento alle company town del XIX secolo (che in realtà si sono continuate a costruire ben addentro il XX cambiando il termine in blueprint dai lucidi a sviluppo in ammoniaca che hanno anticipato le fotocopie: da città ideale a città fotocopia che facciamo prima il tempo è denaro) dei particolari non si sa un bel nulla. Si sussurra di una Piazza Hyperloop che è come dire tutto e niente, ma nessun dato a parte che in futuro questa visione sul nulla ma fidatevi, si allargherà da qualche parte «con più di cento case destinate ai dipendenti SpaceX vicino a Brownsville» (sarò poco pratico della zona ma l’unica Brownsville che riesco a trovare sta quattro ore di macchina più a sud che paiono parecchie anche per i paladini dello sprawl estremo).
Certamente un bel salto all’indietro rispetto al Toroide Astronave Nerdistan orbitante attorno a Cupertino, Silicon Valley, dove il suo ex collega capitalista tech Steve Jobs sigillava i dipendenti ma solo nell’orario di lavoro, aprendo i cancelli della ricreazione al suono della campanella. Qui si nasce si vive si dorme ci si riproduce al ritmo veloce del sugo che cuoce per citare i postmoderni Skiantos. O meglio al ritmo discrezionalmente deciso dal visionario paròn che tutto sape e decide. Ovvero se di utopia siamo parlando è pur sempre di quelle religiose integraliste dove si soffre in vista di un premio finale. Quale non ci viene rivelato ma forse ci sarà scritto nel contratto di assunzione o cooptazione alla Fede in Musk. Che al solito dimostrerà di aver fiutato qualche affare vantaggioso comprando o taroccando brevetti altrui lasciati non sfruttati, spogliandoli di eventuale intelligenza per colmarli di sé stesso.
Riferimenti (link esterno a un altro articolo che parla d’altro sul medesimo argomento e non è la versione originale del mio autografo testo ancor più originale come a volte pensa qualche distrattone) Steve Rose, Is Elon Musk creating a utopian city? The hellish, heavenly history of company towns, The Guardian 18 aprile 2025
Su questo stesso sito vedi anche per le dovute articolazioni tematiche (su ciò che neppure il Visionario ha Visionato) Alcatraz Terziarie in Crisi da un mio pseudonimo gender