Società, impresa, individuo (1960)

olivetti_casabella«La cosa che più stupisce nel nostro paese – ha scritto Jacques Barzun in un suo affettuoso libro sull’America, God’s Country and Mine – é che nonostante la nostra arretrata legislazione sociale, nonostante l’esaltazione di cui facciamo oggetto l’individualismo più sfrenato, noi siamo per istinto persone molto sociali, molto socievoli, e di fatto, anzi, socialiste». In queste parole è già riassunto il contrasto che forma il tema dichiarato de L’uomo dell’organizzazione, il contrasto tra «etica protestante» ed «etica sociale», tra fede individualista e vita gregaria o collettiva; contrasto ormai risolto, ove si accolgano gli argomenti dell’autore, a favore della seconda. Tanto risolto, anzi, che dopo i primi capitoli altro non rimane nel campo visivo del lettore che la prevalenza assunta in ogni momento, nella vita degli uomini dell’organizzazione (che qui significa semplicemente, conforme all’uso della letteratura tecnica americana, grande azienda, società anonima, corporation), dalle cosiddette relazioni sociali (o umane), coi relativi problemi del «morale», della «appartenenza», dell’integrazione nel gruppo, infine della fedeltà all’azienda; il tutto trasferito e sublimato, a giudizio dell’autore, su un nuovo piano etico, in via di graduale consolidamento.

L’uomo dell’organizzazione è un libro di analisi sociologica, benché le tecniche di ricerca su cui si fonda e il modo di esporre i risultati siano i più domestici che si possano desiderare, e presuppone un’informazione non del tutto generica intorno alle principali componenti storiche e culturali della situazione che in esso si analizza con un mordente critico tipicamente protestante. L’autore, purtroppo, non offre che indicazioni assai scarse a tal proposito, e le eroine del suo libro – le relazioni sociali, l’ideologia del gruppo, l’etica sociale coltivata della grandi organizzazioni – sembrano spesso avere la veste di ineluttabili fenomeni oggettivi, provvisti di una loro dinamica del tutto indipendente dal contesto storico della società americana. Stabilire, per contro, la loro dipendenza da tale contesto, nell’intento di fornire al lettore italiano migliori basi per apprezzare criticamente lo sforzo del Whyte in un campo, l’analisi sociologica, che ha pochi precedenti nella nostra cultura, è il fine prevalente di queste note.

Uno dei limiti di questo libro sta inoltre nell’essere scritto per così dire dall’interno del sistema, dando implicitamente per scontate certe premesse e conclusioni che un critico sociale di maggior capacità dialettica avrebbe per contro messo in discussione sin dall’inizio della sua analisi. Non dimentichiamo che l’autore, uscito nel ’39 dall’Università di Princeton, roccaforte dei giovani liberals che vedevano in Roosevelt l’uomo cui affidare le loro speranze d’un progresso non limitato a settori privilegiati della società americana, è poi divenuto, pur senza rinunciare – come testimonia il suo libro – alle posizioni critiche proprie degli intellettuali liberali di qual Paese, un redattore Capo di Fortune, la maliosa rivista del neocapitalismo americano; e che da molti anni egli si muove dentro quel mondo, per studiare e additarne polemicamente i difetti di funzionamento – non certo per avanzare istanze di revisione del sistema. Ne deriva alla trattazione una certa confidenzialità e nebulosità di tono, non sempre gradita al lettore che vuol vederci chiaro nelle ragioni dell’autore, e c’è parso opportuno che dietro alla sua esposizione fosse collocato uno sfondo che serve a renderne più netto il profilo.

Nella sociologia contemporanea l’espressione «relazioni sociali», o «relazioni umane» (quest’ultima da usarsi il meno possibile per la sua ambiguità), stanno a indicare, diversamente da quanta avviene nel linguaggio corrente, tutta una serie di fenomeni della socialità, dal processo di socializzazione dell’individuo alle varie forme di interazione riscontrabili tra i membri di un gruppo o tra un gruppo e l’altro, tenendo presente che il concetto di gruppo, quale che sia la sua dimensione e strutturazione, è sempre implicato dalla espressione citata. Sociologi formalisti, quali il von Wiese e molti studiosi americani di indirizzo affine, tendono a identificare nello studio delle relazioni sociali e dei gruppi in cui esse si attuano l’oggetto specifico ed esclusivo della sociologia; all’ala opposta dello schieramento teoretico di questa disciplina gli autori orientati in senso storico-culturale, quali ad esempio il Sorokin e Alfred Weber, vedono in esse piuttosto dei processi che si ritrovano in ogni classe di fenomeni sociali, lo studio dei quali pertanto é inscindibile dallo studio empirico di determinate attività economiche, giuridiche, artistiche, religiose.

Generale, tra i sociologi, é in ogni caso l’accordo sull’esistenza di fenomeni di interazione che governano in larga misura – per lo più senza che i partecipanti ne siano chiaramente consapevoli – la nostra vita sociale, concorrendo a determinare con intensità variabile secondo le circostanze storiche il comportamento dei singoli e dei gruppi, in modi che non possono essere spiegati ricorrendo a science già stabilite, come il diritto, la psicologia, l’economia politica, o l’etnologia. Costituisca quindi il suo oggetto esclusivo, oppure sia una soltanto tra molte direzioni di ricerca, lo studio delle relazioni e dei gruppi sociali rientra fra i compiti peculiari della sociologia; o piuttosto, ove ci si ponga dal secondo punto di vista, della microsociologia, termine che allude alle forme elementari della socialità e non alle dimensioni dell’oggetto studiato, per quanto sussista tra i due fattori una sensibile correlazione.

La soffocante preminenza delle relazioni sociali nella vita degli uomini dell’organizzazione, e cioè dei funzionari delle grandi imprese industriali, commerciali, finanziarie, intorno alle quali discute il Whyte, é un fenomeno tipico della società americana – o per meglio dire della classe media di una società altamente organizzata in vista di produzioni e consumi di massa, quali che piano i valori e i beni prodotti – e le sue componenti, come si diceva, sono al tempo stesso storiche e culturali. Sul piano storico, va ricordato in primo luogo come l’assenza quasi completa di residui feudali abbia favorito, in America, la formazione di una società dove le distinzioni di ceto e di rango, di strato e di classe sociale (ciò che i sociologi dicono «status»), affidate a simboli e insigna estremamente più sottili e più labili, a un tempo che nella società europea, nondimeno sono

avvertite con sensibilità assai più viva e consapevole, essendo mancato quel processo di interiorizzazione che nelle società a stratificazione rigida – quali appunto le società europee feudali e post feudali – garantisce l’adattamento dell’individuo al suo «status» iniziale.

Per un altro verso, si può convenire col Moreno che l’assenza relativa di un’ideologia comune, religiosa o politica, non ha impedito la manifestazione della «spontaneità creatrice» tipica dei piccoli gruppi sociali, al contrario di quanto é accaduto in Europa. Nella lunga stagione dei pionieri in lotta con l’ambiente, sulla frontiera lentamente avanzante verso ovest, la mentalità astorica degli immigrati fu rafforzata dall’importanza che in tali circostanze vennero ad assumere i rapporti di vicinato, il senso di solidarietà dinanzi agli ostacoli e ai nemici comuni, l’aiuto reciproco nei casi di bisogno; rapporti e sentimenti ancona oggi presenti e operanti nella società americana, sì che non a caso gli uomini dell’organizzazione insediati nei nuovi suburbi parlano di una nuova frontiera. La regione di là dalla frontiera era, un tempo, il wilderness, la natura ostile e malconosciuta della più grande vallata del mondo; consiste oggi – soprattutto per l’uomo dell’organizzazione – nella prossima fase del moto estremamente accelerato che le grandi società anonime hanno impresso all’evoluzione economica, e con essa al suo modo di vita.

Oggi come allora, la possibilità di ottenere un posto migliore, o anche soltanto un posto per continuare a vivere all’altezza dei propri bisogni nella regione che l’avanzare della frontiera viene ad aggiungere al territorio già conosciuto, dipende in gran parte dalle proprie conoscenze intorno alle relazioni sociali – in senso psicosociologico – e dalla propria abilità nel metterle in atto. Riferendoci a un libro che rappresenta quasi una lettura obbligata per chi legge questo del Whyte, e cioè alla Folla solitaria di David Riesman, può dirsi che l’uomo eterodiretto, ché tale appunto è l’uomo dell’organizzazione, sia essenzialmente people-minded: «le sue frontiere sono le persone».

Altro fattore che ha storicamente favorito l’odierna preminenza ideologica e pratica delle relazioni sociali nella cultura americana, o, per dir meglio, dell’elemento psicosociologico nella vita associata, è stato certo la presenza e il particolare carattere delle tensioni etniche e razziali. Con un solo gruppo di diversa razza e cultura, e cioè con gli indiani, la società americana ha avuto rapporti (conflittuali) di tipo politico-militare, assimilabili a quelli che la società europea ha avuto od ha sperimentato nel proprio seno per tutto il corso della sua storia, sino ai giorni nostri, con numerosi gruppi nazionali e subnazionali di origini disparate. Con tutti gli altri, a cominciare dai negri, con gli immigrati orientali, gli ebrei, gli irlandesi, e gli italiani – per citare solo i gruppi principali – i rapporti della società americana consolidata hanno avuto volta a volta un predominante carattere ideologico, etnico, o razziale (biologico), che solo un’interpretazione superficiale può ricondurre senza residui a motivazioni economiche.

Non in esclusive motivazioni economiche può trovarsi, nei fatti, la spiegazione dei frequenti conflitti tra operai bianchi e negri di pari condizione professionale o salariale, o dello status inferiore assegnato a un professionista negro pur «arrivato» in una comunità bianca, o dei problemi di integrazione che sussistono nell’esercito tra militari negri e bianchi posti su un piano di assoluta parità materiale. In questi casi come in tanti altri, la spiegazione del conflitto andava cercata evidentemente nel quadro peculiare dei processi della socialità, dei fenomeni tipici dell’interazione tra uomo e uomo e tra gruppo e gruppo; e non v’ha dubbio che nel novero delle forze cha hanno portato a concentrate l’attenzione sulle relazioni sociali, e a fame oggetto di studio in una prospettiva psicologica e antropologica (in Europa dovremmo dire etnologica) piuttosto che propriamente sociologica, i conflitti di origine prevalentemente etnica e razziale abbiano avuto in America und parte di tutto rilievo. Per molti politici, filosofi, intellettuali di varia formazione, e social scientists, l’idea del melting pot, del crogiuolo in cui dovevano fondere razze, ceppi nazionali, fedi politiche e religiose, nei prime quarantanni del secolo fu soprattutto un’idea da tradurre in realtà per mezzo dello studio scientifico dei processi di interazione sociale che tendono ad allontanare gli uomini tra loro, e possono invece avvicinarli quando si sia pervenuti a definirli e controllarli.

Nelle grandi organizzazioni produttive il formarsi della convinzione che le relazioni sociali fossero una causa almeno codeterminante del comportamento dei dipendenti come del comportamento dei vari pubblici verso l’azienda, si è riflesso in quello che Riesman ha giustamente definito un passaggio «dalla abilità di mestiere alle abilità manipolative», ovvero «dalla durezza del materiale alla morbidezza delle persone». Anche in questo caso alla radice del fenomeno si ritrovano innanzitutto dei fattori oggettivi, in parte inerenti al progresso tecnico come tale, in parte alla

particolare natura dello sviluppo industriale in un’economia di mercato. In essa, di fatto, la direzione d’impresa si confonde con la proprietà del capitale, e per ciò stesso tende costantemente a preferire le tecnologie e i criteri organizzativi che siano labour saving, risparmiatori di forza lavoro, piuttosto che capital saving, o risparmiatori di capitale. In concorrenza con i fattori tecnici, tale orientamento ha condotto nel giro di mezzo secolo a un enorme aumento degli investimenti necessari per unità lavorativa, e parallelamente a un forte incremento delle dimensioni d’impresa, sia in senso economico che per quanta riguarda il personale impiegato, nonché ad un aumento senza pari del volume di produzione controllabile da un singolo addetto.

Nelle officine come negli uffici, il progresso tecnico ed organizzativo ha prodotto nel frattempo integrazione reciproca di molte fasi di lavorazione e di amministrazione, onde è stata accresciuta e per così dire visibilizzata l’interdipendenza di tutti gli addetti alla produzione, diretti e indiretti; interdipendenza in parecchi casi aumentata dalla specializzazione funzionale di quasi tutti gli addetti alla progettazione e programmazione del ciclo di lavorazione, per cui non solo il lavoro di esecuzione, ma pure il lavoro creativo di tutti, può venir bloccato dall’assenza o dal malvolere di ciascuno. Nelle officine, ancora, l’avvento dei sistemi semiautomatici di controllo dei macchinari, pur nelle loro forme più semplici, ha provocato un sostanziale allontanamento dell’operaio dall’oggetto del suo lavoro, rendendolo assai più sensibile alle condizioni dell’ambiente sociale di quanto non fosse allorché era assorbito interamente nel rapporto oggettivo col materiale; mentre la diffusione dei sistemi di cottimo collettivo, dettata da esigenze di integrazione e uniformità nella produzione, ha favorito il passaggio dagli atteggiamenti orientati sulla mansione ad atteggiamenti orientati sul gruppo.

Dalla combinazione di tutti questi processi è derivato ovviamente un fortissimo aumento della produttività, che unito alle situazioni monopolistiche ed oligopolistiche prodotte dalla concentrazione industriale ha offerto alle aziende la possibilità di pagare salari e stipendi sufficientemente elevati per togliere molto vigore alle motivazioni esclusivamente economiche, e rinvigorire per contro le motivazioni di natura prevalentemente psicosociologica. Inoltre col crescere delle sue dimensioni medie se era avuto, verso l’esterno, un crescere di influenza del comportamento politico ed economico dell’impresa, in tutti i campi ed a tutti i livelli della vita nazionale, cui si era via via affiancato, all’interno, un tangibile aumento di potere delle organizzazioni sindacali. Il più significativo dei risultati immediati di questo fenomeno é stato duplice, consistendo nella prospettiva soggettiva, di una forte riduzione dell’emotional elbowroom (per usare un’altra efficace espressione di Riesman), ossia dello «spazio di gomiti emotivo» per tutti i membri dell’organizzazione, posti a contatto cooperativo-competitivo con un numero di persone senna precedenti nell’organizzazione industriale; e, nella prospettiva oggettiva, in un forte aumento di «valore» di ciascun addetto alla produzione, sia diretto che indiretto, con ciò intendendo un aumento di responsabilità, di costo delle decisioni intempestive o errate, di volume e valore della produzione eventualmente perduta a causa di interruzioni o rallentamenti del lavoro.

Un consimile aumento di «valore» hanno parallelamente conosciuto i consumatori, gli enti pubblici, i funzionari dell’esecutivo da cui dipendono i crediti e le commesse statali. La grande impresa è così divenuta più sensibile e pronta a rilevare lo stato delle relazioni sociali interne ed esterne, ed in pari tempo più vulnerabile. Le persone, i loro atteggiamenti e il comportamento che verso di loro occorre tenere per non mai indurre atteggiamenti negativi nei confronti dell’organizzazione, è ormai il suo principale problema. Affrontarlo e risolverlo nei modi più convenienti è diventata allora la mansione più importante che al dirigente aziendale – all’uomo dell’organizzazione che non solo lavora per essa ma pure vi appartiene fisicamente e spiritualmente come precisa il nostro autore – si richiede di svolgere.Non si dovrebbe però trascurare la parte avuta nell’evoluzione degli atteggiamenti direzionali dal superamento dell’ipotesi di un homo æconomicus, ipotesi perfettamente razionale, che seguì gradualmente alle prime vaste ricerche di sociologia industriale condotte dopo il ’30 nella scia dei lavori di Mayo, Roethlisberger e Dickson.

Molte direzioni restarono certo abbagliate nello scoprire quale massa di appassionate energie si sarebbe potuta porre al servizio della produzione, qualora si fosse giunti ad ottenere la completa «partecipazione» affettiva dei dipendenti di ogni grado alla vita dell’azienda, e pensarono di sfruttare a tal fine i primi risultati, parziali e immaturi, di quegli studi: in ciò favoriti dall’innocenza storica ed economica di Mayo e di alcuni suoi seguaci, che postulavano, richiamandosi al Medioevo, l’ideale di una società perfettamente integrata – a partire dall’azienda. Ma in numerosi casi essi svolsero quietamente una funzione più democratica, ponendo in luce l’inadeguatezza degli incentivi meramente economici in una situazione in cui i bisogni di sussistenza erano ormai relativamente soddisfatti, la ricchezza di significati e di atteggiamenti che l’uomo reca nelle condizione di lavoro, e con ciò stesso l’importanza delle relazioni sociali che tale condizione determina, e che il scientific management tayloriano e gilbrethiano aveva volutamente ignorato per quasi cinquantanni.

Così delineati alcuni aspetti della matrice storico-oggettiva da cui é sorto per l’uomo dell’organizzazione il «problema» delle relazioni sociali, occorre considerare in breve le sue principali componenti culturali, che nulla autorizza ad assumere come semplici manifestazioni sovrastrutturali della prima. Una delle più significative fra queste componenti, sovente trascurata nel valutare le teorie sociali americane, si può dire sia stata la triplice influenza esercitata sulla formazione di quelle teorie dalla cultura tedesca, e in particolare dal formalismo microsociologico di provenienza neokantiana. In tale influenza sono da distinguere, appunto, tre momenti successivi, uno recedente la fine del secolo e accompagnantesi al declino nella cultura americane del primo pensiero sociologico inglese, gli altri due posteriori di tre o quattro decenni.

Vengono, in primo luogo, i protosociologi e psicologi sociali che nel periodo della loro formazione trascorrono anni di studio in università germaniche, come Small, Thomas, Ross, Ellwood, e Mead, per citare solo alcuni studiosi la cui attività ebbe in seguito grande influenza nell’orientare verso i fenomeni microsociologici (o intermentali) gli sforzi sistematici e le tecniche di ricerca della nascente social theory americana. Il più noto di loro, lo Small, studiò a Lipsia e a Berlino dal 1879 al 1881, e per tutta la vita proseguì nello studio della letteratura sociologica ed economica di lingua tedesca, restando influenzato principalmente dagli scritti di Schäffle, Ratzenhofer, e Sombart.

Preside per oltre trentanni della Facoltà di sociologia nell’Università di Chicago (la prima facoltà di sociologia costituita nel mondo), può dirsi che lo Small abbia pesato non poco, con la sua forte personalità morale e intellettuale, nell’informare la prima generazione americana di docenti di sociologia al sociologismo ch’egli aveva mediato dagli autori tedeschi. Ed e interessante osservare che la sua tesi centrale, per cui il processo di socializzazione e di integrazione nel gruppo permettono di trasformare il conflitto in cooperazione, assorbendo il contrasto degli interessi originari in una forma di superiore socialità, può ritrovarsi tal quale nell’etica sociale di cui parla il nostro autore.

Meno influenti di Small come autorità accademiche, ma di maggior rilievo sotto il rispetto teoretico, gli altri studiosi menzionati riportano dai loro anni di studio in Germania l’impronta diretta o indiretta di Wundt, Hartmann, Rickert, Schmoller, e soprattutto Simmel. Con alcune eccezioni, l’intento che essi manifestano con maggior evidenza nelle loro opere mature é quello di combinare la psicologia volizionista allora corrente con una sociologia analitica, sistematica, formalista, di chiara provenienza simmeliana; sì che nello spazio di una ventina d’anni esse contribuiscono a inserire stabilmente nel corpus di una vasta ala della sociologia americana le istanze e i criteri psicologici, quando non psicologistici, gia introdottivi dallo Small. Basta ricordare che il primo corso regolare di «psicologia sociale» che portasse tal nome fu probabilmente quello tenuto da Ross all’Università do Stanford, nel 1899, mentre una sociologia fondata sullo studio dei tratti psicologici dei membri di un gruppo, dalla coscienza sociale dei quali nascerebbe la società, é proposta da Elmwood in Sociology in Its Psychological Aspects, pubblicato nel 1912.

Ciò che più interessa per meglio illuminare alcune componenti culturali di una situazione qual viene descritta ne L’uomo dell’organizzazione, le opere degli studiosi ricordati contribuiscono in modo determinante a fissare sin dall’inizio l’attenzione di molti social scientists americani sul gruppo e sulle relazioni sociali come unità elementari ed esclusive nell’analisi dei fenomeni sociali. Concetti quali adattamento, integrazione, appartenenza, che sono oggi parte importante dell’etica sociale onde l’uomo dell’organizzazione è benevolmente assillato in ogni momento della sua giornata, si ritrovano già in Ross; ed Ellwood attribuiva alle comunicazioni e alla discussione in seno al gruppo una funzione integrativa dell’individuo alla società, non certo inferiore a quella che vi attribuisce oggi, con motivazioni alquanto più interessate, la direzione di una corporation. Va aggiunto che nel lavoro di questi studiosi, a cominciare da Small, era costantemente operante un generico ma vivo ideale etico-politico (anche esso mediato in parte dalla cultura tedesca), per cui l’integrazione nel gruppo, il senso di appartenenza oggi glorificati dall’etica sociale dell’organizzazione rivestivano per loro un genuino valore etico e democratico, in essi intravvedendo quasi la possibilità di un ritorno dall’atomismo dissipatore della Gesellschaft, la società conflittuale ove la divisione del lavoro si è riflessa in una frattura dei rapporti di pura socialità, alla sodalità esaltante e onnipervasiva della Gemeinschaft.

È lecito pertanto affermare che quanto di autentico può ritrovarsi nelle istanze avanzate, per esempio, dalla scuola d Harvard, per un risolvimento dei conflitti sociali mediante lo studio delle relazioni umane, avesse e abbia un contenuto etico ispirato per vari aspetti dalla loro opera. Giova qui ricordare ancora uno studioso di quel tempo, Cooley, il quale, profondamente influenzato dagli scritti organicisti di Schäffle, fece più di ogni altro sociologo americano per superare concettualmente l’antitesi individuo-società, e per dimostrare la necessità do estendere alla società intera le caratteristiche del «gruppo primario» (concetto, com’è noto, rimasto fondamentale nella social theory americana, e cardinale per la comprensione dell’etica sociale che ispira l’uomo dell’organizzazione): relazioni intime e immediate fra tutti i membri, fedeltà di ciascuno ai valori del gruppo, elevato senso di appartenenza, cooperazione spontanea, quali si ritrovano ad esempio nella famiglia o nel gruppo di vicinato.

Il secondo momento dell’influenza tedesca sulle teorie sociali americane si colloca, al pari del terzo, fra le due guerre mondiali, e si concreta sia nella traduzione e critica di alcune opere ormai considerate classiche, sia nella produzione di testi ad esse ispirati. Tra questi ultimi va ricordata la Introduction to the Science of Sociology, di Park e Burgess (1921), un manuale che ebbe subito grandissima diffusione nelle università americane, e la cui organica struttura teoretica è tratta esplicitamente dalla sociologia formale di Simmel. Come ha osservato di recente un anziano esponente dello schieramento sociologico opposto, lo Zimmermann, il testo di Park e Burgess «riduceva quasi tutta la sociologia teoretica a uno studio delle forme psicologiche dell’interazione sociale, quali il conflitto, la subordinazione, la socializzazione e altri processi mentali». Questa tendenza riduzionistica e destoricizzante palesata da tutta un’ala del pensiero sociale americano, ch’era in corso, come abbiamo visto, da almeno trent’anni, veniva ulteriormente rafforzata dall’opera di Spykman e Abel sulla sociologia di Simmel, e quindi dall’edizione americana, nel ’32, dell’opera maggiore di Leopold von Wiese, che di Simmel può considerarsi il principale discepolo. Riveduto e tradotto da Howard Becker, il System der Allgemeine Soziologie del sociologo di Colonia preparava il terreno per il passaggio dalla microsociologia formalista alla fase sperimentale.

Saranno alcuni studiosi immigrati, fra i moltissimi di lingua tedesca che affluiscono negli Stati Uniti tra le due guerre, a costituire il terzo momento dell’influenza germanica sulle teorie sociali (microsociologiche) americane. Benché non manchino tra loro i sociologi, è piuttosto l’opera di due psicologi, Kurt Lewin e J. L. Moreno, che fa compiere loro l’ultimo passo verso la totale resezione di ogni possibile nesso tra le relazioni sociali interne al gruppo e la matrice storica di questo gruppo. Il Lewin dà l’avvio agli studi sulla «dinamica di gruppo» – le cui deformazioni sono, a buon diritto, uno dei bersagli preferiti dal nostro autore – fondando nel ’44 l’attivissimo Research Center for Group Dynamics. Il Moreno formatosi alla scuola psichiatrica di Vienna, reintroduce negli Stati Uniti, sotto le vesti matematizzate della sociometria, una sorta di panvitalismo sociologico o meglio psicoorganicistico, le cui origini sono da ricercarsi in quel particolare clima di pensiero che influì in vari modi su tanti pensatori di lingua tedesca, da Nietzsche a Tönnies a Frobenius.

In Cooley, Mead, Simmel e von Wiese il Moreno riconosce i precursori della sociometria; al tempo stesso diversi sociologi americani salutano in lui il primo studioso che abbia saputo dare un contenuto empirico e pratico alle analisi dei processi do gruppo già svolte da Simmel, e, con maggior sofisticazione, da von Wiese. Le ambizioni della sociometria (definita dal suo ideatore, si noti, «l’etica sociale per eccellenza») sono, a dir poco, assai basse, e rappresentano il naturale coronamento di mezzo secolo do studi sul gruppo e sulle relazioni sociali «in sé»: si tratta infatti di realizzare, mediante l’armonizzazione delle relazioni interpersonali e il superamento delle alienazioni affettive reso possibile dalle analisi sociometriche, una rivoluzione integrale, onde conseguirebbe dopo secoli di soggezione a situazioni frustranti la liberazione del «proletariato sociometrico». Il lettore vedrà da solo, in questo libro del Whyte, come siffatto ideale – che si attaglia del pari a tutte le teorie sociali psicologistiche cui esso richiama, dalla dottrina delle «relazioni umane» alla stessa «dinamica di gruppo» – abbia operato in concreto nella vita delle grandi organizzazioni.

Il senso di questi rapidi richiami ai rapporti tra pensiero sociologico tedesco e americano si riassume in una osservazione che a nostro avviso ha una notevole importanza per valutare con prospettiva adeguata la situazione culturale presupposta ne L’uomo dell’organizzazione: analogamente a quanto avviene nel campo filosofico con il neopositivismo mediato dagli immigrati del Circolo di Vienna e della Scuola di Berlino, il pensiero sociologico tedesco ha offerto a quello americano gli strumenti concettuali necessari per portare alle estreme conseguenze logiche l’operazione di cui sentiva maggiormente il bisogno, e cioè la separazione della struttura formale dal contenuto materiale e qualitativo di un fenomeno.

Va precisato però che l’eccezionale favore incontrato da tale pensiero negli ultimi venticinque anni si spiega solamente con la presenza di un ambiente culturale singolarmente ricettivo, e l’opinione di Moreno, conforme alla quale la sociometria è fiorita in America per essersi calata in una delle grandi correnti di pensiero di quel Paese, mentre sarebbe perita di consunzione in Europa, può condividersi senza riserve.

Quel che vale per la sociometria vale per tutte le altre teorie microsociologiche da noi ricordate: sono stati il behaviorismo watsoniano, l’epistemologia naturalistica e l’ambientalismo di John Dewey, inline il quantitativismo che pervadeva la vita americana sin dai tempi di Tocqueville, prima ancona cioè che la Grammar of Science di Karl Pearson divenisse il vangelo di molti protosociologi – nonché, s’intende, il parallelo influsso del neopositivismo – a preparare il terreno culturale più acconcio per il loro sviluppo e pratica applicazione. Resta vero, in ogni caso, che dette teorie hanno offerto all’homo metrum che alberga in molti studiosi di scienze sociali americani, non diversamente che nell’americano medio, proprio gli elementi che gli permettono sia di applicare le sue tecniche, sia di manifestare ad oltranza il suo atteggiamento astrattamente misuratore.

Le conseguenze pratiche di tale dicotomia fra struttura formale e contenuto di un fenomeno sociale sono tuttavia da vedersi più che altrove nell’uso improprio o chiaramente scorretto che sovente se n’è fatto nell’insegnamento delle science sociali, o, come testimonia il Whyte, nella prassi delle grandi organizzazioni. Sul piano strettamente scientifico essa rappresenta infatti un’operazione di astrazione del tutto legittima, e anzi indispensabile, nello studio dei fenomeni sociali. Sia ottenuta sperimentalmente, o sia attinta mediante l’analisi di distribuzione di frequenza e di proposizioni probabilistiche, l’astrazione è il procedimento essenziale della scienza – di qualsiasi scienza. Ma ben diverso, sotto il rispetto logico, è l’uso che può farsi nelle science fisiche dei dati ricavati mediante il procedimento astrattivo, da quello ammissibile nelle science sociali. Nelle prime, infatti, per quanto la cosa presenti difficoltà assai superiori a quel che affermano i negatori precostituiti del metodo scientifico applicato alle scienze sociali, il ricercatore perviene in genere a stabilire un sistema chiuso, che gli consente di imputare le modificazioni osservate nel sistema stesso all’unico carattere di cui ha immesso nel quadro empirico della ricerca modalità variabili. Ma nelle scienze sociali sono abbastanza rari i casi in cui si pervenga a «chiudere» il sistema studiato, anche nelle azioni in apparenza più meccaniche e ricorrenti: ed è motivato a livelli diversi, come ricorda Dewey, tutti interagenti l’uno sull’altro, dal livello biologico a quello, diciamo, finalistico – dunque non soltanto a livello psicologico o intermentale, come postula il microsociologismo.

Ne segue che ciascuna delle motivazioni (o altri fenomeni socialmente condizionati, ma non senza residui) presente in un gruppo può essere eventualmente rilevata e misurata e classificata, così come può esser determinata la loro struttura o quella degli atteggiamenti o comportamenti, senza che il ricercatore pervenga a comprendere in alcun modo la connessione determinatasi a livello storico e macrosociologico fra la struttura del gruppo e quella di altri gruppi che pur non essendo a contatto diretto col primo ne condizionano in misura più o meno determinante gli atteggiamenti e i comportamenti, e in genere ogni manifestazione della socialità. Ma non comprendere non dovrebbe significare ignorare, considerando «chiuso» un sistema che é invece apertissimo a influenze esterne. Lo stesso Simmel aveva dato in proposito un avvertimento cruciate: «La sociologia, come disciplina che studia l’essere sociale dell’umanità … si comporta dunque nei confronti delle restanti scienze particolari non diversamente dalla geometria nei confronti delle science fisico-chimiche della materia: Essa considera la forma attraverso cui la materia assume corposità empirica – la forma, la quale di per sé esiste certo soltanto nell’astrazione, appunto come le forme della socialità» (corsivo mio).

Questa norma logica e deontologica insieme, la quale, ove sia tenuta presente, porta inevitabilmente a studiare le forme della socialità nel quadro di situazioni reali, e cioè di concreti fenomeni economici, giuridici, politici, sia pure a livello microsociologico, fu in realtà rispettata da più d’uno degli studiosi che abbiamo menzionati e da alcuni studiosi posteriori che proseguirono nelle stesse direzioni di ricerca, ma fu del tutto ignorata dai moltissimi she con scarsa preparazione filosofica e scientifica, dubbie conoscenze sociologiche, e nessun senso storico, diffusero in migliaia di corsi e di pubblicazioni il verbo delle «relazioni umane» e della «dinamica di gruppo». Nel secondo quarto del secolo, come ancor oggi, gli scienziati sociali che meritassero tal nome in questo campo erano infatti poche decine, mentre migliaia erano nelle high schools, nei colleges, nelle università, nelle organizzazioni private e pubbliche, le persone che ne riprendevano e volgarizzavano l’insegnamento, portando al limite estremo – a causa di deformazioni ideologiche, di precisi interessi, ma non di rado per dotta ignoranza o deweyana psicosi occupazionale – la separazione tra forme della socialità e contenuto empirico di un fenomeno sociale, cercando esclusivamente nelle prime la spiegazione del secondo.

S’aggiunga che tra le due guerre, mentre l’insegnamento delle science sociali «di base» era ancona in corso di istituzionalizzazione, nei quadri delle facoltà di sociologia come nelle aziende vi furono cospicue intrusioni di elementi non qualificati, alieni in genere dalle cautele che contraddistinguono lo scienziato allorché si tratta di generalizzare i risultati di una ricerca; che nelle scuole di ogni grado era ed è tuttora vivissima la richiesta di corsi «pratici» di «relazioni sociali», di «adattamento alla vita» (o al lavoro, al matrimonio, al pensionamento, alla vedovanza, ecc.), e della solita «dinamica di gruppo» ad uso di assistenti sociali, capireparto, dirigenti aziendali, sacerdoti, responsabili di circoli giovanili, e di chiunque insomma abbia una minima responsabilità in seno a un’organizzazione; infine che l’avversione degli editori americani a pubblicare studi sociologici realmente scientifici fa sì che la maggior parte dei libri di questa materia siano libri di testo e manuali didattici, dove le caute generalizzazioni di modestissimo raggio proposte dai primi ricercatori finiscono spesso per apparire come leggi applicabili senza alcuna limitazione a tutti i fenomeni della vita associata; e si vedrà che la smisurata attenzione portata dalla corporation e dai suoi dirigenti alle relazioni «umane» e sociali è un fatto che riflette una situazione culturale non meno che dei fattori oggettivi dei tipo che abbiamo indicato all’inizio. Per la stessa ragione commetterebbe un grosso errore chi, pensando alla modestissima diffusione degli studi sociologici in Italia, sostenesse non esservi alcun bisogno di richiamare le condizioni di quegli studi negli Stati Uniti per meglio situare un libro come L’uomo dell’organizzazione.

La critica di coloro che predicano «la tecnica prima del contenuto, l’abi1ità di collaborare col gruppo isolata dalle ragioni e dallo scopo per cui dovrebbe collaborare» pervade da cima a fondo l’opera del Whyte, fornendo il filo conduttore per l’esame delle varie situazioni in cui si plasma e si collauda l’uomo dell’organizzazione. Capitolo per capitolo, l’autore segue il suo eroe – che è anzitutto un carattere sociale, un tipo sociologico che prende le vesti più variate – osservando le sue reazioni alle pressioni che gradualmente lo condizionano: a scuola, dove l’insegnamento «pratico» e i corsi di adattamento alla vita fanno premio sulle discipline umanistiche, poi negli anni di tirocinio che preludono alle cariche direttive, nei laboratori scientifici dove l’ideologia del gruppo pone ormai in luce particolarmente sfavorevole l’individuo geniale, nei romanzi e nei films che elaborano l’apologia d’un nuovo imperativo categorico («ama il sistema!») inline nei suburbi residenziali, in cui l’uomo dell’organizzazione tenta in ogni modo suggeritogli dall’etica sociale di dar radici, fra un trasferimento e l’altro, alla sua vita di nomade capitalistico.

Le osservazioni del Whyte intorno alle tremende tensioni cui il conformismo aziendale assoggetta l’uomo dell’organizzazione, e in particolare gli individui più anziani, non ancona addottrinati nell’età scolastica al credo del gruppo, richiamano puntualmente, non meno di Riesman, molti passi di Wright Mills ne L’élite del potere. Come afferma il «sogno americano», l’ereditarietà delle alte cariche direttive è veramente in declino, ma il meccanismo della cooptazione del dirigenti giovani da parte degli anziani è così efficiente nel selezionare e plasmare uomini perfettamente conformi alle esigenze dell’azienda, almeno per quanto riguarda il loro comportamento esteriore, da garantire la conservazione del sistema assai meglio di quanto non facesse un tempo l’eredità delle cariche per linea familiare. A queste tensioni, può dirsi con le parole di Mills, «il più adatto sopravvive, e l’essere adatti non significa possedere una competenza specifica – è probabile che non esista nulla di simile per le massime cariche direttive – bensì sapersi conformare ai criteri di coloro che già si trovano in alto. Rendersi benaccetti ai grandi capi vuol dire agire come loro, assumere il loro aspetto, pensare come loro, essere uno di loro e tutto per loro – o almeno comportarsi nei loro confronti in modo da dare appunto tale impressione».

Anche simili frequenti convergenze di temi e di toni fra autori di formazione tanto diversa come Whyte e Mills, o Riesman, in tre libri pubblicati nel giro do un lustro, stanno a provare che la realtà descritta dal primo non é frutto di partito preso, o di frettolosità documentaria. Sarebbe uno sbaglio, avverte spesso l’autore, credere che duomo dell’organizzazione sia soltanto una vittima dell’indebito sfruttamento delle relazioni sociali operato dalle grandi organizzazioni. Nel momento stesso in cui ne è vittima, egli tenta di volgere a proprio vantaggio ciò che in esse conserva, quasi per inversione dialettica, un valore di difesa della propria natura sociale contro un modo do vivere che minaccia di cancellare ogni genuino vincolo col prossimo proprio per avere esaltato in forma spuria l’importanza del momento sociale. Il suo tentativo si attua specialmente nelle piccole comunità costruite in piena campagna nel giro di pochi mesi, con l’intento di soddisfare la domanda sempre crescente di case unifamiliari da parte dei funzionari delle grandi industrie, costretti a seguire da un capo all’altro dell’America l’itinerario descritto dai nuovi stabilimenti decentrati.

Sono i «nuovi suburbi», dice il Whyte: le case a schiera, l’aiola davanti, il cortiletto dietro, coppie giovani con gli stessi problemi, tanti bambini, e soprattutto tanga Gemütlichkeit, tanta solidarietà di gruppo, tanti buoni rapporti di vicinato. «Le caffettiere, simbolo dell’amicizia gorgogliano tutto il giorno a Park Forest» dice uno degli straordinari avvisi pubblicitari diffusi dagli impresari locali. È nei nuovi suburbi che si manifesta con maggiore evidenza l’Etica Sociale, per mezzo della quale l’uomo dell’organizzazione cerca di attribuire una rinnovata dignità alla propria persona, utilizzando col segno positivo gli aspetti più negativi della sua condizione alienata. «Per etica sociale – scrive l’autore – intendo la corrente di pensiero contemporanea che conferisce legittimità morale alla pressione che la società esercita sull’individuo. I suoi precetti fondamentali sono tre: la fede nel gruppo come fonte della creatività; la fede nel “senso di appartenenza” come bisogno ultimo dell’individuo; e la fede nella possibilità di utilizzare la scienza scienza per infondere questo senso di appartenenza». In altre parole, l’etica sociale è la sublimazione dei fattori oggettivi e culturali, o per essere precisi, del sociologismo psicologico proposto dai secondi, pur benaccetto dai primi, che hanno condotto le Organizzazioni e tutti coloro che vi lavorano ad annettere tanga importanza alle relazioni sociali.

Sarebbe però troppo facile dimettere la questione, applicando all’etica sociale l’etichetta di mera razionalizzazione ideologica di una serie di fatti struttura, esempio nemmeno originale di «coscienza mistificata» o di derivazione paretiana. Nutrito di cultura sociologica – sia pure microsociologica e di seconda mano – l’uomo dell’organizzazione possiede una consapevolezza dei problemi che lo toccano in quanto «tipo» sociale, se non di tutti i fattori oggettivi che lo condizionano, quale nessuna generazione precedente alla sua ha mai avuto. Se egli attribuisce all’ideologia delle relazioni sociali un contenuto etico, come tende a dimostrare il Whyte, lo fa con cognizione di causa: «in una vita in cui tutto cambia, in un mondo che lo porta sempre ad essere in movimento … l’adattamento al gruppo è divenuto quasi una costante». La mancanza storicamente motivata di una ideologia unitaria religiosa o politica, classista o no, lo induce ad accogliere con animo grato la prosperità offertagli dalla benevolent society, ed a cercare nel gruppo primario – i colleghi di lavoro, la famiglia, i vicini, il comitato scolastico – la soddisfazione dei più naturali bisogni affettivi.

Se le leggi economiche sfuggono ormai completamente al suo controllo – e di questo egli è affatto consapevole – la possibilità di dominare, conoscendole, le più elementari leggi microsociologiche, e di assicurare in tal modo a se stesso e ai suoi simili una vita forse priva di molti fermenti e conflitti che l’arricchiscono, ma pure di molti angusti sentimenti ed azioni che valgono in genere a impoverirla. Può esser poco, avere per frontiera le persone con cui si è a contatto di più frequente e diretto; ma chi di noi lo affermi, in un paese dove i rapporti personali sono ancora oggi sì spesso improntati a una falsità loquace autoritario-servile di pretta origine feudale, dovrebbe forse chiedersi se la sua posizione non implichi per caso l’accettazione di tutto ciò che i rapporti suddetti stanno a significare – una società incapace di provvedere almeno ai bisogni fisiologici di un terzo dei suoi componenti, che per ciò stesso conferisce a chi controlla i mezzi di produzione un potenziale potere di corruzione di quei rapporti, del tutto sconosciuto nella società americana.

Su ogni pagina del libro, l’ombra dell’Organizzazione. Ben altri studi da quello del Whyte ci vorrebbero per analizzare il fenomeno onde gli argomenti olistici implicitamente reazionari, usati da vari filosofi romantici o da sociologi come Cooley per postulare il dissolvimento della coppia antipolare individuo-società, sono state riprese e adattati ai propri fini dalle grandi organizzazioni – le corporations, le società finanziarie, i laboratori scientifici collettivizzati, le «officine legali» di Wall Street. Dal suo libro appare tuttavia nettissima la deliberata privatizzazione operata per mano delle organizzazioni di un concetto in origine squisitamente pubblico qual era il concetto di Gemeinschaft, di socialità comunitaria svilito nella nozione aziendalistica della togetherness (ch’è purtroppo maltraducibile con «essere, stare uniti, far gruppo sodale»). Conforme alla lezione dei loro maestri tedeschi, per molti dei protosociologi che abbiamo ricordato l’oggetto attorno al quale il senso di togetherness doveva coagulare restava pur sempre lo Stato, la società di diritto e di fatto; per le corporations diventa l’azienda, e nei confronti dei funzionari le antiche richieste di nutrire un sufficiente esprit del corps, che non negavano la possibilità di conservare adeguate fedeltà pubbliche – a un’idea politica, al partito, alla classe, a un qualunque gruppo di interessi a base nazionale- ingigantiscono a richieste di fedeltà e integrazione senza riserve l’azienda come fatto privato.

Così il tipo sociologico che il Whyte definisce uomo dell‘organizzazione, descrivendone problemi, atteggiamenti e ideologia, é la espressione fenotipica della combinazione dei fattori oggettivi e culturali sopra ricordati, e del loro sistematico sfruttamento, che le direzioni delle grandi organizzazioni americane (ma non soltanto americane) hanno perseguito ora con il candido entusiasmo di chi crede d’aver scoperto la pietra filosofale per la soluzione dei conflitti sociali, ora con una precisa consapevolezza della utilità strumentale che possono rivelare non solo nell’immediato, ma a lungo andare. Il problema non sta infatti nel controllo dei tipi devianti eventualmente immessi nell’azienda, ma nella selezione e creazione di tipi conformi alle sue esigenze; se le misteriose, unilaterali prove cui deve sottoporsi il candidato all’assunzione, nota l’autore, restano tali per anni a escludere automaticamente tutti i tipi «non conformi» o non conformantisi per volontaria (e permanente) mutilazione, è chiaro che ad un certo momento il tipo medio aziendale sarà esattamente quello voluto, e le necessità di controllo autoritario cadranno a un minimo.

Ma ricordiamo, per non perdere mai di vista il lato oggettivo della questione, che se l’Organizzazione compie tanti sforzi per realizzare l’adattamento generale la cui possibilità gli è stata prospettata dalla microsociologia, ossia per ottenere la cooperante togetherness di tutti i suoi membri indipendentemente dai fini privati cui essa dovrebbe servire, ciò avviene perché in un sistema economico estremamente specializzato e integrato, dove la vendita e il consumo presentano ormai problemi assai più complessi della produzione tecnica dei beni, essa avverte che solo un marcato conformismo dei dipendenti-dirigenti nei riguardi dell’azienda in quanto «tipo» sociale può garantirle la sopravvivenza. Come testimoniano le pagine del Whyte sui tests della personalità, il quantitativismo della microsociologia e della psicologia differenziale volgarizzate da «esperti» di dubbia scrupolosità scientifica le offre strumenti dall’apparenza assai raffinata per atuare detto proposito.

Aveva ben scritto Giddings, il primo sociologo quantitativista: «Nella misura in cui la sicurezza e la prosperità dipendono dalla coesione e dalla cooperazione esistenti nel gruppo, si può dire che esse dipendano o di conformità al tipo, necessario per assicurare la coesione e indurre la cooperazione»; e poco oltre, nello stesso scritto, «la società é un tipo, che controlla e limita le variazioni da se medesimo in vista della propria sopravvivenza e ulteriore evoluzione». Esempio caratteristico di società o struttura intermedia, la grande organizzazione produttiva – tutte le grandi organizzazioni burocratizzate che producono beni e servizi, e non soltanto l’impresa industriale – vuol proporsi appunto come idea1e tipo medio, campione tecnicizzato e perfezionato della maggiore società, per il quale, come per il type moyen queteletiano, tutti gli scarti dai propri valori centrali sono incidenti dovuti al caso, e sono pertanto riconducibili nella norma mediante l’impiego di tecniche e calcoli preventivi appropriati. I procedimenti di selezione autoconvalidantesi, come i tests della personalità (che sono tutt’altra cosa dai tests attitudinali, usati nell’industria moderna con vantaggio di ambedue le parti in causa) contro i quali si sferra l’ironia del Whyte, e la traduzione in termini psicologistici dei conflitti di qualsiasi natura, rappresentano gli elementi principali in cui tali tecniche si riassumono.

Come la scuola do Elton Mayo e i suoi malaccorti divulgatori hanno tentato di dimostrare, la più eminente caratteristica dell’uomo é il «bisogno di appartenere», nel Medioevo egregiamente soddisfatto dai rigidi raggruppamenti sociali del tempo, mentre la rivoluzione industriale ha dissolto la società in una torma di piccoli gruppi in conflitto tra loro; il «disadattato», conforme ai medesimi principi, é anzitutto una persona che non ha saputo armonizzare le proprie qualità a quelle del gruppo, ed é lui che deve adattarsi al gruppo piuttosto che l’inverso (la soluzione alternativa non viene mai presa in considerazione, precisa il Whyte); quindi i conflitti sono dovuti a incomprensioni, a interruzioni nei canali di comunicazione, reazioni irrazionali che possono essere talked out, fatte svanire parlandone con un consulente riservato e comprensivo. Vedi ironia, scrive il nostro autore, il primo bersaglio delle teorie sull’adattamento sono diventati proprio i dirigenti – gli uomini dell’organizzazione.

«La manipolazione è un’arma a doppio taglio; avendo appreso quanto fosse illogico il comportamento dei lavoratori, i dirigenti che promossero il movimento delle relazioni umane cominciarono presto a meditare sul fatto che nemmeno i loro colleghi erano poi troppo logici. Anch’essi avevano bisogno di appartenere – più ancora del lavoratore, anzi, poiché la loro vita era maggiormente impegnata nell’organizzazione. Considerando i casi di nevrosi che vedevano intorno a sé, molti giovani dirigenti dalle idee progressive conclusero che il luogo in cui più urgeva introdurre le tecniche delle relazioni umane non era l’officina, bensì i loro uffici».

A parte il suo interesse intrinseco in un’epoca on cui lo sviluppo industriale sembra voler unificare a ritmo vertiginoso strutture, coscienze e problemi, un libro come questo dovrebbe rendere ancora più evidenti al lettore Italiano la deformazione insita in molti tentativi d’introdurre nelle organizzazioni del nostro paese, e in specie nelle imprese industriali, tecniche di miglioramento delle relazioni sociali (o «umane», quasi implicando l’esistenza di relazioni non-umane) che non sono giustificate né da fattori oggettivi, né da fattori culturali. Il fondo ideologico della nostra società, la chiara dicotomia essere-coscienza, i bisogni insoddisfatti, e l’assenza di una cultura sociologica sia pure nel senso più lato, non consentono di dare alle relazioni interpersonali e alla dinamica di gruppo l’importanza che esse hanno ed hanno avuto nella società americana, specie fra i membri della straripante classe media donde proviene «l’uomo dell’organizzazione». Sono ancora, da noi, le situazioni economiche oggettive, i rapporti contrattuali, le relazioni uomo-cosa – per usare un termine di von Wiese – e non i rapporti da uomo a uomo che regolano in prevalenza il comportamento individuale in seno alle organizzazioni.

Tuttavia, considerando le isole, poche e circoscritte, dove lo sviluppo industriale ha prodotto anche nel nostro paese delle organizzazioni simili in molti aspetti a quelle studiate dal Whyte, il lettore italiano trarrà da questo libro molte occasioni per riflettere sul condizionamento da esse operato a carico della cosiddetta personalità sociogenica, o «carattere sociale». E probabilmente converrà che il volontarismo individualista cui si ispirano le conclusioni del Whyte, per quanto generoso, é posto fuori causa proprio dalle situazioni socioeconomiche oggettive che costituiscono Io sfondo della sua analisi. Riproporre l’idea stessa «che animava il pensiero occidentale molto tempo prima della rivoluzione industriale, del calvinismo o del puritanesimo», e cioè che «l’individuo, piuttosto che la società, deve essere il fine supremo », è cosa assai suggestiva, se non fosse she l’autore mostra di volere un ritorno a qualcosa che le strutture economiche e sociali delle società industriali che noi conosciamo negano in quanto tali.

L’uomo dell’organizzazione, quale ce lo descrive il Whyte, è un prodotto della immane concentrazione di mezzi tecnici, economici e umani che ha finora caratterizzato in tutti i paesi lo sviluppo dell’industria, e solo un’inversione di tale processo, nel senso di un progressivo, generale decentramento e diminuzione della densità organizzativa nell’industria, reso oggi materialmente possibile dallo sviluppo tecnologico, ma implicante un vasto rinnovamento del sistema politico ed economico, creerebbe le premesse strutturali per la maturazione d’un «carattere sociale» più plastico e libero.

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