Vancouver 2020: una metropoli da mangiare

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Foto J. B. Gatherer

Il territorio particolarmente ricco e articolato della città di Vancouver è stato qualche anno fa il teatro di uno dei più interessanti e noti esperimenti di “dieta delle cento miglia”, quello raccontato nel bel libro Plenty dalla coppia Alisa Smith e J.B. McKinnon. I due narravano passo passo i risvolti pratici della scelta di vivere per un intero anno solo di tutto ciò che offrivano le risorse naturali di un’area ristretta. Consentendoci così da un lato di scoprire o riscoprire stili di vita dimenticati ma del tutto praticabili anche oggi, ma anche le straordinarie ricchezze di solito sottovalutate di un territorio. Quasi in conclusione del libro, il racconto di una spedizione dal tono rituale, a prelevare il sale direttamente dall’oceano, remando sino al largo su una barchetta. Ed è proprio la collocazione geografica della città sulle sponde del Pacifico settentrionale, a introdurre in qualche modo l’allargamento degli orizzonti di Plenty, prima da esperienza individuale-collettiva in programma politico, e poi in strumenti di attuazione coordinati con altri interventi di settore. Starsene davanti all’oceano rende di sicuro più sensibili a un tema molto discusso ma poco praticato, come il cambiamento climatico.

Vuoi per l’immersione totale nel contesto naturale che lo fa avvertire assai più vicino di quanto non avvenga in altre condizioni, vuoi per la spontanea associazione fra innalzamento del livello degli oceani e assetto urbano di una città costiera, l’amministrazione di Vancouver ha già da diversi anni iniziato a adottare strumenti operativi diretti per affrontare il problema del riscaldamento del pianeta e di ciò che ne consegue localmente. Del resto esisteva già una tradizione locale di riduzione delle emissioni e dei consumi energetici, soprattutto attraverso una politica dei trasporti molto avanzata, partita dal rifiuto di un assetto urbano basato sulle comunicazioni veloci automobilistiche, e sviluppatasi poi in modo coerente. Greenest City 2020 – adottato da poche settimane – rappresenta però un passo avanti notevole in quanto strategia / contenitore di azioni già molto generali ed efficaci in sé, e con un orizzonte temporale per l’attuazione a dir poco molto prossimo.

Gli ambiti di intervento sono dieci, a partire dai primi due di base (e forse più interessanti per i soggetti economici privati) riguardanti il ruolo di avanguardia ambientale della città nel mondo e lo sviluppo di un settore produttivo e di servizi locale altrettanto all’avanguardia. Il che in qualche modo pone le fondamenta per trasformare poi il territorio in un campo di sperimentazione finalizzato. Ad esempio per ambiti d’azione classici, che hanno in tutto il mondo progetti pilota, come l’edilizia sostenibile e un sistema di trasporti a basse emissioni, ma che nel caso specifico appunto possono crescere di dimensioni e articolazione, andando direttamente ad alimentare l’economia, l’immagine, la crescita di posti di lavoro altamente qualificati, la ricerca. Poi, di nuovo con un legame evidente al resto, gli obiettivi più classicamente ambientali di un rapporto meno mediato della città con la natura, aria pulita, ciclo delle acque più virtuoso, e in qualche modo tutto questo si somma nell’altro capitolo, di riduzione dell’impronta urbana. Va da sé che una adeguata e innovativa gestione dei rifiuti debba mirare sia alla riduzione degli sprechi, sia al riciclo, sia a coordinarsi con aspetti più economici come energia e territorio. All’ultimo posto, ma non in ordine di importanza, l’alimentazione.

Esplicito il titolo del capitolo, anche nel dichiarare quanto tutto si tenga nella logica olistica del programma: Vancouver diventerà leader mondiale in quanto sistema alimentare urbano, a partire per esempio da alcune potenzialità e carenze già individuate in piccolo dal citato libro di Smith e McKinnon, e legate sia all’annosa e irrisolta contrapposizione città-campagna, sia a una produzione territoriale legata al sistema dei mercati globali o comunque di scala interregionale. Fra gli obiettivi più immediati un incremento a breve termine da un minimo del 50% a massimi del 500% di tutti gli elementi di ricchezza di sistema alimentare, che vanno dai punti di vendita diretta ai cittadini dei prodotti del territorio, alle superfici destinate a orti di quartiere, frutteti, agricoltura urbana vera e propria, cucine sociali ecc.

I due punti più immediatamente comprensibili sono come ovvio produzione e distribuzione alimentare locale. Greenest City li interpreta come:

Aumentare la quantità di quanto cresce in area urbana, sia sul versante della maggiore disponibilità di spazi e superfici, sia con sostegno tecnico e scientifico a metodi adeguati e a basso impatto ambientale Fondamentale legare l’aspetto produttivo a adeguati e coerenti sbocchi di questa produzione, pure coordinati in specifico piano, come i mercati di vendita diretta decentrati per quartieri, e localizzati in contesti ideali come parchi e simili, ma tutt’altro che marginali, così da eventualmente influenzare anche la rete attuale della distribuzione di mercato.

Facilitare la distribuzione degli alimenti locali a partire da un uso comunitario, ovvero acquistare direttamente i prodotti del territorio per rifornire le mense scolastiche, i centri anziani ecc. Questo tipo di politica comprende sia materie prime che lavorazioni locali, dai forni per il pane ad altri tipi di alimenti pronti.

La questione degli spazi evoca naturalmente in prima istanza quella annosa del consumo di suolo per usi urbani, e indirettamente quella dei trasporti sostenibili legati a doppio filo col tema dello sprawl suburbano a bassa densità. È noto infatti che in un contesto metropolitano comunque in crescita economica e demografica (dove quindi è poco realistico ipotizzare un blocco dell’urbanizzazione) una delle prime leve su cui agire per promuovere quartieri densi potenzialmente integrati e plurifunzionali è quella della mobilità, collettiva e non motorizzata. Anche senza scivolare nel modello un po’ ideologico all’americana, che spesso si traduce in caricature di villaggi per ricchi, è evidente che unendo in modo virtuoso politiche urbanistiche e strategie dei trasporti è possibile sia risparmiare suolo agricolo, sia costruire la rete delle cosiddette infrastrutture verdi, su cui innestare i poli identitari e di distribuzione alimentare ipotizzati, sperando poi che nei quartieri multifunzionali possano svilupparsi altre attività complementari (commercio, ristorazione da fonti locali, laboratori, servizi).

Per chiudere il cerchio, l’aspetto per nulla marginale della ricerca e sviluppo legati al sistema alimentare locale, e quindi alla crescita economica metropolitana. Fra le azioni previste dal piano un “incubatore alimentare” che sappia promuovere le attività legate al settore, specie quelle a più alto tasso di innovazione. Ciò si lega direttamente sia agli aspetti strettamente economici che a quelli sociali e di coinvolgimento della popolazione, sia per creare nuovi posti di lavoro che per educare a comportamenti, consumi, atteggiamenti in linea con gli obiettivi. A partire da una constatazione generale già abbastanza implicita nel diario della coppia di Plenty: esistono moltissime iniziative spontanee, tali da configurare già oggi un sistema territoriale alimentare molto vitale e innovativo nell’area di Vancouver, ma risultano deboli in quanto sconnesse. L’intervento pubblico ha quindi come ruolo essenziale quello di garantire comunicazioni e azioni a rete, a scala urbana, ricomponendo i frammenti in una massa critica. Chi ci avrebbe pensato, a tutte queste cose, andando in bicicletta a zappare l’orto della zia in primavera?

Riferimenti:

Le iniziative sostenibili di Vancouver http://www.talkgreenvancouver.ca/

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