Urbanizzazione: le caprette ti fanno ciao!

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Foto M. B. Style

Pare che Heidi sia un possente motore economico nella Confederazione Elvetica, una realtà testimoniata direttamente dagli operatori. Senza nulla togliere ai conti cifrati nei caveau delle banche, naturalmente, da parecchi anni funziona alla grande un corposissimo flusso di turisti dal Sol Levante che, affascinati da piccini davanti al televisore a seguire le avventure montane della piccola protagonista del leggendario cartone animato, poi vogliono sperimentare dal vivo pascoli, caprette, vette innevate. Un po’ ridicolo magari, ma in fondo niente di diverso dal megabusiness della Disney, con in più solide radici culturali, sociali, ambientali, altro che topi e paperi immaginari! Qualcosa di simile del resto succede anche al contrario, o meglio con un circuito diverso, nel caso del villaggio austriaco di Hallstat, rispuntato in fotocopia dalle parti di Huizhou, Cina, fotocopia poi inaugurata in pompa magna da una delegazione capeggiata dal sindaco della Hallstat originale. Anche qui c’è una parte ridicola e un’altra molto meno, e cioè il gigantesco (non per la Cina, ma per l’Austria) flusso di turisti che dall’Asia arrivano a vedere l’originale per paragonarlo alla fotocopia e vedere se è meglio. Solo folklore strapaesano? Ripensate a Disney …

Ecco, ripensiamo al mondo dell’immaginario rurale americano, quasi del tutto artificiale e un po’ folle coi suoi animali che scorazzano per l’aia, e come si sia transustanziato in una impresa economica dalle incredibili diramazioni, con effetti sulla cultura, la ricerca, e vorrei dire il progresso. Come sappiamo tutti, i turisti giapponesi a caccia di Heidi o quelli cinesi che scrutano magari sospettosi una sacher torte, non devono essere considerati solo una banda di gonzi scesi da un pullman per farsi prendere in giro e svuotare il portafoglio. Sono l’inizio di qualcosa di complesso, che tanto per fare un esempio parte da trasformazioni infrastrutturali, un ambiente al tempo stesso conservato e rinnovato. I verdi pascoli dove le caprette ti fanno ciao e qualche nonno scruta la valle dalla baita d’alta quota, devono un po’ restare identici (e per quello già c’è tanto lavoro da fare, e lavoro vuol dire reddito) ma anche diventare molto più accessibili e fruibili ai signori con gli occhi a mandorla che vogliono assaggiare il latte appena munto, magari senza farsi scoppiare i polmoni cittadini con una marcia forzata. E per funzionare al meglio, nonni e caprette devono essere veri, non figuranti di cartapesta, veri e attivi, anche nel chiedere che le nuove infrastrutture per i turisti non snaturino il loro amato pascolo. Eccetera.

Un modello complesso, che coinvolge ad esempio innovazione tecnologica raffinata e prima ancora ricerca: come mantenere intatti gli habitat d’alta quota anche in presenza di cambiamenti climatici? come rispondere ai bisogni di mobilità dei turisti con strutture sostenibili a basso impatto visuale ed energetico? come organizzare un’accoglienza coerente con la natura dell’offerta tematica e non, senza scivolare nel modello polli in batteria da spennare, che farebbe scappare immediatamente tutti i delusi verso altre mete? Si capisce al volo che un sistema del genere non ha nulla a che vedere con certe idee da sviluppo basato su una «nazione di camerieri», sventolate dalla cultura veteroindustrialista ogni qual volta si tirano in ballo le risorse culturali e ambientali di un sistema. E il rapporto diretto con l’Estremo Oriente dei due esempi citati non è casuale, perché lo spunto di queste riflessioni è il rapporto Supersized cities che il gruppo di ricerca dell’Economist ha dedicato alle megalopoli cinesi in tumultuosa crescita. Lo sappiamo benissimo tutti che nella grande galoppata globale verso l’urbanizzazione definitiva dell’umanità sono proprio i grandi sistemi urbani della Cina a occupare gran parte del ruolo di punta (nonché gli incubi di certa concorrenza occidentale).

Le formazioni geografiche insediative dette megalopoli (cosa assai diversa, va ribadito per chi è assuefatto a certo linguaggio giornalistico, da una grande città) lì stanno crescendo e articolandosi, via via dotate di reti infrastrutturali sempre più integrate e moderne, ma esiste un fattore socioeconomico molto preciso alla base di tale processo. Basta leggere le cifre aggregate per capirlo: ad esempio l’area che chiamiamo Shanghai ha il doppio degli abitanti della Svezia; quella sconosciuta ai più detta Wuhan gli stessi dell’Ungheria. E non è tutto, anche solo restando alla demografia. La gran massa di queste popolazioni, già oggi e ancor più in proiezione visto il costante influsso dalle campagne, è costituita da giovani con meno di 40 anni, ovvero più o meno l’età in cui tanti del nostri concittadini riescono a malapena a liberarsi definitivamente (sempre che ci riescano) dal condizionamento monetario e non solo dei genitori, uscendo così socialmente dall’adolescenza prolungata a cui sono stati in un modo o nell’altro costretti. È questo il contesto cinese in cui si sviluppano produzione industriale, servizi, trasformazioni per certi versi paragonabili a quelle della nostra rivoluzione/urbanizzazione di qualche generazione fa, pur con tutte le cose nuove e inedite che il modello ha già proposto e proporrà in futuro.

Quindi da un lato abbiamo la massa critica quasi inquietante di queste formazioni territoriali ed economiche, dall’altro la loro qualità dotata di un dinamismo dal nostro punto di vista inarrivabile, e che non si «risolve» scimmiottandolo sul versante degli stili di vita e/o del rapporto lavoratori e imprese, né su quello dell’ammodernamento infrastrutturale tradizionale. Non avrebbe alcun senso, almeno fuori da una logica mordi e fuggi, che non si adatta certo a un sistema paese. E allora tornano in mente le alpi svizzere e austriache, le caprette di Heidi, le case di marzapane di Hallstat (quella vera e quella finta), o per analogia antipodale quegli arcaici conflitti fra lavoro e ambiente, dove la sostenibilità si scontra perdente col «diritto a guadagnare». Vengono in mente anche certe forzature delle ricostruzioni post disastro, con l’attenzione tutta tesa al rilancio di attività economiche tradizionali, compreso magari qualche rischio, tra le proteste degli esperti di territorio e beni culturali per il secondo o terzo piano in cui sono vengono relegati questi aspetti, che pure sarebbero quanto il lavoro la base di qualunque sistema sociale e identitario. E si capisce che qui non si tratta proprio di puzze sotto il naso da intellettuali scaldasedie mantenuti a spese del contribuente.

A parte il valore assoluto della cultura, di cui i beni artistici, paesaggistici, ambientali, sono componente inscindibile, esiste anche l’aspetto sociale, e conseguentemente quanto immediatamente economico. Che non significa (repetita iuvant) come dicono certi giurassici industrialisti «diventare un popolo di osti e camerieri» o venditori di cartoline al chiosco davanti al monumento o al belvedere. Vuol dire cominciare a pensare seriamente a cosa farne di noi, compresa la terra che abbiamo sotto i piedi e senza la quale sprofonderemmo subito. E ci sono tanti modi diversi di sprofondare. Uno è quello di pensare perversamente che esistendo per esempio, come confermano i geografi, tante nostre megalopoli europee e occidentali di massa demografica e socioeconomica del tutto paragonabile (molto superficialmente) alle formazioni emergenti nel mondo, le si debba scimmiottare in tutto e per tutto. E allora? Heidi, appunto, e tutto quello che si porta appresso, in tutte le versioni locali storico-culturali-paesaggistiche che vi vengono in testa. Altro che vertigini tardomoderniste a vanvera: quelle lasciamole ai giovani campagnoli dalle guance rosse appena sbarcati nella loro megalopoli in tumultuoso sviluppo.

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