La città è di sinistra (dissertazione consequenziale)

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Foto J. B. Hunter

Riassunto delle puntate precedenti, come doveroso quando le cose si devono osservare con un minimo di prospettiva. Nella seconda metà del XIX secolo, quello che certi tizi ancora ci decantano come quello dei capitani coraggiosi capaci di visione e soprattutto di arricchirsi sulla pelle del prossimo, accadeva che le città si dimostrassero inadeguate a svolgere il ruolo per cui le abbiamo inventate. Nulla di particolare, succede sempre, anche di questi giorni per esempio coi blackout che stanno mettendo knockout le città dell’India, anche quelle decantate dai liberali miopi come modelli economici. Ma diciamo che almeno nell’800 la cosa era relativamente nuova, e in molti provavano a guardare oltre i conti correnti degli investitori, cercando soluzioni anche radicali. La più nota è quella delle utopie cosiddette antiurbane, dove un pugno di eroi (o una massa sterminata, a seconda delle declinazioni) si inoltrava nelle campagne a cercare la società perfetta anche nel suo rapporto con l’ambiente. Appena quelle idee iniziarono a prendere piede prese piede anche il loro sottile addomesticamento: dimenticatevi tutte quelle sciocchezze sui diritti, l’egualitarismo, la sostenibilità, e godetevi invece a spese rigorosamente vostre il cosiddetto sogno immerso nel verde. Riassumendo al massimo, è andata proprio così.

I segnali erano chiarissmi da subito anche all’interno del movimento, sia con gli architetti che erano riformisti sì ma soprattutto, appunto, architetti, sia con tanti attivisti che volevano vedere risultati in quantità, tangibili, come le casette con famiglie felici per definizione: che poi fossero davvero tanto felici, che dietro le tendine del cottage ci fossero casalinghe tanto disperate quanto quelle dello slum urbano, evidentemente fregava poco ai responsabili di partiti, cooperative, riviste di settore. Così da un mondo di città si iniziò a traslare, almeno nell’immaginario, a un mondo suburbano, dove invece della società eguale c’era soprattutto la famiglia un po’ più segregata di prima. Dato che il progresso per certi versi è inarrestabile, i segregati non solo si convincevano sempre più che quella fosse l’anticamera del paradiso, ma scimmiottando i vezzi dei loro padroni diventavano anche sempre più reazionari. La famosa frase del palazzinaro Levitt »chi ha una casa con giardino non sarà mai un comunista», se gli leviamo il contesto da guerra fredda degli anni ’50 in cui si colloca, si potrebbe anche riformulare diciamo così: «in fondo a un vialetto ci si rincoglionisce di brutto”. Fino a un certo punto. Il quale punto – di svolta mentale – è rappresentato dalle questioni ambientali.

Il mondo felice per tutti, apprezzato da ricchi e poveri, grandi e piccini, a chi lo guarda con un po’ di attenzione inizia subito a ispirare qualche diffidenza. Come quel tizio che i suburbi li progetta in serie negli anni ’30, ma si accorge quanto prezioso terreno agricolo finiscano per mangiarsi direttamente, o frammentare rendendolo più difficile da usare in quanto tale. Sarà lui a inventarsi la parolaccia sprawl. O quell’altro che una ventina di anni dopo studiando la «metropoli che esplode” scopre quanti paesaggi e identità locali le casettine a misura d’uomo hanno spazzato via. Il colpo decisivo è però quello determinato da un’altra esplosione parallela, quella dell’automobile, uguale e complementare alla casetta. È con l’automobile che le infinite file di cubetti diventano alla portata di tutti (purché paghino le rate), ed è con l’automobile che iniziano a crescere rigogliosi anche scatoloni più grossi, da quello dove si va a far finta di essere in piazza, a quello dove ci si segrega per lavorare, o studiare, addirittura divertirsi. Con le automobili arrivano però anche gli scarichi, e il guaio allora cominciano a vederlo in tanti, mica solo qualche studioso o esperto: in fondo l’essere umano per essere vivo respira, e questo vorrà pur dire qualcosa.

Dal chiedersi perché il traffico ci soffoca, al chiedersi perché mai ci debba essere tanto traffico, e perché mai tutto il resto, il passo non è brevissimo, ma con un po’ di impegno ci si arriva. L’ambientalismo si arricchisce di una forte componente suolo, e gli studi sociali ed economici dei fattori distanza evitabile, segregazione funzionale, patologie collettive come se piovesse. I nodi nascosti per tre o quattro generazioni sotto il tappetino WELCOME vengono al pettine, insomma, e finalmente anche i discendenti dei riformisti realisti si accorgono della cazzata degli avi. Sindaci, ministri, presidenti, attivisti, tecnici, studiosi (qualcuno pure un po’ in malafede che salta sul carro del nuovo) provano a elaborare proposte: aumentiamo le densità per imitare meglio un ambiente urbano, integriamo di più le funzioni, sviluppiamo nuove tecnologie per i trasporti e le comunicazioni anche immateriali, cerchiamo un nuovo equilibrio fra campagna e città. Nasce insomma l’idea di insediamento umano sostenibile: quello vero, non le pagliacciate che provano a rifilarci i discendenti dei robber barons ottocenteschi e i loro cantori prezzolati.

Scemi, faziosi, oppure un pochino più raffinati ma non troppo (le balle restano pur sempre balle) questi cantori del cosiddetto ovvio non ne lasciano correre mezza, appellandosi sempre a cose come la tradizione, le necessità dello sviluppo, i gusti e orientamenti medi del cittadino, della famiglia, del consumatore. Questi magari cent’anni fa avrebbero detto che il sogno dell’operaio urbano medio era di morire ubriaco in un vicolo, mentre sua moglie schiattava di parto quattro piani senza elettricità e acqua corrente più in alto. Probabilmente avrebbero dato la colpa alla corruzione morale dei singoli. Oggi invece buttano evidentemente tutta la responsabilità sulle spalle del complotto afro-socialista del falso democratico Obama, o di chi come lui vorrebbe ostacolare il libero dispiegamento delle cose che invece piacciono tanto ai coriferi del suburbio assoluto. E cosa sono, queste cose, oggi? Si possono riassumere con il diritto ad essere padroni a casa propria: una casa propria che si allarga e si restringe a seconda delle necessità della propaganda.

Casa propria è prima di tutto casa propria, intesa in senso stretto come abitazione. Un’abitazione che include tutto il privatizzato possibile: per dormire, per mangiare, per il tempo libero da soli o con amici, per la famiglia che c’è o quella che potrebbe esserci, per ammucchiare tutto ciò che è diritto divino comprarsi. Quindi una casa enorme, costruita dove ci pare, e al centro di uno spazio verde privato altrettanto enorme per nascondersi il più possibile al mondo esterno, salvo le ovvie necessità di affermare al mondo quanto siamo ricchi ostentando facciate, o muri ciechi con le telecamere a circuito chiuso. La casa però si allarga subito alla sua componente mobile, l’auto gigantesca, tanto in più spazio per te e tanto meno per il prossimo, tanto parcheggio, tanta superficie stradale, e allora pialla via marciapiedi che tanto ci vanno solo i poveretti, pialla via piazze perché c’è già il centro commerciale, pialla via pure i giardinetti dove dormono gli sfigati, e che se ne comprino uno privato di giardino. E allarghiamoci, allarghiamoci, il mondo è grande, quando non è grande abbastanza al massimo si elimina qualcuno che occupa spazio senza l’autorizzazione di Dio, il cosiddetto manifesto destino tipico di chi maneggia il fucile e ne tiene sempre uno nel baule.

Perché quello che propongono i cosiddetti sovversivi come Obama è di ripensare a cosa ci siamo persi distruggendo la città tradizionale, o abbandonandola al degrado, o costruendone di nuove modellate sulle necessità del petrolio anziché del resto della natura. Riflettere su cosa sia urbano, sociale, ambientale, in una parola vitale, è tabù per i cantori del finto ovvio, ireazionari globalizzati, i truccatori di statistiche. Riflettere, e diffidare dei falsi profeti, nonché delle cacche di cane sul marciapiede. Un dubbio: a quale di queste due categorie apparterrà l’ultimo della serie, quel tale che accusava tempo fa il presidente Usa Obama di voler Bruciare il suburbio solo per eliminare fisicamente gli avversari politici? Forse alla terza, quella degli idioti?

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