Vione, monumento perduto del paesaggio agrario

Foto F. Bottini

1985. Inverno, la metà del mese di gennaio appena passata, una coltre immensa di neve, dappertutto nel nord d’Italia. Da qualche giorno aveva smesso di nevicare. Chi ha vissuto coscientemente quel tempo non può aver dimenticato quei giorni in cui la neve cadde, copiosa ed incessante, sino a raggiungere livelli difficilmente ricordati prima di allora.

Fu quella la prima volta che andai in visita a Vione, nel comune di Basiglio, sud Milano. Erano, in effetti, anche i miei primi sopralluoghi al Basso milanese. Provai intense emozioni di fronte al nucleo rurale, rimasi sorpreso di fronte ad un’organizzazione dello spazio che percepivo perfetta, da ogni punto di vista; quella cascina, quel paesaggio mi parvero sprofondati nel tempo, immutato da secoli. Nulla poteva ricondurmi al tempo esatto e reale se non la consapevolezza di trovarmi a distanza contenuta, certo, ma sufficiente a non percepirne l’impatto devastante, da quella insensata e faraonica opera ancora in costruzione che intendeva, velleitaria replica, proporre un nuovo modello insediativo. Milano 3, appena appena percepibile con le gru ancora in movimento si intravedeva da qualche punto della vasta azienda agricola.

Il sole già alto inondava tutto quanto di calda luce, ogni scorcio della campagna all’intorno della cascina risplendeva, tra umori di gore e freschi scrosci d’acque. Vione, cinta su tre lati da un fossato, era circondata da marcite, ancora non completamente sgombere dalla neve che, abbondantissima, ricopriva gli edifici. Tra questi, attraverso i varchi lungo il perimetro, potevo scorgere montagne di neve accumulata nei cortili per lasciare liberi i percorsi di smistamento all’interno del nucleo rurale, ad opera dei contadini che lì vivevano e lavoravano. Tutta la campagna più in là era in preda al gelo. Mi tornavano alla mente le parole del Cattaneo, camminando ne ripetevo i versi come a volerli commisurare a quanto andavo osservando: “Una parte del piano, per arte ch’è tutta nostra, verdeggia anche nel verno, mentre all’intorno ogni cosa è neve e gelo” (Carlo Cattaneo, Notizie su la Lombardia. La città, a cura di G. Armani, Garzanti, Milano 1979).

Osservata dall’esterno del suo ampio perimetro, la cascina mi parve immersa in un sonno profondo. Scorsi poche persone in movimento all’interno della cascina e, raggiunto il portale a nord, lo sguardo si perse sul lunghissimo asse di attraversamento. Rimasi colpito, “che luogo straordinario”, pensai. Al gorgogliare incessante dell’acqua che si disperdeva sulle ali fumiganti di marcita si sovrapponeva il muggito caldo delle mucche; percepii che dovevano essere veramente molte.

Rimasi lì attorno per almeno tre ore, girando e rigirando lungo la strada divenuta quasi una trincea tra cumuli di neve ai lati, mentre la roggia Speziana, che mi parve larghissima, placida conduceva le sue acque.

Quando tornai per la seconda volta, di lì a qualche giorno, le marcite scintillavano di verde, senza più alcuna traccia di neve che ancora, ed abbondante, copriva ogni cosa all’intorno.
Incontrai il conduttore del fondo che mi accompagnò nella visita alla cascina e alle sue otto corti. Seppi che nelle stalle erano allevate 450 bovine tra lattifere, manze e manzette, più un certo numero di tori e cavalli. In cascina, vivevano allora 62 persone, tutte – eccetto donne e bambini – impiegate nelle attività dei campi.

Ciò che appresi durante il sopralluogo non mi lasciò affatto tranquillo. L’azienda stava avviandosi ad un cambio strutturale che si sarebbe rivelato irreversibile e che avrebbe forse rappresentato la fine di un mondo, cresciuto e rafforzatosi nel corso di sette secoli. Vione, di cui si ha traccia nel 1086 (locus de Villiono), fu in antico una grangia cistercense e l’oratorio dedicato a San Bernardo ne è preziosa testimonianza.

Nel volgere dei due anni successivi si compì il passaggio rivelatosi senza più ritorno. Il carico di bestiame scomparve e per me, che osservavo con approccio da studioso e animo da ricercatore, fu improvviso ed incomprensibile. Ma sapevo che la Comunità europea pagava un milione e mezzo di lire per ogni capo abbattuto. Ah, l’Italia anello debole della Comunità che aveva come seconda voce di deficit il bilancio agro-alimentare, subito dopo il settore energetico…

Dunque, scomparsi i bovini, già nell’inverno del 1987 le marcite non ricevettero più la vitale acqua; anzi, in quel momento le campagne a marcita più lontane dal nucleo rurale erano già state rotte.
Sì, rotte, così si usa dire in campagna quando si abbandona la pratica, sostituita con coltura cerealicola, mais prevalentemente, ma anche riso.

Sconforto, sincero sconforto nel constatare che quell’angolo di mondo che mi aveva incantato stava scomparendo, diventava altro che non volevo osare immaginare. Milano 3, castellum della middle class milanese, come lo definiva Lodovico Meneghetti che, maestro, seguiva gli sviluppi della mia tesi di laurea, sembrava completato. Attorno e un po’ più in là altri incomprensibili insediamenti: “il Girasole” acquattato tra le risaie; l’assordante cortina edilizia del “Ripamonti Residence” incombente su Viquarterio, un tempo Vilquarterio; un certo progetto su Tolcinasco di cui avevo sentito parlare (passato di mano e quindi divenuto, con l’azienda agricola, sede del green più esclusivo d’Italia); poi, ma certo, quella miriade di piccoli e meno piccoli episodi di residenza a ville, i capannoni come funghi e le strade, nuove strade e stradoni, tutto quanto inutilmente dispersivo e distruttivo di fertile campagna.

Il sacco delle terre compiuto, aziende agricole semplicemente passate di mano, mani immobiliari. Le più abili e potenti si muovevano con precisione e rapidità; nessun tentennamento, occorreva innanzitutto far presto per siglare la compravendita a prezzo agricolo, con investimenti peraltro tutt’altro che contenuti visto l’elevato valore agronomico e le enormi superfici in gioco. Poi, dopo, a tempo debito, la contrattazione con l’ente locale per la trasformazione, dal PRG alla lottizzazione, dal paesaggio agrario al cantiere edilizio. Dalla campagna alla (presunta) città. Tutto noto, tutto regolare, tutto timbrato al posto e al momento giusto.

Dunque Vione, e la sensazione di dovervi rinunciare per sempre. Basta, è finita anche per questa cascina. Come per tante altre nel Basso milanese: Rovido, Bazzana, Bazzanella, Tolcinasco, Coriasco, Romano Paltano, Ronchetto, Ronchettino e Ronchettone, Sestogallo. La lista è lunghissima, potrei continuare elencando cascine di grande e grandissima dimensione diventate altro, fantasmi del passato che abbiano mantenuto o meno la forma, senz’anima.

Processo irreversibile, dinamiche di mercato, la terra poco più che un orizzonte per nuove costruzioni. Milano da bere e campagna da mangiare, un unico devastante processo di speculazione. Gli attori sono noti, da un lato le mani potenti degli imprenditori del mattone, dall’altro le amministrazioni impegnate a perseguire rozzamente il malinteso concetto di sviluppo, quello che non annovera tra le specificità l’agricoltura, la campagna. Contadini a Milano, figura obsoleta, in via di estinzione, largo alla valorizzazione immobiliare.

Vent’anni e poco più di lenta agonia per Vione, velocissima a guardarla dal profondo lasso temporale che ne rappresenta la storia. La cascina da allora – primi anni Novanta – è rimasta, di fatto, senza più alcuna manutenzione, schiacciata sotto il peso dei secoli; progressivamente abbandonata dalla sua popolazione contadina e svuotata repentinamente dalla sua funzione è andata di corsa incontro al suo destino. Destino che qualcuno aveva già scritto, deciso al tavolo del mercato immobiliare. Uno, due passaggi di proprietà, mero investimento per moltiplicare il valore, miliardi di lire prima, milioni di euro poi. Anche Paolo Berlusconi si propose come acquirente, senza successo; a lui interessava più che altro la terra, Milano 4, certo.

Stalle, corti di lavoro, case dei salariati, mulino, chiesa, asse di attraversamento, depositi, porticati, la casa padronale, il fossato, le aie, il forno, le scuderie, i caselli, i portali. Ecco Vione, otto corti attorno alle quali si è organizzata nei secoli la più vasta cascina di un territorio che va ben oltre il Basso milanese, caposaldo di una delle aziende più ampie della pianura irrigua, oltre 320 ettari. Le marcite estese su 82 ha, un quarto del totale della superficie agraria.

Dice oggi un fattore, che lì ha trascorso tutta una vita, che in Europa, avete letto bene, in tutta Europa, Vione rappresentava la seconda azienda agricola per quantità e qualità del prodotto. Lui l’aveva detto, “non vendete le mucche altrimenti tutto scomparirà”, finito per sempre.
Nove secoli di storia, serve un paragone? Avete presente la Sforzesca? Ecco cosa è Vione. Prima ancora che nel centro comunale di Basiglio, l’acqua sgorgava dai rubinetti delle case di Vione. Proprietà colta e ricca, attenta a soddisfare i bisogni primari già dal primo dopoguerra. E prima ancora che in paese, le abitazioni dei salariati avevano avuto il gabinetto, piccolo, ma dentro, non più fuori, in cortile.

Poi, col passar del tempo, l’abbandono, i crolli, gli sconquassi, il degrado strutturale, la morte.

Ora le cesate circondano il luogo, il cantiere è avviato. Parco agricolo sud Milano, ebbene sì, anche questo non basta, non serve a niente. Vione è persa, il monumento è perso.
Il Parco sud, questo sconfitto, pure gioisce nell’annunciare il rinascimento di Vione, in pompa magna presentato al Circolo della Stampa lo scorso aprile. Ecco, Vione rinasce dalle sue ceneri e si appresta a divenire un esclusivo centro residenziale di gran lusso, con servizi condominiali a 5 stelle e 6.000 €/mq, con ogni comfort sia possibile immaginare per un modello abitativo per soli ricchi. Poteva mancare la SPA? Certo che no. Del resto, che cosa non potrebbe avere un nuovo, che cosa?, villaggio?, residence?, castello? borgo? che, a dispetto delle risaie e dei pioppeti circostanti, per ora salvaguardati, è presentato sul web come il luogo dove (ri)trovare l’esclusiva atmosfera di Portofino, la prestigiosa eleganza di Capri. Sicurezza garantita 24 ore su 24 con accessibilità limitatissima, la spesa consegnata direttamente a casa, i bimbi futuri da crescere in totale sicurezza, fuori dal mondo. Forse, con un parallelo forzato, come quelli dell’antica cascina che, chiusi i pesanti portoni, s’abituavano a vivere, appunto, fuori dal mondo.

Da ricordare, facendo finta ve ne sia bisogno, che il Piano di Recupero di Vione prese avvio negli anni Novanta, fu approvato dal Consiglio Comunale nel 2003 con i soli voti del centrosinistra, lista Basilium, mentre i consiglieri di opposizione – tra i quali l’attuale sindaco Marco Cirillo, giunta di centrodestra – gridavano alla cementificazione di Vione trasformata in lussuose abitazioni. Gli stessi che ora si sperticano di lodi nel presentare come rigoroso restauro conservativo la trasformazione dell’antica cascina, nuova città ideale. Anche tettoie e ricoveri aperti fanno volume.

In occasione del convegno su “Il futuro delle cascine lombarde”, 2003, Camillo Piazza, portavoce provinciale dei Verdi e Presidente provinciale degli Amici della Terra, denunciava il Piano di Recupero: “Mi auguro che chiunque vinca le elezioni amministrative non porti avanti il progetto di recupero di Vione in questo modo. Non si deve snaturare la vocazione agricola dell’antica cascina”. Il lunghissimo applauso dei cittadini presenti pareva preludere alla mobilitazione per ridisegnare lo scenario, avvalorato dalle parole dell’allora Assessore regionale al Territorio e Urbanistica Alessandro Moneta, per il quale era “auspicabile che la ristrutturazione delle cascine lombarde dismesse, avvenga attraverso i programmi integrati di intervento. Le nuove funzioni devono tenere conto del patrimonio edilizio esistente, del pregio architettonico senza minimamente incidere sull’attività agricola.”

Requiem.

Vedi anche F. Bottini, Borgo Vione, immersi nel verde e nella paranoia

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