Insostenibilità della dispersione urbana

Foto F. Bottini

Se nella risoluzione finale di Habitat III – adottata nel 2016 dalla Assemblea Generale dell’Onu per una nuova Agenda Urbana dello sviluppo sostenibile – si auspica una decisa azione di prevenzione dello sprawl a scala mondiale, due opere di recente pubblicazione sintetizzano meglio di ogni altra considerazione gli esiti della crescita urbana del Novecento, nel passaggio dal sogno di un decentramento pianificato della città industriale alla cruda realtà del caos della dispersione metropolitana postindustriale.

La prima, Paradise Planned – curata dall’Università di Yale e pubblicata a conclusione di un’attività di ricerca durata una trentina d’anni – racconta, in una monumentale edizione di oltre mille pagine, delle opportunità del sobborgo pianificato dei primi decenni del seco- lo scorso, pensato per dare una risposta alle stringenti necessità poste dal crescente degrado fisico e sociale dell’ambiente urbano e dalle sue molteplici inefficienze prodotte dall’eccessiva concentrazione industriale, nonostante taluni limiti e lampanti distorsioni: basterà ricordare la contraddittoria diffusa esperienza delle company towns, le città del paternalismo ove in cambio di condizioni abitative migliori sarà garantita, attraverso regole ferree, la pace sociale.

La seconda, Infinite Suburbia – curata dal Norman B. Leventhal Center for Advanced Urbanism del MIT – ci riconduce alla realtà odierna, sempre più connotata da modelli di urbanizzazione variamente declinati ma inesorabilmente dispersi. Nel mezzo, cento e più anni di trasformazioni urbane segnate da una ostinata reiterazione di forme che, ormai da qualche decennio, sono considerate insostenibili. Se un secolo fa molti si affannavano nella ricerca di soluzioni per alleviare i mali che aveva provocato un eccesso di concentrazione urbana, oggi chi si occupa a vario titolo di città si trova a profondere lo stesso impegno – e spesso a sperimentare la medesima frustrazione – nel tentare di arginare la dispersione metropolitana e le sue connaturate criticità.

È rimasto largamente inascoltato il monito di Lewis Mumford quando già negli anni Sessanta osservava come di lì a breve non sarebbe stato più possibile permetterci né l’espansione di Suburbia né la congestione di Metropoli, meno ancora una Suburbia congestionata, incubo poi palesemente concretizzatosi. Così le molte statistiche che dal 2008 ci raccontano di un mondo sempre più urbano, celano una crescita di morfologie insediative sempre più suburbane, attraverso l’urbanizzazione di ambiti peri-urbani ai margini alle grandi e meno grandi città del mondo, sino alle zone più rurali. Nei soli Stati Uniti, nei primi tre decenni del nuovo millennio potrebbero essere urbanizzati fino a 220mila kmq di suoli rurali, destinati ad alimentare l’infinito sobborgo che già oggi ospita il 69% della popolazione e il 75% dei posti di lavoro al di fuori dei tradizionali downtown, mentre – secondo stime Bloomberg per il 2018 – le aree urbane occupano una superficie di oltre 281mila kmq, quasi quanto l’intera Italia.

In Europa la quantità media di suoli urbanizzati nel primo decennio del nuovo secolo è stata di oltre 300 ha/die, con consumi pro-capite in crescita in molte nazioni, tra cui l’Italia che vanta in questa dinamica un non invidiabile primato rispetto alla media UE. Talché appare sempre più urgente tentare di arginare la riproposizione delle pur variegate forme di dispersione che hanno cancellato il tradizionale paradigma della città europea come parte di una regolare armatura policentrica di insediamenti densi e compatti, vitali e ricchi di usi misti. Dall’altra parte, la «crociata anti-suburbana» degli ultimi decenni, che ha visto unirsi urbanisti ed esperti in discipline coinvolte a vario titolo nelle innumerevoli criticità prodotte dalla dispersione per immaginare una qualche forma di ritorno alla città tradizionale, pare sempre più inverosimile. Più fattibile, ancorché non necessariamente preferibile, indagare le possibilità di una ricomposizione della dispersione insediativa capaci, attraverso soluzioni innovative, di consolidarne le potenziali opportunità senza rinunciare ad attenuarne quanto più possibile le molte criticità.

Punto di partenza imprescindibile, il recupero delle molte esperienze condotte nel Novecento e dei principi a queste sottesi, ai quali oggi è utile guardare per una rigenerazione dello spazio suburbano e un riequilibrio delle forme e del ruolo delle città a scala urbana, metropolitana e regionale, poiché proprio le drastiche trasformazioni occorse stimolano sempre più l’interesse verso riflessioni ed esperienze ordinate al perseguimento di forme urbane alternative. Così, dalla metà degli anni Novanta, quando si è iniziato ad attribuire al sistema della pianificazione urbanistica un ruolo vitale per la sostenibilità, attraverso un maggiore controllo degli usi del suolo e un utilizzo più ragionevole delle risorse (sollecitando a tal fine una migliore gestione delle dinamiche che condizionano la forma urbana), la trasferibilità al presente di alcune visioni ed esperienze è divenuta sempre più una irrinunciabile fonte d’ispirazione.

Il complesso e articolato fenomeno dell’urbanizzazione ha mantenuto una rilevante stabilità nel corso di molti secoli, sia nel suo signiicato geografico, di progressivo addensamento della popolazione nello spazio e moltiplicazione dei punti di concentrazione; sia in quello sociale, di organizzazione di tale popolazione in sempre più articolate e complesse comunità; sia infine in quello fisico, di trasformazione del suolo per la realizzazione dei diversi manufatti e spazi necessari allo svolgimento delle sempre più specializzate attività. Talché, ancora nel Settecento, molte città preindustriali mostrano una forma urbana simile: possiedono margini fisici definiti, con le attività urbane entro le mura e agricole fuori da queste, a sottolineare una evidente distinzione fisica e funzionale.

Ma ciò che le caratterizza e unifica soprattutto è la stagnazione: economica, per gli oramai raggiunti limiti nella produttività agricola; demografica, per la ridotta crescita della popolazione causa l’elevata mortalità; fisica, sia perché talvolta costrette entro le mura sia, soprattutto, perché mancano i presupposti economici per un ulteriore sviluppo. La loro estensione è ridotta a causa dei vincoli che la mobilità impone, mentre le densità elevate e il mix di funzioni contribuiscono a mantenere vicini abitazioni e luoghi di lavoro. Le mura, limitando l’espansione fisica generano, ancorché la popolazione cresca poco, densità crescenti in un tessuto nel quale gli spazi aperti vengono progressivamente edificati, mentre le strutture idriche e sanitarie, rimanendo le stesse, determinano condizioni igieniche in costante progressivo peggioramento.

È su questi assai fragili presupposti che si realizza, tra il XVIII e il XIX secolo, il passaggio dalla città preindustriale a quella industriale. La pur fragile stabilità che ne ha caratterizzato forme e funzioni per centinaia di anni, quel modello di riferimento di molte diverse culture, vede compiersi la prima grande discontinuità della sua storia. L’urbanizzazione, sino a quel momento caratterizzata da un lento processo di addensamento della popolazione nello spazio, subisce una fortissima accelerazione in termini di concentrazione, con l’aumento abnorme della dimensione e delle densità di alcune grandi e meno grandi città, mentre si registrano sia il declino di taluni centri, specie rurali, sia la nascita di nuovi insediamenti.

L’esplosione urbana che caratterizza questa transizione costituisce un fenomeno senza precedenti: in Europa, tra il 1800 ed il 1910, se la popolazione nel suo complesso raddoppia, quella urbana aumenta di quasi sette volte: da 19 a 127 milioni. La Gran Bretagna, culla della prima Rivoluzione industriale, guida questo processo: nel 1800 dei suoi 16 milioni di persone solo un quinto vive nelle città, a fine secolo vi risiede il 67% dei suoi 40 milioni di abitanti. Nel resto d’Europa, Parigi passa da 0,5 a 2,5 milioni di abitanti. In Germania e Austria se a inizio secolo solo Berlino, Vienna e Amburgo superano i 100mila abitanti, cento anni dopo Berlino e Vienna sforano i 2 milioni, Amburgo 1 milione. Negli Stati Uniti il fenomeno è forse ancor più intenso: tra il 1860 e il 1910, in soli cinquant’anni, la popolazione triplica mentre quella urbana aumenta, anche qui, di quasi sette volte: da poco più di sei a oltre 45 milioni (dal 19,7 al 40,7%).

Un processo senza precedenti che alimenta la formazione su larga scala di grandi e meno grandi città e agglomerazioni, dove l’eccesso di densità fisica, la povertà sociale e il degrado si combinano per dar luogo a ciò che Mumford definirà il peggior ambiente urbano che il mondo abbia mai visto. Un ambiente così ben descritto nelle indagini di Engels, Booth o Mayhew, raccontato da Dickens nei suoi romanzi e raffigurato da Dorè nel suo affresco sulla disperazione dei più poveri nella metropoli vittoriana, come da Riis at- traverso le sue fotografie che per la prima volta testimoniano delle condizioni di vita degli abitanti nei tenements della New York di fine Ottocento. Tuttavia, le città iniziano ben presto il loro inesorabile processo di dilatazione.

In pochi decenni all’eccesso di concentrazione prodottosi in ragione di quelle forze centripete strumentalmente necessarie ad alimentare la Rivoluzione industriale – economie di scala, di agglomerazione e di urbanizzazione, associate ad una transizione demografica capace di garantire una forte crescita della popolazione – farà seguito un altrettanto intenso quanto opposto processo, prima di dilatazione e poi di dispersione. Così, se sin dal 1905 il Census Bureau americano identifica la formazione delle prime aree metropolitane nell’area nord orientale del Paese, nel 1915 Patrick Geddes conia per la Gran Bretagna il termine conurbazione, nuova forma di agglomerazione di più città che per la crescita della loro popolazione e l’espansione del loro edificato si sono avvicinate sino a formare un continuum urbanizzato a grande scala. Solo pochi anni dopo, nel 1937, sarà Earle Draper – responsabile della pianificazione per la Tennessee Valley Authority – a utilizzare per primo il termine sprawl, per definire il fenomeno di incontrollata esplosione insediativa che si sta delineando negli Stati Uniti, poiché la semplice parola «diffusione» gli pare troppo gentile per descrivere il peso degli effetti negativi prodotti dall’esplosione suburbana.

In seguito, l’Urban Field di Friedmann e Miller, la Megalopoli di Gottmann o le Edge Cities di Garreau, descriveranno gli esiti diversi della costituzione di nuove forme urbane tutte riconducibili alla medesima causa scatenante, i cui numeri sono ancora una volta impressionanti. Se nel 1950 la popolazione delle città americane supera quella delle rispettive aree metropolitane (50 milioni contro 35) nel 2000 la situazione è rovesciata: poco più di 85 milioni di residenti urbani contro oltre 140 suburbani. Negli anni Cinquanta i sobborghi si sviluppano con tassi tre volte superiori alle città, triplicando il suolo occupato ed estendendosi da 20 a 70mila kmq, mentre quello delle città, percentualmente, si dimezza. Dinamiche che i recenti segnali di una moderata inversione del processo non sembrano porre in discussione, se non per una maggiore propensione a vivere in contesti più periurbani: insomma, una sorta di dispersione più concentrata.

Lo sprawl rappresenta l’esito spaziale del passaggio dall’economia industriale a quella post-industriale, nel quale si è prodotto un mutamento dei fattori di localizzazione: in generale, la perdita di importanza dei tradizionali vantaggi della concentrazione, della prossimità tra imprese, della disponibilità d’infrastrutture urbane, causa anche la contemporanea crescita delle molte diseconomie da congestione delle aree urbane, che si manifesta, perlomeno nelle città maggiori, sin dai primi del Novecento. Tutto ciò si è intrecciato con il progressivo consolidamento di stili di vita suburbani, in un processo auto-alimentante che ha prodotto la dispersione di attività, residenze, servizi. Se il fenomeno ha riguardato inizialmente la Gran Bretagna e, soprattutto, gli Stati Uniti – complice anche una maggiore crescita della popolazione, una diversa struttura urbana, una regolamentazione urbanistica meno restrittiva, nonché l’anticipato avvio dell’intensa motorizzazione di massa – a partire dagli anni Settanta ha caratterizzato anche le forme di crescita urbana nei Paesi dell’Europa continentale (e non solo).

Paesi che hanno sperimentato un intenso sviluppo nella crescita di popolazione, mobilità e benessere, alimentando una domanda senza precedenti di suoli urbani, infrastrutture e servizi. Il risultato generalizzato è stato quello di un massiccio sviluppo insediativo che ha esercitato pressioni enormi sull’ambiente naturale e artificiale, non solo per l’intensità delle trasformazioni ma, soprattutto, per il modo in cui sono avvenute, avendo non di rado mal governato la rigenerazione delle città, non adeguatamente pianificato le loro espansioni, improvvidamente urbanizzato i loro territori metropolitani. Basterà qui ricordare che nel corso dei soli anni Novanta quasi tutte le città europee hanno perso popolazione o, in taluni casi, registrato una moderata tenuta. Al contempo sono stati urbanizzati 800mila ettari di suoli (63 città come Milano), la maggior parte di questi in forma diffusa e dispersa: l’estensione delle aree edificate (tra il 1980 e il 2000) è aumentata del 20% laddove la popolazione cresceva solo del 6%. I consumi di suolo per abitante negli ultimi 50 anni sono più che raddoppiati e la tendenza è in crescita mentre, solo tra il 1990 e il 2006, 19 Stati europei hanno perso oltre l’1% della loro capacità agricola.

Così, la consapevolezza dei limiti che tali pressioni hanno raggiunto e spesso superato si è gradualmente accresciuta e se la fin troppo citata definizione di sviluppo sostenibile del Rapporto Brundtland ci ammoniva sulle responsabilità nei confronti delle generazioni future pur senza rinunciare al diritto alla ricerca del benessere presente, un antico proverbio ci ricorda che non abbiamo ereditato la Terra dai nostri genitori ma l’abbiamo presa in prestito dai nostri figli. Da qui la necessità di una rilettura critica di alcune tra le più significative esperienze urbanistiche del Novecento, quelle che più rivolgono la propria attenzione all’insostenibilità dei processi urbanizzativi succedutisi in rapida sequenza temporale: da un lato le necessità di decentramento, dall’altro i rischi connessi ad un decentramento incontrollato.

Una riflessione il cui punto di origine possiamo anche fissare nelle prime esperienze di decentramento urbano avviate sin da metà Ottocento, ma che si strutturano soprattutto a partire dagli inizi del secolo successivo. E una rassegna di soluzioni e proposte più o meno compiutamente realizzate, pur con presupposti a volte contraddittori, esiti alterni e talora evidenti discontinuità tra concezioni ideali e successive concretizzazioni, in ragione, da un lato, della fiducia nel valore salvifico di soluzioni permeate non di rado da un eccessivo determinismo fisico, dall’altro delle perenni tensioni e dei conflitti fra proposte urbanistiche – per loro natura incerte e che impongono una visione allargata in termini di tempo, spazio e collettività – ed esigenze del mercato, certe e ben più condivise, poiché guidate da scelte individuali, di breve termine e di portata locale.

Dai piani di grande respiro regionale a talvolta puri frammenti ideali che, se quantitativamente irrilevanti rispetto all’insieme delle trasformazioni occorse, rappresentano, tuttavia, irrinunciabili riferimenti disciplinari i cui contenuti sorprendono perché posseggono la non comune qualità di riuscire, pur dopo molti anni, a farci meglio comprendere il presente. Se in molte di queste esperienze non si parla ancora di sviluppo urbano sostenibile – termine divenuto ricorrente e non di rado ridondante nel lessico urbanistico solo nell’ultimo decennio del Novecento – purtuttavia le preoccupazioni per la dimensione ambientale, economica e sociale delle trasformazioni in atto, alle quali cercano di dare una risposta attraverso forme dell’abitare e del vivere diverse, emergono continua- mente e paiono spesso sorprendentemente moderne, piuttosto che – a seconda della visione – desolatamente annose. In un modo o nell’altro, rivelandosi sempre più primaria fonte di ispirazione, molte di que- ste sono state assunte dall’urbanistica contemporanea quali paradigmi a sostegno di una migliore esplicitazione dei principi da perseguire per dare forma a un futuro urbano più sostenibile.

Se da sempre la forma dello sviluppo urbano influenza un sorprendente numero di questioni, oggi le criticità prodotte dalla dispersione sono evidenti a tutti: dal consumo di risorse, in primis suoli ed energia, agli inquinamenti generati dall’uso intensivo delle auto e dalle tipologie insediative estensive, ai costi individuali e collettivi, agli stili di vita suburbani e le connesse implicazioni sulla salute, i comportamenti, le relazioni sociali. Per fronteggiare le criticità prodotte dalla crescita urbana, sosteneva Lynch, occorre partire da una valutazione della gamma di possibili alternative, assumendo – pur arbitrariamente – che la forma della metropoli possa essere plasmata come desiderato, talché è necessario imparare ciò che è desiderabile quanto studiare ciò che è possibile, sia perché agire senza scopo può essere inutile quanto l’idealismo senza potere, sia perché persino la gamma delle soluzioni possibili può essere ampliata attraverso una maggiore conoscenza di quelle desiderabili. Molti, osservava Robert Fishman, sognano di un mondo migliore, alcuni, andando un passo oltre, hanno provato a pianificarne uno.

Introduzione a: Città sostenibili, cento anni di idee per un mondo migliore, Aracne, Roma 2018

Dal medesimo volume in questo sito: Copenhagen, il Piano delle Cinque DitaFabrizio Bottini, Idee di Città Sostenibile

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