Come usiamo oggi il termine «gentrification»?

Foto F. Bottini

Ormai da qualche anno su qualunque giornale rivista o sito web tematico-locale si susseguono articoli di argomento vario che nel titolo nell’occhiello o nel testo fanno riferimento a una puntuale quanto fantomatica «Gentrification». Che a volte si accompagna a trasformazioni edilizie, a volte a evoluzioni sociali o comportamentali, ma che comunque nella maggior parte dei casi pare buttata lì a fare da clickbait come parola chiave da motore di ricerca. Perché poi gira e rigira con poche eccezioni finiscono per parlare più esattamente di quella cosa da pervertiti mediatici di importazione americana che si chiama più esattamente «serie di indizi economico-comportamentali-di consumo di ciò che chissà perché forse per conformismo o moda chiamiamo gentrification». In pratica chiunque abbia ascoltato o letto en passant dell’argomento (se vogliamo chiamarlo così) lo adotta per arricchire il linguaggio un po’ come facevano anni fa gli assessori con la partecipazione l’ecologia e più tardi la resilienza. Resta però comunque interessante verificare alla fonte di tutte queste nefandezze, ovvero nel mercato mediatico anglosassone da cui abbiamo importato insieme al fast-food, l’andamento della definizione Gentrification, per vedere se almeno i non rari tentativi di chi ne capisce di riportare le cose dentro binari di decenza abbiano sortito qualche effetto. A questo scopo ho provato a introdurre (erano diversi anni che non usavo quel metodo) la parola dentro un aggregatore di notizie scegliendo risultati significativi.

Il primo, da City Monitor 11 maggio 2023, viaggia secondo il consolidato percorso inaugurato di fatto nei lontani tempi della sindacatura di Rudy Giuliani a New York, quando ci si iniziava a chiedere: non è che questa sostituzione sociale di borghesia a proletariato urbano anche se certo impoverisce di varietà i quartieri in fondo ci può piacere perché aumenta il valore immobiliare delle nostre case? E la cosa vale sia per chi già le possiede sia per chi vorrebbe comprarne una, metter su famiglia, mandare i figli a scuola senza insicurezze percepite eccetera. L’articolo parte dimostrando di cogliere il punto molto meglio della media, ovvero dicendo che pur essendo la gentrification qualcosa di «vago» la si può riassumere proprio con trasformazioni che espellono i redditi più bassi da un quartiere per sostituirli con chi può pagarsi facilmente i valori immobiliari determinati dalle trasformazioni. Ma la cosa più interessante è che il resto del pezzo pare interamente dedicato proprio a rendere «meno vago» il concetto: elencando una serie di casi o gruppi di casi, di città sia britanniche che nord-americane, dove se ne sono manifestate cause ed effetti. Dagli investimenti edilizi privati, alla Classe Creativa, all’antica suburbanizzazione e ricambio di soggetti sociali. Se non altro sembra di essere tornati all’ovile: non certo agli studi sociali di Ruth Glass ma almeno a qualcosa di utile per chi si occupa di politiche urbane.

Il secondo articolo, dallo statunitense Arkansas Democrat Gazette 7 maggio 2023, ha la particolarità interessante di essere firmato da un operatore edilizio-immobiliare delle aree centrali. Che dichiara almeno ufficialmente di aver ignorato il termine Gentrification fin quando non ci è inciampato per caso comprando casa in un quartiere che ne stava subendo gli effetti di trasformazione sociale. E di averlo quindi «imparato sul campo» connotando così il suo testo come narrazione diretta di testimone privilegiato anziché analisi pseudo professorale magari distorta da chissà quali inconfessabili interessi. Addirittura il nostro costruttore americano parte con una breve dissertazione sulla «scoperta» del processo della sociologa Ruth Glass negli anni ’60 a Londra.

Ripiegando poi gradualmente sulla più classica descrizione delle fasce giovanili creative (o delle diversità etnico-professional-di genere) che via via iniziano il processo di cambiamento sociale, poi commerciale, poi nelle pur massicce fasi finali edilizio-immobiliare. Siamo alla schematicità di quanto ripercorso da Richard Florida nei suoi spesso abbastanza acritici studi urbani di comparto per lo sviluppo locale, ma anche molto lontani da certe teorie del complotto care al nimbismo dei comitati, quando leggono l’apertura del negozio bio all’angolo come pianificata avanguardia dell’invasione-espulsione. Del tutto singolare poi la citazione di Nelson Mandela con cui il nostro costruttore decide di chiudere il suo pezzo: «Lottare contro la povertà non è un gesto caritatevole,ma un atto di giustizia. Significa tutela di un fondamentale diritto umano, quello a un’esistenza dignitosa e decorosa». Implicitamente, pare di capire, l’esistenza in uno dei quartieri centrali ma con abitazioni economiche «anti-gentrification» che in accordo con le politiche urbane comunali di Little Rock intende probabilmente realizzare l’Autore-costruttore.

Il terzo articolo, dal Santa Fe New Mexican 6 maggio 2023, in quanto reportage in diretta dal territorio ricade quasi forzosamente sin dal principio nella versione giornalistica del tipo: sta succedendo qualcosa di abbastanza oscuro in quartiere quindi deve essere la famigerata Gentrification. La narrazione parte classicamente dal descrivere pregi e difetti del quartiere in evoluzione: l’identità culturale, la mescolanza molto urbana di fasce anagrafiche sedimentate, la collocazione centrale e accessibilità, il commercio e i servizi di prossimità; ma anche i punti deboli e problematici del continuo andirivieni degli inquilini, dell’occupazione precaria o di bassissimo profilo, dell’insicurezza relativa (sia criminale che stradale) che cresce proporzionalmente alla mutazione sociale e immobiliare in corso. Ma anche qui in qualche modo c’è la pubblica amministrazione che prova a intervenire, secondo un percorso ben diverso da quello di Rudy Giuliani e della sua «tolleranza zero» che promuoveva di fatto la deportazione e riconversione borghese di New York. A Santa Fe si prova a unire lo sforzo di animazione sociale ed economica delle associazioni e gruppi di quartiere, a qualche programma pubblico di sostegno per creare posti di lavoro contribuire agli affitti, contrattare alloggi economici con gli operatori privati e lo Inclusionary Zoning a calmierare i prezzi di mercato. E quindi almeno a «moderare la gentrification» se non proprio a scongiurarla nelle sue versioni più radicali.

Il quarto e ultimo articolo, da Newswise, 5 maggio 2023, esordisce già con un titolo piuttosto spiazzante quanto a confusione terminologica: «Dilaga nei quartieri la violenza armata espulsa con la gentrification». Che evocherebbe quell’idea stravagante e tutta inventata dagli speculatori, della sostituzione edilizio-sociale anche brutale come panacea, stavolta sbugiardata appunto dalla rilevazione della realtà. In cui, a differenza del solito decentramento suburbano povero degli ex abitanti espulsi, i comportamenti criminali si sposterebbero là dove non c’è o non c’è ancora gentrification a contrastarli. In realtà l’articolo riferisce di una ricerca universitaria svolta appunto sui quartieri urbani in corso di trasformazione, e che rileva direttamente uno degli effetti dello sfollamento indotto sulla città di Filadelfia. Il ricercatore definisce «Gentrification Violent Crime Spillover» la dispersione nelle zone circostanti a quelle trasformate, e per così dire beneficiate, dei comportamenti criminali sfrattati. Quello che accade, certo schematizzando parecchio, è simile a quello che succede quando la suburbanizzazione si sovrappone ad alcuni habitat naturali di certe specie selvatiche, distorcendo ecologie, comportamenti, ed effetti a catena. Nel caso specifico pare davvero il caso di iniziare a diffidare di chiunque insista a sostenere l’esistenza della «gentrification buona»: i vantaggi eventuali per una zona sono ottenute a spese di svantaggi moltiplicati esportati in quelle circostanti.

La conclusione che si può trarre da questo breve percorso tra alcune dissertazioni giornalistiche sulla gentrification è che, se non altro, dopo un periodo non certo breve di totale confusione e veri e propri svarioni collettivi sul tema, stia tornando una certa chiarezza. Il fenomeno descritto ma non sommariamente stigmatizzato negli anni ’60 da Ruth Glass era quello di una trasformazione sociale che sottraeva ricchezza alla città, per restituirne solo alla sua componente edilizio immobiliare. Tutto il resto ne risultava impoverito proprio dall’appiattimento su quell’unica componente «gentry» borghese di probabile provenienza extraurbana. I tentativi di riformulare la teoria secondo i due percorsi della gentrification positiva o negativa paiono sostanzialmente falliti al riscontro pratico, visto che comunque l’appiattimento del tessuto locale danneggia, direttame o indirettamente (come nel caso citato per ultimo di Filadelfia) la città e i quartieri. Ma soprattutto anche tra pubblicisti, amministratori, cittadini, sta iniziando a farsi strada una conoscenza essenziale del fenomeno meno aleatoria di quella degli anni passati. Questo naturalmente nella cultura anglosassone, speriamo anche presto dalle nostre parti ancora immerse nelle tenebre della superstizione gentrificata.

Riferimenti:
Edward Clarke, Is gentrification good for you? City Monitor 11 maggio 2023
Mike Orndorff, Tracking how gentrification happens Arkansas Democrat Gazette, 7 maggio 2023
Robert Nott Hopewell Mann: Opportunity or gentrification? Santa Fe New Mexican 6 maggio 2023
West Virginia University, Gun violence spills into new neighborhoods as gentrification displaces drug crime Newswise, 5 maggio 2023

 

 

 

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