A cosa serve l’archistar in città

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Foto M. B. Style

Lontanissimi i tempi in cui estetizzanti architetti iniziavano a intuire, confusamente quanto efficacemente, le contraddizioni dello sviluppo industriale nel suo pieno dispiegarsi ottocentesco, iniziando quel percorso critico che avrebbe portato, attraverso le discontinue tappe della landscape architecture e della convergenza con alcune discipline sociali e sanitarie, all’affermazione dell’urbanistica moderna. Piuttosto lontani e superati (nonostante le nostalgie di tanti morti viventi culturali) anche i tempi in cui ogni trasformazione territoriale o di uso collettivo del territorio passava necessariamente per il vaglio della medesima intuizione dell’architetto integrale novecentesco, autodefinito automaticamente urbanista come estensione del proprio demiurgico campo di intervento. Oggi pare che, con l’imperversare della retorica sul libero mercato, l’unico elemento legittimato a coordinare qualunque cosa, a qualunque scala, sia la cosiddetta sostenibilità economica, ovvero al meglio una relativamente equilibrata distribuzione di costi e benefici, decisa da esperti di contabilità, che ovviamente nulla sanno né vogliono sapere di vantaggi e invarianti sociali o ambientali che dir si voglia. Unico erede dell’antico ruolo di coordinamento, intuitivo, scientifico, operativo, pare essere rimasto l’archistar, una specie di figura profetica a cui i poteri economici si affidano per dare la marcia in più ai grandi progetti. Ma è davvero così?

Chi fa che cosa in città

Si dice che esistessero già tracce chiarissime dell’attuale figura di archistar nei professionisti culturalmente più carismatici del ‘900, quelli che da sempre si studiano nelle storie dell’architettura e dell’urbanistica, e le cui realizzazioni iconiche fanno parte dell’immaginario collettivo come un logo incancellabile. Forse è vero, e anche abbastanza logico, almeno che la figura del superprofessionista come lo conosciamo oggi non nasca certo dal nulla, ma si evolva a partire da quanto in fondo gli è più vicino, ovvero il progettista classico, ma in grado di esprimere qualcosa che va oltre la sola competenza, una specie di aura avvolgente. È dentro questa confezione unitaria e unificante, che poi hanno modo di dispiegarsi al meglio gli specialismi tecnici e organizzativi, i quali però va detto che non solo hanno mantenuto e mantengono un ruolo di primissimo piano, ma si sono evoluti e raffinati proprio grazie alla franchigia concessa da quell’ombrello unificante. Forse, anche nelle forti analogie tra la figura attuale e quella dei grandi professionisti del passato, sta proprio qui la differenza fra il ruolo unificante attivamente demiurgico, e un contenitore di immagine dentro cui di fatto gli specialismi si trovano da soli i propri equilibri nel rispetto dei bilanci.

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Così, da un certo punto di vista, la funzione dell’archistar spogliata da sovrastrutture ideologiche di fatto ereditate dal remoto passato appare più ovvia, e legittima. Del resto, quando i primi grandi professionisti novecenteschi iniziavano a legare il proprio nome a visibili interessi organizzati, non si diceva che avessero «tradito» il ruolo dell’architetto? Ecco, oggi semplicemente questo tradimento non sembra più essere tale, e la cosa consente tra l’altro di svolgere questa specie di funzione di consulente d’immagine allargato in parecchi campi, di cui la trasformazione edilizia e urbana può rappresentare solo un altro, subordinato contenitore o settore. L’esempio più recente pare essere l’incarico di Frank Gehry per il risanamento e recupero del fiume Los Angeles, quello reso famoso dalle scene dell’inseguimento di Terminator, o di tantissimi altri film d’azione girati in quel surreale canale di cemento. Che c’entra l’architetto famoso in tutto il mondo per la scomposizione dei piani caratterizzante i suoi progetti, con una operazione che se contenuti architettonici ha, sono quantomeno secondari e collaterali? La risposta, solo per restare specificamente alla figura del medesimo progettista, la può dare il più famoso caso della città di Bilbao, la sua rinascita urbana e socioeconomica nel segno del museo progettato appunto da Gehry, e che gli ha poi fruttato alte consulenze da parte di amministrazioni convinte che, piazzato un bel museo firmato da qualche parte, sarebbero iniziati chissà come tempi d’oro. Errore di valutazione, perché nel caso di Bilbao, come si auspica e si crede di Los Angeles, quel che conta è la capacità di fare immagine coordinata, di attirare e favorire così investimenti, gestire la comunicazione in modo coerente ai progetti. Le competenze specifiche, poi, sono ben altro, ma hanno modo di dispiegarsi anche grazie a questo ombrello, che opera inoltre, e non invece. Una volta chiarito questo aspetto, pur non ufficialissimo, possiamo anche guardare con più fiducia a certe secondarie vanità: sono solo un piccolo trucco per gonzi.

Riferimenti:

Oliver Wainwright, Is Frank Gehry really the right person to revitalise the Los Angeles river? The Guardian, 23 ottobre 2015

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