Acqua: rete comune metropolitana

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Foto J. B. Gatherer

Quando si pensa al termine Infrastrutture Verdi vengono in mente una montagna di cose. Che partendo dall’immagine quotidiana di un fazzolettino di terra sotto la finestra della cucina, si espande sino ai magari lontanissimi crinali di alture che si intravedono all’orizzonte. Una visione tra l’altro anche scientificamente confermata da quelle di organismi internazionali riconosciuti, come il consiglio per le iniziative ambientali locali (ICLEI) che parla di “rete composta da superfici naturali, paesaggi trasformati, spazi aperti e urbanizzati che conservino funzioni e valori di ecosistema, offrendo vantaggi alla popolazione umana”. Quel genere di definizione che forse fa arrabbiare moltissimo per esempio l’ambientalista britannico George Monbiot, il quale sul Guardian e sul suo frequentatissimo blog si è abbastanza dilungato sul perché: ridurre a questo ruolo utilitario la natura, parlare come si fa sempre più spesso di “servizi degli ecosistemi”, vuol dire inserirli volenti o nolenti nella mainstream tecno-economica, a ben vedere la stessa che ha prodotto i medesimi guai industrialisti e finanziari in cui siamo immersi fino al collo.

Con buona pace di questa pur comprensibile e a modo suo azzeccata obiezione, resta il fatto che a chi ragiona in una prospettiva di azione pratica tocca per forza partire dallo stato delle cose: se non vogliamo ricadere nell’errore comune di pensare a mondi ideali mentre il nostro se ne sta andando in malora. Una buona immagine di questo punto di vista è quella offerta dal documento scientifico di orientamento sulle infrastrutture verdi della Town and Country Planning Association, dove molto correttamente usando alcuni principi storici della pianificazione territoriale si ipotizza un percorso logico ribaltato rispetto a quanto teme Monbiot: la città moderna non intesa in quanto avamposto della tecnica e del capitale per soggiogare e mungere la natura ai propri fini, ma per quanto possibile terminale delle reti naturali e ambientali, sostenibilmente inserita in un contesto territoriale regionale equilibrato, più o meno secondo i criteri introdotti da PatricK Geddes a cavalo fra i due secoli scorsi, naturalmente aggiornati al terzo millennio.

Entro questo quadro necessariamente molto complesso, e pure contraddittorio se mettiamo – come pare indispensabile – nel conto certe variabili politico-sociali, isolare alcuni ben definiti aspetti senza perdere di vista il resto aiuta molto a chiarire. Pensiamo all’acqua, di cui tanto si è parlato in Italia prima e dopo il referendum sulla sua mercificazione: che ruolo ha nella metropoli contemporanea, e quale ruolo potrebbe assumere invece? Non è una domanda da poco, di fronte alle sfide ambientali e politiche poste da varie urgenze, sfide che pur partendo da grandi principi devono prima o poi scendere sul terreno del confronto pratico e quotidiano, sul territorio come si dice. E questo territorio è (statisticamente, mica un’opinione) quello urbano in senso lato.

Qui ci arriva strumentalmente in soccorso la definizione assai empirica e tranchant dell’Agenzia Ambientale americana (EPA), sul regime urbano delle acque, che ne parla come di qualcosa fortemente dipendente sia dalla presenza e conservazione dei sistemi di drenaggio naturale, sia con l’apporto delle reti tecniche hard ingegneristiche di vario genere. All’interno di tale regime composito l’infrastruttura verde sarebbe “un insieme di prodotti, tecnologie, pratiche, o anche impianti, che sfruttano i sistemi naturali imitandone il funzionamento, per aumentare la qualità ambientale ed erogare servizi”. Una schematicità che fa ben comprendere, in qualche modo, i sospetti di Monbiot, ma al tempo stesso aiuta a isolare molto bene un singolo aspetto, e iniziare e delineare una specie di cortocircuito fra acqua bene comune, contesto metropolitano, vita quotidiana della città e dei cittadini. E ovviamente anche le strategie per provare a immaginarlo, questo ipotetico cortocircuito.

In soldoni l’obiettivo è di trasformare a scala locale la famosa idea dell’acqua diritto di tutti in accesso concreto, ambientalmente ed economicamente sostenibile, armonicamente coordinata con l’idea di spazio urbano. A partire dal promuovere forme insediative tali da consentirle, le famose infrastrutture verdi che affiancano o sostituiscono quelle classiche “grigie” ingegneristiche, con norme urbanistiche e tecniche costruttive adeguate, per esempio lasciando un sistema continuo e coerente di spazi aperti, e promuovendolo anche attraverso mix di superfici pubbliche e private. C’è poi l’aspetto delle tecniche verdi, da promuovere in modo concorrenziale a quelle classiche perché risulti più conveniente applicarle. Infine (con la lettura allargata del concetto di infrastrutture) fare in modo da garantire che la rete, oltre a svolgere il proprio ruolo di gestione sostenibile del ciclo delle acque, sia utilizzata e percepita dai cittadini come servizio per il tempo libero e l’abitabilità dei quartieri, rafforzandone così la funzione urbana.

Ciò che va superato, in questo come in altri aspetti, è il concetto di città-macchina sovrapposto ed estraneo ai processi naturali, in cui per esempio si impermeabilizzano troppe superfici e si sconvolge anche il sottosuolo, affidando tutto il ciclo locale delle acque a sistemi di condotte, depuratori, scarichi, con enormi costi di realizzazione e gestione, e risultati di medio-bassa qualità. Appare evidente come anche qui l’idea relativamente puntuale di partenza comincia quasi subito ad allargare la propria logica ad altri ambiti: l’urbanistica propriamente detta, con la regolamentazione delle funzioni insediate; la gestione dei grandi sistemi urbani con il coordinamento fra eventuali interventi tradizionali (perché già esistenti, o perché oggettivamente inevitabili, almeno nel medio periodo) e infrastruttura verde; riorganizzazione dei servizi e dei sistemi di bilancio e controllo, a verificare sempre se e quando esistano alternative sostenibili e praticabili alla artificializzazione.

La Regional Plan Association di New York ha pubblicato tempo fa un breve documento (una trentina di pagine in tutto) dove si espongono schematicamente le esperienze di nove città americane in questo campo, 9 ways to make green infrastructure work for towns and cities, da vari punti vista e fasi. L’approccio molto empirico e per certi versi minimalista non deve far dimenticare che i grandi principi, come appunto quello dell’acqua bene comune, trovano conferma e fondamento proprio nell’esperienza quotidiana, e che la sede e dimensione urbana rappresentano un contesto in cui evidentemente i problemi ambientali e sociali si mescolano a quelli della democrazia partecipata.

RPA – Green infrastructure, water 

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