Alla crisi dei centri urbani si risponde rendendoli meno esclusivi

Nel 2019, gli skyline di tanti centri città americani scintillavano delle nuove costruzioni. Hudson Yards a New York, Frost Tower a San Antonio, a San Francisco la Salesforce Tower, le futuristiche Sfere Amazon circondate da torri a Seattle, e migliaia di altri edifici a comporre quegli oltre dieci milioni di metri quadrati di nuovi uffici realizzati a scala nazionale, appena prima che arrivasse la pandemia Covid-19. La domanda di città pareva più forte che mai. Ma veniamo ai giorni nostri quattro anni dopo. Quando la pandemia si è presa le vite di oltre un milione di americani e resta in sospeso la questione di un’altra vittima: l’impatto sul mondo del lavoro si porterà via anche la città americana? La paura aleggia soprattutto nei centri «superstar» e nei loro scintillanti nuclei terziari.

Uno spettro di apocalisse immobiliare, di «urban doom loop», spirale discendente verso la morte e la città fantasma, che agita i sonni e incombe sulle esistenze di tanti osservatori privilegiati. Un terrore non certo nuovo, e neppure il suo motivo lo è.

Un terrore che dovrebbe spingere tanti esponenti del mondo politico e amministrativo pubblico, associativo, imprenditoriale, a ripensare il proprio agire. Esiste in realtà l’occasione di approfittare del momento e delineare un diverso futuro delle città: reimmaginare nuclei centrali prosperi e inclusivi che condividono la propria ricchezza con le periferie. Una serie di esponenti politici economici e culturali nelle principali città del paese – New York, Chicago, Philadelphia, e Seattle – si sono incontrati su iniziativa della Brookings Institution programma studi metropolitani. Erano già all’avanguardia di un approccio progressista inclusivo prima della pandemia, e oggi collaborano a individuare politiche, pratiche, soluzioni tecnico-amministrative per iniziare un processo di rinnovamento delle città metropoli e regioni rivolto alle prossime generazioni.

Centri città fantasma: una immagine classica ma con nuovi spunti

Solo una generazione fa, l’esodo dei bianchi e la dispersione suburbana lasciavano tanti centri urbani nella condizione di città fantasma. Una retorica basata sul «degrado» e sulla «criminalità nei quartieri» veniva usata a giustificazione delle più brutali operazioni di trasformazione urbanistica, e più tardi le operazioni anti droga, con conseguenze notevolissime sul tessuto economico e sociale delle città americane. La suburbanizzazione disperdeva i frutti della crescita su una superficie e una quantità di circoscrizioni enorme, mentre l’abbandono dei centri da parte di imprese private e attività pubbliche lasciava solo povertà, elevati costi di erogazione dei servizi, una economia indebolita e una esasperata segregazione razziale e sociale.

Questa devastazione dei centri città inizia a invertire il processo all’inizio del nuovo secolo, quando giovani lavoratori altamente qualificati e nuove imprese cominciano a tornarci, attirati dall’ambiente di relazioni, scambi, mobilità pedonale, qualità dei luoghi che sono in grado di offrire. Ad esempio, in 35 dei 45 principali nuclei centrali urbani USA, calcolando i posti di lavoro, la quota della popolazione regionale che ci abita risulta in forte crescita dal 2000 al 2020. E in alcuni casi è cresciuto anche il mercato del lavoro rispetto alla regione urbana tra il 2011 e il 2019, con Boston in cima alla classifica.

Questa «resurrezione urbana centrale» nel XXI secolo è uno stimolo a uscire dal declino, ma crea anche divisioni economiche dentro città e regioni. In tante città di differenti caratteri geografici e socioeconomici, da Chattanooga Tennessee a Detroit, i centri sostenuti da corposi sussidi pubblici si popolano di nuovi soggetti mentre altri cittadini (che spesso coincidono coi gruppi neri latini ispanici) abitano in quartieri sempre senza servizi essenziali a partire dai negozi alimentari. È cresciuta anche la povertà suburbana. Non si tratta di un fenomeno nuovo, ma certo nel periodo di massima allerta della pandemia Covid-19 si è diffusa la consapevolezza che la crescita dei centri città non avvantaggiava anche le periferie e le regioni urbane. Negli ultimi tre decenni quei centri sono passati dall’essere percepiti come pericolosi e degradati (il motivo dello spopolamento e della suburbanizzazione) a diventare sempre più economicamente inaccessibili ed esclusivi (motori di diseguaglianza) e ad avviarsi ancora una volta verso uno stato «morto» quando rallentano o si arrestano i processi di ritorno dei posti di lavoro, si dismettono spazi e attività, torna la paura dei crimini e il problema homeless).

Una inversione di ciclo che obbliga gli esponenti politici economici e associativi locali a chiedersi: che futuro possiamo aspettarci per i centri città? Come possono adeguarsi a una minore dipendenza per esistere dai soli uffici e pendolarismo? A cosa serve o servirebbe un centro città? E cosa più importante di tutte: come possiamo far diventare quei centri inclusivi, sicuri, efficienti per tutti coloro che li popolano e li abitano mentre usciamo dalla crisi indotta dalla pandemia? Occorre «pensare in grande» mentre diminuiscono le risorse erogate dalle autorità federali per l’emergenza

I problemi dei quartieri centrali non cominciano certo con la pandemia

Per stimolare questo pensare in grande alla ripresa urbana pare importante anche comprendere il tipo di distribuzione spaziale pre-pandemica dei posti di lavoro servizi qualità ambientali. Perché questo tipo di geografia si stava già evolvendo e c’è bisogno di capire meglio le tendenze di quella evoluzione per adeguarsi. In primo luogo anche durante il «rinascimento urbano» non erano in gioco solo i centri. L’economia della conoscenza e dell’innovazione non hanno favorito soltanto i nuclei più interni. Con tanti posti di lavoro già localizzati nel suburbio e una domanda crescente per dei nuovi con caratteri spaziali di qualità (che molti centri tradizionali non riuscivano ad offrire con la rapidità sufficiente), sorgeva una costellazione di centri di attività addensati in periferia. Hanno sottolineato in molti quanto già prima della pandemia ci fossero centri dominati dagli uffici come a San Francisco che gli abitanti non gradivano certo frequentare se non obbligati a farlo.

Nella regione di Seattle questi centri di attività (aree in cui si agglomerano interessi sociali economici civili), comprendono anche classiche downtown ma pure quartieri diversi dallo University District, a Bellevue, a Capitol Hill, tutti che hanno sperimentato crescite di popolazione e attività su impulso dei nuovi lavoratori della conoscenza. Contemporaneamente alla crescita di queste aree dei centri di attività, solo un terzo delle downtown del paese vedeva aumentare le proprie quote di occupati nell’arco di tempo tra la Grande Recessione e l’arrivo della pandemia. Un altro terzo si manteneva sostanzialmente stabile, mentre il resto era in declino. Quasi in tutte le regioni incombeva la minaccia di una crescente diseguaglianza tra una zona e l’altra.

Alcune città interagivano con questi mutamenti economici. Per esempio anche prima della pandemia a Phoenix si era sviluppata una politica per il centro orientata a un mercato del lavoro con bassi tassi di concentrazione e una scarsa domanda di uffici, mentre trasformazioni innovative localizzazioni di imprese e servizi e collegamenti di trasporto favorivano altri centri di attività. A Chicago il Neighborhood Opportunity Fund voleva collegare la ricchezza prodotta dalle trasformazioni del centro allo sviluppo di alcuni corridoi commerciali di piccole attività poco serviti. In altri casi si continuava nella vecchia mentalità di ignorare la qualità degli spazi, impedire la realizzazione di case, l’insediamento di «attività ancora», non investire in trasporti pubblici.

Se è vero che i problemi delle zone centrali non sono certo nati con la pandemia, dopo quella crisi il costante indebolirsi strutturale della produttività downtowns potrebbe innescare un ciclo al ribasso, una spirale discendente. Alcuni sostengono che vista la suburbanizzazione, la crescita di nuovi centri di attività, o dello stesso lavoro a distanza, i centri terziari specializzati semplicemente non possono avere il medesimo ruolo occupato sinora (o, peggio, che si tratta di crateri fumanti da evitare come la peste). Secondo altri si sono devoluti sin troppi soldi pubblici per sostenerle negli anni scorsi ed è ora di iniziare invece a investire nelle periferie. Però la questione non è tanto semplice.

Dal centro contro le periferie a periferie organiche al centro

Sia la dicotomia «centro contro periferia» che quella «città contro campagna» rallentano una consapevole scelta di sviluppo regionale. In primo luogo la downtown è comunque estremamente importante nell’economia territoriale. Di regola, il centro rappresenta la maggiore agglomerazione di posti di lavoro delle aree metropolitane, su cui convergono sia le qualificazioni più alte (negli ambiti finanziari, assicurativi, servizi legali, pubblica amministrazione) sia i lavori meno qualificati e meno remunerativi (come nell’accoglienza ristorazione o nelle arti). Per ricostruire una mappa di centri di attività regionali abbiamo comparato la densità dei posti di lavoro pre pandemia delle downtown a quelle di altre localizzazioni. Nei casi dei 45 centri maggiori i vari nuclei terziari concentrano più posti di lavoro di qualunque analogo regionale da un minimo di 1,4 volte di Birmingham, Alabama, a un massimo di 27,5 volte a Chicago. Con poche eccezioni, anche se il 50% dei posti di lavoro non tornasse downtown e il 100% tornasse invece agli altri centri di attività (scenario estremo e improbabile), i nuclei terziari urbani resterebbero comunque la massima densità delle rispettive regioni. La loro salute economica riguarda tutti.

Downtown significa anche abitanti, lavoratori dipendenti e piccoli imprenditori o esercenti. I posti di lavoro qui sono ovviamente più facili da raggiungere che in una situazione dispersa suburbana. Inoltre la condizione di nodo contribuisce al sostegno delle attività locali. Ogni giorno arrivano pendolari nel centro città, e il danno fiscale indotto alla città dalla suburbanizzazione in parte si compensa con i loro consumi. Il pendolare regionale incrementa la popolazione diurna media – e quindi il mercato di beni e servizi – di circa il 19%. In alcuni casi particolari questa percentuale arriva al 50% e oltre come a Washington, D.C. (50%); Boston (56%); o Hartford, Connecticut (60%). Nelle città in cui la popolazione diurna eccede di molto il numero di abitanti residenti con l’esodo da pandemia si è verificato un grave crollo di vendite relativi posti di lavoro nel commercio e accoglienza.

E per finire downtown è equilibrio fiscale della città. Un centro terziario urbano USA classico come Chicago produce oltre 7 volte il proprio valore spaziale standard. Mentre nel resto della città la relazione si inverte, e la superficie produce meno dei tre quarti del proprio valore tassabile. I principali centri urbani con grandi quantità di superfici terziarie anticipano la «bomba a scoppio ritardato» del mancato gettito fiscale da immobili terziari e relativa considerazione di sussidi federali. Il benessere di interi settori urbani dipende dalla capacità di mantenere un equilibrio di bilancio e una parte essenziale di esso sta nella produttività della downtown.

Certamente però investire sullo sviluppo e la vitalità economica del centro non deve avvenire a spese di quello della periferia. In passato le politiche e pratiche hanno costruito una percezione (o realtà) di centro ricco dinamico e periferia stagnante. Mentre esiste un evidente bisogno sia morale che economico di investire in tutti i quartieri, con un ruolo essenziale proprio del centro: attraverso il reddito che i nuclei terziari generano si possono finanziare trasformazioni in periferia innescando un circolo virtuoso. Si tratta sia di un processo di condivisione che di una riflessione sul futuro delle città, che non è cosa scontata.

L’azione di sviluppo locale deve spingere contemporaneamente alla ripresa il centro e le periferie

Nel 2021, scrivevamo che per uscire dalla crisi indotta dal Covid-19, le zone centrali terziarie dovevano adattarsi e modernizzare gli uffici, diversificare l’uso dello spazio, puntare sull’abitabilità (qualità dello spazio pubblico, arte, traffico, sicurezza …). Gli esponenti del mondo politico sociale ed economico che riflettono su questi adattamenti (accade per esempio con «New» a New York) devono però evitare di cadere dentro dicotomie e contrapposizioni forzate, operando invece verso soluzioni win-win. Ma quali esattamente per una nuova generazione di spazi urbani-produttivi? E in che modo potranno allargare gli effetti della ricchezza prodotta? Gli ambiti da prendere n considerazione saranno:

  • Recupero e crescita equilibrata di posti di lavoro, buone pratiche di sostegno a filiere di ricerca delle funzioni e profili più qualificati e inserimento degli abitanti in processi formativi collegati alle medesime filiere occupazionali.
  • Imprese e piccoli esercizi, mantenimento delle attività minori e promozione di progetti innovativi per il centro città.
  • Sicurezza urbana e rapporto con lo sviluppo locale, come operare sulla sicurezza percepita e la realtà dei crimini, concentrandosi sulla prevenzione, le soluzioni spaziali, il ruolo delle attività economiche e delle imprese nella promozione della sicurezza.
  • Il problema homeless e gli effetti sulla ripresa economica della downtown, comparando costi e benefici di modifiche al sistema fiscale e di tipo urbanistico per nuove abitazioni, oltre a prevenire la questione senza fissa dimora e incrementare l’offerta di case popolari.
  • Un centro di qualità e per il tempo libero, strategie per farne una meta a tutte le ore del giorno, arte, eventi, attività, valutando gli effetti qualitativi e di inclusione delle trasformazioni spaziali.
  • Governance dei processi, collaborazione, costruzione di strategie complesse tra soggetti pubblici e privati in grado di garantire risorse sia sul centro che verso le periferie storicamente emarginate.

Conclusioni

Mentre ascoltiamo l’ennesima retorica di previsione del declino urbano con particolare riguardo alle downtown, è importante ricordare che le città hanno già attraversato tanti momenti di crisi. Dalla suburbanizzazione e White Flight alla criminalità montante negli anni ’90 all’attacco terroristico dell’11 settembre a New York, le città e i loro centri – soprattutto le persone che li rendono vitali – si sono dimostrate resilienti. La pandemia Covid-19 non è qualcosa di diverso, salvo che oggi ci troviamo di fronte a una sfida duplice: 1) sostenere la ripresa lo sviluppo del centro legata all benessere economico e fiscale dell’intera regione urbana; 2) promuovere una ripresa che consapevolmente risolva le diseguaglianze individuate già prima della pandemia. I centri terziari stanno al cuore dell’economia nazionale e hanno il potenziale -e il dovere – di agire decisamente per rinascere più forti di prima. Ma anziché tornare allo status quo di prima della pandemia, questo è un momento di svolta per ricostruire in modo equo rivitalizzando attraverso politiche tali da collegare la ricchezza del centro a quella delle periferie e dei loro abitanti. Solo così si realizza pienamente il potenziale di città e regioni.

da: Brookings Institution, programma Città e Regioni, 23 marzo 2023 – Titolo originale: Breaking the ‘urban doom loop’: The future of downtowns is shared prosperity – Traduzione di Fabrizio Bottini

Immagine di copertina: San Francisco Department of Planning, 1955

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