Biodiversità urbana: forse non basta un po’ di arredo

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Foto F. Bottini

Molti onesti sostenitori della tutela ambientale spesso non sanno di che si parla, e non è poi tutta colpa loro. Ad esempio contenere l’impatto dell’urbanizzazione sul territorio non significa affatto (o magari non significa soprattutto) limitare o azzerare le trasformazioni edilizie, quella cosa che tutti bollano come cementificazione, colata, ecomostro o chissà cosa. Per contenere al massimo gli impatti l’urbanizzazione deve da un lato provare a limitare le superfici su cui si estende, dall’altro avvenire in modo da garantire una certa sopravvivenza equilibrata di sistemi naturali, ed eventualmente iniziare a ripristinarla là dove essi sono stati compromessi. E come hanno già da tempo scoperto i frequentatori dei parchi, specie quelli più nuovi nelle periferie ma non solo, i tentativi passano anche attraverso la conservazione di alcuni caratteri della campagna o della natura che prima venivano eliminati per far posto al verde classicamente urbano, o la piantumazione di essenze non esclusivamente ornamentali, o magari addirittura esotiche per migliorare l’aspetto. Tutto, per far sì che tendenzialmente si possano formare dei piccoli sistemi naturali con qualche grado importante di biodiversità.

Infrastrutture e reti

Quelli che, ogni volta si presenta qualche problema di convivenza tra noi umani e qualche altra specie, che siano gli orsi i cinghiali le nutrie o le semplici zanzare, propongono lo sterminio, si vede non hanno capito nulla. Certo, quasi sempre se c’è un problema esiste uno squilibrio, di sicuro non si possono gestire grandi quantità di flora e fauna selvatica o no, cittadina o semirurale, come se si trattasse del vaso di ciclamini sul davanzale o del gatto di casa. Ma la questione delle reti continue naturali, delle infrastrutture verdi di collegamento con i grandi polmoni territoriali e per la gestione del metabolismo metropolitano, non si può certo affrontare con quel piglio meccanico e desertificante, a colpi di veleni, o peggio di fucilate. Perché l’obiettivo è ricostruire complessità, diversità, non semplicemente lasciare uno spazio vuoto fra un edificio e un altro, mettere dell’erba, delle panchine, magari una fontanella coi pesci rossi da sostituire ogni qualche settimana. Ed è una cosa complicatissima, molto delicata, che va gestita con attenzione, altro che tagliar giù le cose con l’accetta.

Gli invisibili, e quel che si vede pure troppo

Le zanzare non sono state citate a caso, ma per introdurre un tema centrale, ovvero quello degli insetti. Le reti naturali e la loro biodiversità hanno infatti bisogno di enormi quantità di insetti per essere davvero tali, visto che sono soprattutto loro a muoversi su e giù per quei corridoi, e ad assicurare gli scambi, non solo cose come l’impollinazione. E mettere qualche pianta non basta a garantire questa presenza, perché l’ambiente urbano fa proprio di tutto per tarpare biodiversità: è costruito in modo da porre ostacoli, a volte quasi insormontabili, che impediscono agli insetti di raggiungere le piante, o mescolarsi tra gruppi diversi arricchendo il proprio bacino genetico. Quel che ancora non è chiarissimo, sono i modi precisi in cui la nostra tradizione urbana fa a cazzotti con la conservazione della biodiversità, o la promozione di nuova biodiversità se vogliamo. Si stanno studiando oggi sistematicamente tanti percorsi di adattamento di flora e fauna alle trappole che inconsapevolmente il nostro peculiare metodo umano di adattamento ambientale ha posato sul territorio, ma ancora il quadro non è esaustivo: un muro è pur sempre un muro, ma forse esistono migliaia di modi per farlo operare diversamente, senza che perda alcune delle funzioni per cui è stato pensato. Ma una cosa è certa: se non vogliamo strangolarci con le nostre mani dobbiamo riconsiderare a fondo l’idea di città, edifici, reti e infrastrutture, sia dal punto di vista della progettazione che della gestione. Le cosiddette “greenway” ad esempio sono una risposta, ma di sicuro non possono consistere di una pista ciclabile con delle panchine, e men che meno della decantata ferrovia dismessa con un po’ di verde, che tutti ci ripropongono ogni giorno. C’è ancora tanto da imparare, e ci tocca farlo alla svelta, e nei minimi dettagli che fanno funzionare il tutto.

Riferimenti:

Andrew A. Forbes, Amanda E. Nelson, Urban Land Use Decouples Plant-Herbivore-Parasitoid Interactions at Multiple Spatial Scales, PlosOne, luglio 2014

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