Città che consumano (e risparmiano) energia

smokestack

Foto J. B. Gatherer

In quanto luogo per antonomasia della concentrazione di tutto quanto di prettamente umano esiste, la città concentra anche consumo di energia, drenandone da un bacino sempre più vasto man mano si perfezionavano i mezzi di trasporto, e crescevano le attività (diverse dalla pura abitazione e servizi) in grado di consumarla. L’immagine più semplice che esemplifica questo processo, è quella dei boscaioli, che sulle colline rurali attorno alla città prima tagliano gli alberi, poi ne fanno della legna da ardere in pezzi adatta al trasporto e consumo, e infine su qualche carro la fanno pervenire al mercato urbano, esattamente come accade alle derrate alimentari. La città insomma «mangia» energia, anche quando simula invece di «produrla», perché il calore delle caldaie, il vapore nei tubi, le turbine roteanti e le pulegge sibilanti, se ne starebbero lì a far polvere senza la materia prima che le alimenta. Insomma per arrivare al dunque, la città è il luogo che esprime la «domanda di energia» da altrove, e oggi va calcolato anche quanto contribuisca alle emissioni di carbonio da riscaldamento planetario. Si calcola per esempio che nel 2013 le aree urbane di tutto il pianeta abbiano consumato il 64% di tutta l’energia e prodotto il 70% di tutte le emissioni di anidride carbonica. Come sempre però si deve filosoficamente considerare quanto nel male si debba ricercare anche la terapia, ovvero nel dove e nel come di questo squilibrio di consumo (energetico e della vita del pianeta urbanizzato), si individui una terapia, una soluzione strategica per ridurre il tutto.

Orizzonti e scenari

Al momento, si ritiene con le conoscenze disponibili (naturalmente in continuo autonomo sviluppo grazie a ricerca e sperimentazione) consentano già di delineare strategie di soluzione per tagliare gli impatti dei consumi energetici e migliorare l’efficienza di funzionamento delle aree urbane. In questo senso, va letta la politica di trasformazione urbanistica e trasportistica più recente, che vede una maggiore compresenza di funzioni nella medesima area, mescolarsi luoghi di lavoro, residenza, servizi, rendendoli meglio raggiungibili con mezzi diversi dalla classica automobile privata novecentesca, ovvero mescolando un uso intelligente del mezzo pubblico, la ciclabilità, la pedonalità. Spesso si pensa solo in termini «settoriali» a queste forme di evoluzione urbana, ad esempio concentrandosi sulla sola salute degli abitanti per il minore inquinamento atmosferico, o su fattori sociali come la maggiore relazionalità stimolata da una rete di mobilità dolce, o la diversa vitalità dei quartieri mixed-use caratteristici di questi orientamenti della mobilità. Ma la questione davvero grande, ovvero che nelle città vede semplicemente il concentrarsi di un problema globale assai più ampio e complesso, resta senza dubbio il riscaldamento del clima. Che rinvia a politiche senza dubbio impossibili da pensare se non si affrontano a scala diversa da quella (pur essenziale) locale e metropolitana: leggi nazionali e anche internazionali, che focalizzino i propri strumenti attuativi sulle aree urbane.

Politiche locali/globali

Anche qui, come nel caso dei carretti di legna da ardere dei boscaioli che scendono dalle colline verso il mercato intra moenia, forse un esempio tangibile può almeno riassumere l’intricata questione in termini di metodo. Una rete locale di mezzi di trasporto più sostenibili, poniamo un car-sharing elettrico, può certamente essere considerata esclusivamente a scala di città e di iniziativa imprenditoriale a quella dimensione, ma facendo così ci si dimentica forse di quante fondamentali «iniezioni» dall’esterno ci sia bisogno: a partire dallo stesso oggetto auto innovativo, e poi le regole di funzionamento, eventuali modifiche al codice della strada, o facilitazioni fiscali, e infine la stessa questione energetica delle fonti: se l’elettricità non viene, almeno in prospettiva, prodotta in modo adeguato, il bilancio finale dell’auto elettrica, salvo gli inquinanti locali, potrebbe essere negativo. E tutte queste cose non si possono decidere a livello locale, anche se quella è la dimensione a cui si manifestano. Lo stesso avviene poi in moltissimi altri ambiti, dalla produzione edilizia, ai grandi sistemi a rete di distribuzione, alla generazione locale di energia da fonti rinnovabili come sole o vento (che non dipendono più dalla vecchia regola della legna da ardere e simili importati). E c’è, conseguentemente, quell’emergere del conflitto tra dimensione cittadina e nazionale-mondiale, per cui a volte qualcuno tira in ballo il ruolo antico della Lega Anseatica, prefigurando un mondo dove la rete delle grandi «città globali» scavalchi il ruolo degli stati nazionali formatisi prevalentemente come messe critiche di mercato nell’era dell’industrializzazione. Una raccolta di casi esemplari nella ricerca IEA allegata.

Riferimenti:
International Energy Agency, Energy Technology Perspectives 2016 – Towards Sustainable Urban Energy Systems

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