Come to Africa, Sleep in Amaca?

african_bulldozerSu questo sito non si finisce mai di sottolineare sino a che punto le immagini di città proiettate dalla stampa siano a dir poco ideologiche, qualche volta persino al limite dell’interessata menzogna. Dalle mirabolanti infrastrutture che dovrebbero risolvere altrettanto mirabolanti problemi, mentre invece sappiamo tutti creeranno anni di disagi per i cantieri, costi lievitati a carico del contribuente, e poi chissà. Alle promesse di futuri scintillanti di qualche economista molto schierato, che guardate un pochetto più da vicino si rivelano abbastanza miserabili sostegni a interessi particolari, che di sicuro quei futuri scintillanti li vedranno, ma solo sui propri conti in banca. Per la ricaduta, bisogna avere la medesima fede dell’economista di turno nella mano invisibile del mercato, che tutto aggiusterà, prima o poi, molto poi di solito. Da qualche tempo, parallelamente ai trionfali reportage sui paesi cosiddetti in via di sviluppo, coi loro invidiati tassi di crescita a due cifre (scordandosi sempre da che livello partono, poveracci) arrivano anche i rendering dei grandi studi globalizzati di architettura. I quali studi, neanche tanto implicitamente ci dicono che laggiù si può progettare davvero come dicono loro, senza quegli insopportabili lacci e lacciuoli delle nostre decadenti città occidentali.

L’ultima frontiera di questo modus operandi tanto vintage quanto micidiale (lo sappiamo per esperienza ovunque, nel ‘900, si sono realizzati quei progettoni calati dall’alto senza badare in alcun modo al contesto) sembrano essere i paesi dell’Africa sub-sahariana. Particolarmente surreale, qualche anno fa e contemporaneamente alla separazione consensuale del Sudan fra uno stato del nord e uno del sud, è stata quella vicenda delle città a forma di bestia: assurde lottizzazioni, superstrade, edifici pubblici e privati distesi sul territorio a formare le sagome di una giraffa, di un rinoceronte ecc. grandi chilometri e chilometri. La scusa era che così si sarebbero evocati (sic) gli spiriti ancestrali della savana a proteggere il popolo dei nuovi stati. La realtà era ovviamente che per tentare di proteggere quei popoli si sarebbe dovuto, come minimo, rinchiudere subito tutta la classe dirigente nello stanzino delle scope, impedendole di far altri danni.

Ma il livello infimo e folkloristico di quelle bestiali espansioni urbane, foglia di fico a cercare di nascondere impotenza o scarso interesse a risolvere il problema vero dello slum e dello speculare spopolamento delle campagne svendute al land grabbing, non deve distogliere l’attenzione dalla media di grandissimi progetti sostanzialmente speculativi, molto diversi anche fra di loro, ma che sembrano avere in comune: certamente le dimensioni, urbane o comunque di ampi settori metropolitani, in forma comunemente di satelliti o rarissime “riqualificazioni”; l’approccio da archistar globalizzate, o comunque da grandi studi con forti capacità autopromozionali, del genere assai sostenuto dalla committenza già visto a Dubai, Shanghai o Singapore; la curiosa, almeno per il contesto, enfasi posta sulla sostenibilità o su aspetti postmoderni (in ambienti spesso premoderni) come la smart city o la resilienza climatica; la totale discrezionalità pubblico/governativa delle iniziative, in questo sovrapponibili alle città-animali folkloristiche sudanesi, senza alcun genere di coinvolgimento democratico, qualunque senso si voglia attribuire a questa parola.

Un rapido esempio è il centro satellite di Nairobi in Kenya, chiamato Tatu, scaraventato brutalmente su ottima campagna produttiva di caffè, e che secondo l’ufficio stampa dei finanziatori russi della Renaissance Partners, si rivolge a “abitanti in cerca di qualcosa di meglio, imprese attente, operatori commerciali, in un centro a funzioni composite che sarà il più moderno dell’Africa orientale”. Le cifre in sintesi sono tanto per iniziare di settantamila residenti e trentamila city users, che si devono immaginare miracolosamente vaganti nelle prospettive di questa nuova città, così come la si intravede nei disegni: una spina verde centrale stile micro-central-park circondata da edifici di aspetto vagamente LEED che potrebbero trovarsi ovunque, con un impianto urbanistico a griglia ortogonale. Difficile distinguere, anche, questa città nuova di Tatu dall’altro progettone per l’area di Nairobi, Konza Techno City, a 70 km dalla capitale, trentamila abitanti per la conclamata Silicon Valley africana. E si potrebbe continuare con altre città, altri governi, altri progetti altrettanto mirabolanti. Tutti accomunati anche da una domanda: c’è qualcosa, oltre la foglia di fico che nasconde l’impotenza ad arginare lo slum?

Vero, c’è l’interesse degli investitori per un ceto medio che in tutte le città del continente africano cresce, così come crescono nominalmente le economie. Questo ceto medio secondo osservatori specializzati (e quindi non esattamente obiettivi in quanto direttamente coinvolti) spinge e alimenta una domanda di contesti urbani ben servizi, moderni, di architetture contemporanee in grado di corrispondere alle proprie aspirazioni. Ma chi diavolo sarebbero questi ceti medi, scendendo un istante dal satellite da cui si prendono le misure per i rendering? Secondo la definizione ufficiale della Banca Africane per lo Sviluppo si considera ceto medio chi spende l’equivalente di 2-20 dollari americani al giorno, e ceto medio superiore la fascia 10-20 dollari. Osserva una studiosa in un recentissimo rapporto come “sia difficile immaginare famiglie con redditi del genere potersi permettere il genere di appartamenti di lusso proposti in questi fantasiosi progetti (per non parlare delle automobili necessarie a spostarsi in quelle città. Risulta già evidente in alcuni casi, come i quartieri fantasma a Luanda realizzati dai cinesi, che esistono enormi equivoci nell’interpretazione del mercato africano” (Vanessa Watson, “African urban fantasies: dreams or nightmares?” Environment and Urbanization, feb. 2014)

Resta assai forte il sospetto che esista tutta una triste carovana di operatori e forze economiche interessate, secondo un copione già visto e stravisto, a riproporre chiavi in mano un intero modello di sviluppo metropolitano in contesti privi degli anticorpi occidentali, sperando in buona sostanza di farla franca grazie alla connivenza di una classe dirigente autoreferenziale e priva di controlli democratici adeguati, quando non corrotta. Il genere di grandi progetti tutti chiacchiere e distintivo con cui ci misuriamo ogni giorno in Europa e America ormai da parecchi anni, e sui cui si sono formate generazioni di intellettuali, amministratori, politici, nonché sistemi legislativi e normativi, va a cercare più facili sbocchi là dove mancano gli anticorpi. Unica possibilità per arginare questo assalto, portato con grandi mezzi e una esplicita volontà di guerriglia in stile mordi fuggi e i cocci sono tuoi, agire sul versante culturale, oltre che ovviamente su quello politico-legislativo. Perché appaiono assai evidenti i rapporti speculari di questo massiccio attacco alle città, con la segregazione delle campagne operata dalla militarizzazione di fatto dei territori agricoli, sia per produzioni alimentari che energetiche destinate al mercato globale. Pare, su scala infinitamente più grande, la medesima strategia dei quartieri “sostenibili e a chilometro zero” realizzati in mezzo a un campo.

Riferimenti:

su Eddyburg tempo fa ho riportato una piccola rassegna sul tema dal Corriere della Sera, che non solo completa il quadro, ma dà un’idea di come sia possibile anche affrontare, da parte della stampa di informazione non specializzata, abbastanza correttamente un tema complesso

L’immagine di copertina è dal sito di Konza Techno City in Kenya

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