L’insostenibile pesantezza del quartiere fotocopia

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Foto F. Bottini

Alcuni anni fa, ero a Catania per un convegno, e alloggiavo in un albergo sulla centralissima via Etnea. Uscendo diretto all’università, avevo in mente tutt’altro che la contemplazione del panorama, visto che dovevo tenere una relazione da lì a una manciata di minuti, e me la stavo mentalmente ripassando già sull’ascensore. Il mio ritorno ad un rapporto fisico diretto e consapevole con la città, è avvenuto in modo assai più brusco del solito: sono andato a tutta velocità a sbattere la faccia contro un muro. Il perché è presto spiegato. Giusto dopo l’insegna del tale marchio di abbigliamento avevo imboccato la via trasversale … ma non c’era alcuna via trasversale da imboccare, solo una solida parete di muratura. Né ero stato vittima di improvvisi lavori pubblici o privati iniziati nella notte: subivo solo nel modo più patetico gli effetti della cosiddetta Città Clone.

Si tratta di un fenomeno piuttosto noto, e stigmatizzato da tempo dagli studiosi della britannica New Economics Foundation: soprattutto quando le politiche urbanistiche e commerciali provano a contenere la dispersione e i grandi contenitori extraurbani a forte orientamento automobilistico, le catene della distribuzione organizzata trasferiscono dentro il tessuto della città consolidata il proprio modus operandi classico, organizzandosi in una specie di shopping mall all’aperto, che ricalca pari pari sulle vie cittadine accostamenti e complementarità che di solito sperimentiamo dentro ambienti ad aria condizionata. Io in particolare avevo confuso addirittura una città con l’altra, scambiando via Etnea con una familiare via Manzoni un migliaio di chilometri più a nord. Da qui il brusco incontro con quell’intonaco che non stava dove doveva stare. Un incontro brusco che, in un modo o nell’altro, può però riguardare molte altre persone e interi sistemi socioeconomici locali: la grande superficie non necessariamente atterra in città nelle forme che diamo per scontate nei territori della dispersione.

Cosa che ha anche potenziali risvolti positivi, a ben vedere. Perché di sicuro se il panettiere dell’angolo non ce la fa più per motivi di età, e il figlio invece di imparare a stare dietro al banco ha preferito studiare violoncello, ben venga magari la catena in franchising La baguette d’aujourd’hui invece di lasciar vuoti i locali o riempirli con l’ennesima sede di finanziaria o agenzia immobiliare, che di solito durano poco e non danno alcuna vivacità al quartiere. Però esiste, come provavo a riassumere con la mia tragicomica esperienza di scontro frontale, anche il rischio di uno shopping mall virtuale, tale cioè da riprodurre sia il tipo di concorrenza che di solito fa uscire dal mercato gli esercizi non di catena, sia il rischio che a un solo abbandono seguano rapidissimamente come pedine del domino tutti gli altri, desertificando di colpo un’intera via o zona, e rendendo poi molto difficile una rigenerazione efficace.

Ogni tanto la nostra stampa nazionale scopre fenomeni del genere non solo in ritardo, ma da una prospettiva a dir poco folkloristica. Come la delusione di qualcuno nel constatare che la maglietta con la scritta curiosa, faticosamente recuperata scarpinando per una strada di Singapore, poi si trova in una via diventata del tutto identica e con la medesima offerta commerciale, a qualche centinaio di metri da casa propria. Insomma giusto il disappunto del borghese un po’ fighetto di aver perso un vantaggio di posizione e prestigio rispetto alla massa internazionalpopolare. Ma passa del tutto in secondo piano come questo genere di colonizzazione non solo finisca per minare certe particolarità urbane locali che sono la base su cui si regge il turismo, ma metta a rischio la stessa risilienza minima delle aree interessate.

Ci sono due problemi distinti, che spesso colpevolmente si confondono nella solita contrapposizione manichea fra esercenti locali (buoni per definizione) e grandi catene o marchi (cattivi perché invasori alieni): grande superficie, grande organizzazione. Il primo tema è quello classico, legato alla dispersione insediativa, al modello di trasporto e consumo a orientamento automobilistico che oggi si mette sempre più in discussione per motivi ambientali, energetici, sociali. Il secondo tema non salta così immediatamente all’occhio, ma può rappresentare uno sbocco automatico delle politiche tese ad arginare il consumo di suolo: possiamo intervenire anche su questi aspetti? E in che modi? Difficile dirlo senza sperimentare modelli di intervento, come quelli tentati proprio in Gran Bretagna da una agenzia pubblica (Commissione Portas) che non solo elargisce sostegni ai piccoli operatori, ma lavora soprattutto in termini di immagine per il consumatore e di integrazione col resto delle attività urbane. In pratica costruendo in forma di rete ciò che le grandi catene fanno agendo in proprio coi potenti mezzi a loro disposizione.

Prima, però, occorrerebbe separare i due aspetti, dell’occupazione di spazio urbano, e del tipo di organizzazione che si insedia. Solo così si inizia a valutare davvero chi induce vitalità o meno, chi accresce o diminuisce identità locale, chi può accompagnare virtuosamente processi di riqualificazione, o garantire in qualche modo che non ce ne sia affatto bisogno. Come dimostrano ad esempio le lotte infinite delle associazioni di esercenti contro pedonalizzazioni o limitazioni simili, non sempre essere piccoli e locali significa essere automaticamente virtuosi. Allo stesso tempo, senza una chiara politica pubblica ad esempio di coordinamento della partecipazione di piccoli e grandi soggetti a iniziative di gestione congiunta (sul modello modificato dei Business Improvement District internazionali) la trasformazione in shopping mall virtuale dominato da pochi grandi soggetti e poco resiliente, con parallela desertificazione delle zone adiacenti, pare un destino segnato. Il che è sicuramente più grave sia del mio scontro col muro, sia dello sconcerto di qualche ex privilegiato per aver perso l’esclusiva dei prodotti esotici.

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