Finanziamento pubblico dello sprawl?

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Foto M. B. Fashion

Anche se gli interessati – vuoi per crassa ignoranza, vuoi per malafede – non lo ammettono mai, è abbastanza noto e confermato come la dispersione urbana altro non sia se non un condiviso viaggio verso il sole dell’avvenire della felicità per tutti. Un viaggio iniziato verso le fasi mature dell’industrializzazione occidentale, e per molti versi ancora in corso. In pratica è come se il famoso «To-morrow: a peaceful path to real reform» di Howard sia stato lo slogan accettato da tutti, prima e dopo la pubblicazione del libriccino, il quale non faceva altro che dare una bella forma pratica e un linguaggio empirico a quanto già era senso comune da un paio di generazioni. Il meccanismo è quello antichissimo che già presiede per esempio alle prime grandi opere religioso-politico-superstiziose, tipo le Piramidi nella valle del Nilo o le loro cugine in Sud America, mescolato all’idea di un enorme esercito in marcia alla conquista di nuove frontiere, il tutto però guidato soprattutto dall’iniziativa e motivazione individuale, anziché da qualche meta-volontà superiore. Così come la curiosa, e a modo suo strampalata, idea che i selvaggi coloniali dovessero coprire le proprie pudenda, alimentava le poderose schiere di telai della madrepatria britannica, allo stesso modo la fame di aria pura e verde da giardinetto privato spingeva schiere di muratori, falegnami, architetti, surveyors, filosofi e preti col mito della famiglia nucleare, ad alimentare quel luogo comune della felicità nel nido di mattoni con tetto spiovente.

Trabiccoli autoreferenziali

In fondo, quando Henry Ford lancia la sua «profezia» sulla dissoluzione della città nel vasto mondo grazie alle sue automobiline in serie, sono già pronti ad applaudire: dai medici che consigliavano vacanze all’aria aperta a gente che non l’aveva mai vista, ai pensosi artisti architetti tipo Wright che non vedevano l’ora di smetterla di confrontarsi con l’edificio accanto, e spostare direttamente il paragone con degli ego dalle dimensioni adeguate, tipo la Natura, l’Eterno, il Far West. E dietro alla élite intellettual-pensosa si accodano mercanti, artigiani, Dame di San Vincenzo conformiste, moralisti, versioni paleolitiche del nerd tecnologico bravissimo ad avvitarsi su sé stesso nel costruire trappole meccanico-logiche al prossimo. Così nasce il suburbio, orgia di consumi autoreferenziali dove l’uno tira l’altro all’infinito, dove la soluzione in più sempre considerata assoluta si contrappone al modesto invece etichettato come antimoderno e in fondo antisociale. La libertà di fare esattamente (vedi la metafora dell’esercito di liberi pensatori massificati) quel che si deve per forza fare, con le villette del capofamiglia-castellano individualista estremo, tutte identiche l’una all’altra, così come le auto in garage, le motofalciatrici nel casotto, lo stesso casotto standardizzato e proposto in offerta al brico-center del monopolista. Un paradiso dello sviluppismo, in cui le cose gratis sono pochissime o inesistenti, e dove le culture della privatizzazione si autoalimentano da sole senza neppure un vero bisogno di campagne religiose o pubblicitarie: tutto va così perché la natura dell’uomo lo chiede, quella della famiglia lo pretende. Finché la Natura quella vera, mica quella immaginata dall’architetto megalomane disurbanista a far da sfondo ai suoi metri cubi griffati, non dice basta. La natura naturale, e la natura umana.

Suburbio chi era costui?

Emergono prima la crisi ambientale del suburbio come frontiera infinita del crescita di tutto quanto, e quasi spontanea conseguenza quella di chi si chiede: ma sarebbe quella la felicità? Diventare obeso e scemo perché lo dice il destino? Portatemi qui quel destino che glie ne dico quattro! Naturalmente anche qui abbiamo le élites, che ci arrivano prima, e le masse che non hanno ancora colto (anche perché non sono nella condizione di poterlo fare così prontamente) il senso di questo mutamento di paradigma. In termini socio-territoriali il passaggio critico viene chiamato dai centri studi «suburbanizzazione della povertà», e trasforma la vecchia nuova frontiera della crescita indefinita nel nuovo inferno da cui scappare. Disorientamento dei mercati, che non capiscono bene da che parte girarsi, tarati come sono al 100% o quasi sul mito del crescere come dicono loro, ormai contraddetto da fatti vistosi, su cui è sempre più impossibile stendere il velo della propaganda. Accade allora – addirittura! – che il mercato neghi sé stesso, pur di passare ‘a nuttata che non capisce, e per bocca dei suoi sacerdoti all’Adam Smith Institue (amen) si dichiari impotente a salvare l’Eden suburbano, per cui richiede un intervento dell’ex odiata Pubblica Amministrazione. Pare una fotocopia di certi capitalismi nazionali che campano da generazioni depredando spudoratamente tutto ciò che è pubblico, e probabilmente è proprio così. Gli ex liberisti sono convinti davvero che quel posto coi suoi villini non sia uno strabismo della storia, forse credono davvero alle balle di certi architetti o progettisti di norme tecniche municipali fatte su misura (il divieto di stendere i panni per vendere asciugatrici a tutte le famiglie, ad esempio) per gli «stili di vita» coatti. Insomma non credono neppure a certe teorie molto morbide secondo cui l’anticittà ha un unico destino: trasformarsi in città, farlo nel modo meno impattante possibile, e farlo molto, molto alla svelta. Sempre che non si meriti di essere socialmente demolita e irrisa. Ciò premesso, leggetevi l’accorato appello degli smithiani britannici scaricabile al link, senza fidarsi ovviamente.

Riferimenti:
Paul Hunter, Towards a suburban renaissance: an agenda for our city suburbs, Adam Smith Institute, luglio 2016

Sull’uso ideologico di certa terminologia vedi anche Fabrizio Bottini, Intervista sullo Sprawl – REAL Festival, Schio maggio 2016

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