I veri criminali dell’omicidio stradale

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Foto F. Bottini

Ciclicamente qualche nostro ministro in vena di visibilità mediatica annuncia l’intenzione di introdurre un nuovo reato, quello di omicidio stradale, a sanzionare in modo particolarmente grave le responsabilità di chi guidando in modo sconsiderato in pratica punta un’arma da una tonnellata contro altri esseri umani. Servirebbe a qualcosa, o no? Domanda lecita, soprattutto per chi di norma non apprezza in modo particolare l’approccio repressivo alle questioni. Sicuramente è sempre ora che qualcuno inizi a riconoscere, almeno a dipanare, l’intreccio di concause che stanno a monte di un incidente stradale, e di cui di certo la responsabilità dei guidatori in quel preciso istante fa parte. Ma come ha ben messo in luce ad esempio la discussione sul cosiddetto femminicidio, promettere condanne più pesanti da un lato rappresenta un approccio sicuramente destrorso e limitatissimo, dall’altro rischia di eludere la vera questione, che è culturale e di contesto.

Spesso e volentieri si prova (senza tantissimo successo di pubblico) a mettere in discussione proprio certi approcci settoriali a qualcosa che settoriale non è affatto, come la pervasiva forma di urbanizzazione che ci avvolge in questo scorcio di millennio. E la repressione è quanto di più micragnosamente settoriale esista, anzi arriva addirittura dopo e fuori da tutto, una specie di fastidioso deus ex machina peggio del cambiamento climatico. Quel che porta all’incidente stradale, alla botta finale del cofano contro qualcuno, dovrebbe essere oggetto di prevenzione, anche perché non pare realistico trascinare in catene davanti a un giudice i veri colpevoli, di cui proviamo a stilare un parzialissimo elenco: l’ingegnere, geometra, costruttore, responsabili della sezione stradale (che invita a velocità eccessive, o impedisce una visibilità adeguata); i legislatori che hanno, di solito per trascuratezza o peggio pressioni di interessi, regolato in modo così carente o colpevole il lavoro tecnico; progettisti e produttori di veicoli a motore, che scaricano troppo sul conducente una serie di funzioni che potrebbero invece essere gestite a monte, sia nel rapporto col veicolo che tra questo e gli spazi della strada.

Ci sono poi una serie di responsabilità molto indirette, certamente non sanzionabili proprio perché tanto vaghe e ipotetiche, ma che meriterebbero qui di essere riprese. Riguardano il filone di ragionamento detto della demotorizzazione, ovvero trasformazione progressiva del ciclo dell’auto dalla centralità del rapporto fra produttore e acquirente di veicolo, a quella di una più articolata relazione di un fornitore di servizi integrati con una utenza. E tirano in ballo cose molto pratiche, vicine al cittadino, e assai all’ordine del giorno (se ne parla fin troppo facendo poco), riassumibili con le formule dette car-sharing e smart city. Partiamo da quest’ultima: la nostra vita urbana si caratterizza per i requisiti di mobilità e connettività, spesso inestricabilmente intrecciati, ci si muove al meglio se si è connessi. Qual’è una delle cause di incidente stradale? Guidare mentre si maneggia un portatile. Come si può prevenire un incidente stradale? Evitando di dove maneggiare quel portatile di continuo, ed evitando anche di pensare che qualcuno possa ragionevolmente fermarsi ogni volta che gli capita di doverlo usare (qui torneremmo più o meno alla logica repressiva dei comportamenti individuali). Ma passiamo al car-sharing.

Si sta affermando come formidabile strumento di mobilità urbana, economicamente competitivo rispetto alla proprietà, e straordinario negli effetti sulla città nel suo insieme, dai parcheggi in poi. Tra le occasioni sinora perse, però, c’è una seria svolta in materia di veicoli: pochissimi quelli elettrici, leggeri, a velocità limitata, pochissime le fondamentali innovazioni tecnologiche in generale. In pratica l’unica vera rivoluzione, certo non da poco, è quella organizzativa. Domanda: non si potrebbe rendere davvero l’automobile condivisa un grande strumento di innovazione urbana, molto più di quanto non avvenga oggi? Perché le automobiline che circolano sono pressoché identiche a quelle che mi posso comprare? Forse è intuibile, nell’immediato, la scelta degli operatori privati di accostare il consumatore con un prodotto familiare, ma qui dovrebbe intervenire in qualche modo l’operatore pubblico a colmare il vuoto.

Tempo fa, un utente di car sharing ha investito il corteo di biciclette critical mass. A parte qualunque altra considerazione sulla gravità del gesto, e le implicazioni culturali, sono stati in molti a riconoscere che i danni limitati (nessun ferito grave) si devono esclusivamente al tipo di veicolo e alla velocità limitatissima. Un quadriciclo elettrico, invece di un’utilitaria a benzina, ha salvato un paio di vite. Quanto alla velocità limitata, nel caso specifico il motivo era il contesto urbanistico, ma sorge spontanea una domanda: perché mai in città dove esiste il limite formale (e ragionevole) di 50kmh devono circolare auto in car sharing in grado di accelerare fino a 150kmh? E qui si torna di nuovo alla smart city.

Perché se l’obiezione è che, in prospettiva, con quelle auto si potrebbe anche imboccare un anello o bretella di tipo autostradale senza il limite di 50 all’ora, non si vede perché non possa essere introdotto qualche aggeggio tecnologico che impedisce materialmente di superarli là dove ci sono, quei limiti. E insieme, altri marchingegni tali da rendere inutile, o ancora impossibile, baloccarsi con lo smartphone mentre si guida: anche a trenta all’ora o meno, un cofano contro qualcuno fa molto male. Certo si tratterebbe di avere un’idea qualsivoglia di mobilità, di sicurezza, di rapporti fra tecnologie e spazio urbano, un pochino più articolata di quella attuale, che vede prevalentemente l’ammucchiarsi di app sugli schermi, ovvero un incentivo in più, anziché in meno, a distrarsi. Per non parlare della futuribile ma non troppo guida automatica, che ovviamente sarebbe assai più praticabile in un primo tempo proprio nei contesti urbani e di condivisione. Ecco cosa c’è, come sempre, prima del bastone per i trasgressori: la carota per tutti gli altri.

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