Il cambiamento climatico è ciò che mangi

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Foto M. B. Style

C’è una cosa assai abusata e assai ignorata, che si chiama metodo induttivo. Filosoficamente parlando è il procedimento che partendo da singoli casi particolari cerca di stabilire una legge universale. Restando un pochino più terra terra, ovvero non volendo assolutamente stabilire leggi o regole, ma formandosi una semplice visione del mondo (come quella associata alle scelte politiche, relazionali, di consumo, giudizi sul prossimo eccetera), pare di gran moda al giorno d’oggi da un lato l’induzione generalizzata, dall’altro contemporaneamente ignorarne le evidenti conseguenze. Ovvero: da esperienze e conoscenze molto circostanziate e ristrette, da comportamenti individuali, si costruisce un’idea di mondo e si contribuisce alla sua trasformazione (spesso in negativo), ma poi di fronte a queste negatività ci si rifiuta di riconoscere come del tutto consequenziale il proprio contributo. Butto cartacce per la strada perché dal mio punto di vista che sarà mai un pezzettino minuscolo di spazzatura, ma poi di fronte al degrado ambientale indotto dalle montagne di rifiuti mi scordo di averci partecipato attivamente, accusando altri, non meglio identificati, colpevoli dello scempio. Il caso più comune di questo tipo di atteggiamento è quello del traffico automobilistico: si esce di casa salendo automaticamente in macchina, senza mai riflettere sul fatto che non si tratta di un destino ineluttabile, ma di una serie di scelte che dovrebbero essere consapevoli. Poi, bloccati nell’ingorgo insieme a tutti quelli che hanno fatto esattamente come noi, rifiutiamo di riconoscerci parte del problema: è sempre tutta « colpa degli altri». Curioso, che il metodo induttivo, sistematicamente analizzato e noto sin dai tempi di Socrate, duemilacinquecento anni fa, venga ancora vissuto così, in forme visceralmente animali.

È buono, fa bene, il problema è un altro

Anche quell’ultimo tentativo di massa di sintetizzare atteggiamenti variamente induttivi e deduttivi, riassunto nel noto slogan «il personale è politico», pare abbia fallito il colpo. Perché il percorso funziona solo nella direzione dal particolare al generale: ciò che ci aggrada o che siamo abituati a fare, diventa caratterizzante le categorie generali. Magari superficialmente in un primo tempo, poi in modo più profondo, sino al punto in cui anche le scelte politiche generali finiscono per essere una specie di prolungamento personale, cosa da cui discende in modo ovvio il frazionismo, la cosiddetta balcanizzazione di partiti e gruppetti, il localismo ambientalista, l’agire per progetti privi della cornice di una qualsivoglia strategia, almeno diversa da quella del perseguimento di un obiettivo assai limitato. Come col traffico, anche la dieta dei singoli individui deriva da scelte, di solito abbastanza consapevoli di quel che si mette nel piatto e in bocca. Dopo le varie campagne internazionali, dopo la grande Expo dedicata all’alimentazione del mondo, pur tra varie distorsioni mediatiche e di mercato, cuochi e lobbies agro-industriali, qualche consapevolezza dovrebbe essere ormai filtrata, sul ruolo delle filiere produttive e di distribuzione. Lamentiamo il degrado climatico, quello del territorio, i problemi di salute e sociali indotti dall’alimentazione, ma mai e poi mai consideriamo adeguatamente il nostro, piccolo ma fondamentale contributo. E invece.

Il tuo boccone vale il doppio

Invece succede che certi nostri innocui o addirittura sedicenti virtuosi comportamenti alimentari, oltre al corpo alimentano anche cose terrificanti, le emissioni che provocano scioglimenti della calotta polare, alluvioni, tempeste, siccità, migrazioni di massa dalle zone più colpite, emergenze umanitarie. La bistecchina che la zia o la maestra ci hanno insegnato a mangiare fino all’ultimo boccone, la salsiccia che, ci dicono, nella valle tal dei tali è l’anima del territorio, affonda praticamente le radici nella storia e nella società. Ecco, la bistecchina e la salsiccia fuori dalla nostra soggettiva percezione sono invece i proiettili sparati nell’inerme corpaccione del pianeta. Nessuna retorica, nessuna immagine splatter, solo la realtà, inquadrata senza le mitiche fette di prosciutto davanti agli occhi. Chi segue i precetti dietetici della zia, consuma i suoi 100 grammi di carne al giorno, più o meno, visto in media familiare e amicale. Per farlo ricorre, sempre in media, proprio a quel settore agro-industriale che gli garantisce rifornimento, direttamente o indirettamente, di materie prime e sistemi di trasformazione e distribuzione. Quella filiera è responsabile di quote gigantesche di emissioni, superiori al traffico, all’energia da fonti fossili. Sollevate un istante la bocca dal fiero pasto, per dire che non è vero, che voi mangiate solo il pollo genuino ruspante di nonna Papera? Balle: è solo che non volete ragionare, siete delle bestie. Un vegano, quel tizio che sfottete a ogni piè sospinto, e che a volte ammettiamolo un po’ se lo merita perché pare ideologico, di emissioni mediamente ne produce meno della metà di voi. Capito? Altro che quei tagli del 10% sognati sull’arco di una generazione! Il 50% via, in un colpo solo, niente più cambiamento climatico insomma, o quasi, piantandola con la vostra maledetta braciolina della zia, che vi farà pure venire l’infarto da tanto che fa bene. Ma andate avanti a sfottere, il problema è un altro, ci vuole il nuovo paradigma eccetera. Almeno leggete l’allegato.

Riferimenti:
AA.VV., Dietary greenhouse gas emissions of meat-eaters, fish-eaters, vegetarians and vegans, Climatic Change, Vol. 125, n. 2, luglio 2014

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