Il villaggio urbano senza lo scemo del villaggio

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Foto M. B. Style

Ogni tanto da qualche parte si lanciano e rilanciano varie campagne sul telelavoro, il coworking, condivisioni varie, i nuovi formati edilizi e le potenzialità della smart city, ma pare che nessuno osi mai neppure sfiorare il totem feticcio della religione immobiliare: il valore assoluto e sacro dello spazio fisico, del metro cubo su metro quadro convenzionale, griffato o no, costruito o solo approvato, ma già in quella vita virtuale foriero di paurose oscillazioni sui titoli degli intestatari. Perché se un tempo potevano essere oro, diamanti, o il mitico barile di petrolio o altre diavolerie, il riferimento del “valore”, oggi come non mai sulla nostra civiltà mondiale torreggia, letteralmente, quel metaforico edificio di una idea di città che non si sgancia dalla sua personale distorsione del rapporto valore d’uso valore di scambio. Già: distorsione, quasi solo quello, verrebbe da dire onestamente, nell’epoca appunto dei sopracitati telelavoro, il coworking, economie della condivisione, nuovi formati edilizi e smart city. Perché se comunque, anche al netto di ogni genere di speculazione, esiste una oggettiva differenza, nella città brick & mortar, tra la catapecchia infestata dagli scarafaggi e il trentesimo piano degli uffici centrali della multinazionale, questa differenza con quelle innovazioni tecnologiche e organizzative finisce per assottigliarsi, e parecchio.

Il quartiere glocale

Del resto una buona metafora di questa situazione è quel che accade, o potrebbe ragionevolmente accadere, in un qualunque nostro quartiere urbano una mattina di mercato rionale. Relazioni commerciali e non, attività e trambusto nelle vie, così come avviene da infinite generazioni nelle grandi e piccole agglomerazioni inventate dalla specie umana esattamente a questo scopo. Ma a differenza del rione cittadino, o del villaggio principale di un territorio rurale promosso a market town, oggi questo spazio va ben oltre gli scambi città campagna avvenuti per millenni. Accade grazie alla tecnologia contemporanea, in grado di trasformare profondamente la qualità spaziale senza incidere direttamente. Per esempio nel nostro mercato rionale (e nelle abitazioni che stanno negli edifici circostanti) pulluleranno persone con un tasca uno smartphone potenzialmente in grado di svolgere varie operazioni, economiche e non, in rapporto con altre parti del mondo, prossime o assai distanti. Ovvero tutta una serie di correlazioni che un tempo si svolgevano esclusivamente per prossimità, ovvero che qualificavano i luoghi anche secondo il fattore distanza, coesistono con altre del tutto indifferenti a quel fattore. In teoria, nudi e seduti nel fango in mezzo ai maiali si può presiedere il consiglio di amministrazione di una multinazionale, magari badando che qualche suino non interferisca nell’audio, o che la videocamera non inquadri particolari sconvenienti.

Il villaggio urbano del terzo millennio

Ci mancava solo l’innovazione tecnologica che abbatte le distanze e mette a nudo la divaricazione tra valore d’uso e valore di scambio dello spazio urbano, ad abbattere le motivazioni alla classica segregazione funzionale detta originariamente zoning, scivolata col tempo verso assurdità inaudite, specie con la dispersione suburbana. Non a caso si citava prima ad esempio il telelavoro: che senso avrebbe più – salvo quello speculativo naturalmente – la downtown terziaria coi suoi grattacieli e flussi titanici di pendolari in entrata e uscita, se tutti potessero sostanzialmente lavorare da qualunque indifferente postazione? Per altri usi e organizzazioni spaziali, naturalmente, il problema potrebbe porsi un po’ meno lineare, ma non è difficile immaginare né un’industria diversa grazie a miniaturizzazione, reti, conversione energetica, né un commercio meno concentrato nei grandi contenitori, anche grazie allo sviluppo delle medesime app da telefonino per scegliere, pagare, limitare il contatto fisico a quanto davvero utile. Si potrebbe continuare, con l’agricoltura a km0 e via dicendo, ma per adesso ci si può fermare, per il salto logico successivo, e conclusivo, che suona: al mixed-use funzionale si accosta quasi naturalmente quello sociale, per fasce di età e reddito. A ribaltare la logica artificiosa e violenta del neoliberalismo urbanistico attuale, che fa coincidere riqualificazione con gentrification, o peggio il recupero delle superfici dismesse con una specie di suburbanizzazione metropolitana, gated communities incluse. Ecco qui, più o meno accennati e riassunti, tutti i presupposti di una nuova idea di bonifica socio-urbanistica che, a partire dal basso, ovvero dai quartieri popolari novecenteschi, possa iniziare, incrementalmente, a cambiare tutto il tessuto della città. Altro che progetti per le banlieu: è il centro che deve urgentemente cambiare, parola di Autori Vari, come da allegato.

Riferimenti:

AA.VV. City villages: More homes, better communities, Institute for Public Policy Research, marzo 2015 [scaricabile, tra l’altro saggi di Peter Hall e Richard Rogers]

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