La città diffusa non è città (anzi non esiste)

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Foto M.B. Fashion

I giochi di parole dei piazzisti e venditori di illusioni sono stigmatizzati da secoli di aneddotica popolare, e fissati indelebilmente dalla penna di efficaci e famosi scrittori, ma a quanto pare il metodo funziona comunque ancora alla grande. Nelle parole della città imperversa ad esempio da lustri l’aggettivo «diffuso», inventato da qualche furbacchione (con varianti linguistiche e regionali varie) per aggirare dialetticamente il più scomodo «disperso». Il motivo è così ovvio, nella logica dei venditori di magiche pozioni, che non sarebbe neppure da spiegare: là dove la dispersione evoca spontaneamente immagini di disordine, casualità, disagio, la diffusione comunica invece leggerezza, qualcosa che delicatamente e adeguatamente trasforma in meglio. Ed ecco servita in tavola la città diffusa, che ovviamente non sta a descrivere qualcosa di reale, ma una aspirazione, da inseguire individuandone tracce e indizi, e poi sviluppandoli «coerentemente» a discrezione di chi ne capisce, di chi li sa cogliere potenzialità. Ed ecco costruito un territorio di caccia ideale per i piazzisti di pozioni: vivete nella dispersione, ma noi con qualche sorsata ve la trasformiamo in diffusione, ci vuole poco, su un piccolo sforzo! Ma è su quella «coerenza» di cui sopra, che si dovrebbe concentrarsi, cioè che indizi colgono i nostri eroi, e quali invece si potrebbero leggere lì dentro? Proviamo a guardare meglio.

Le tre calamite

C’è una cosa che tradizionalmente e inequivocabilmente definiamo città, un’altra che chiamiamo campagna o natura, e un confuso mescolarsi di qualità di entrambe in qualche punto a metà strada. La città è il luogo della vicinanza, delle relazioni, degli stimoli, delle attività composite. La natura-campagna è il luogo della lentezza di processi spontanei e di tempo lungo, che si rinnovano per cicli regolari. La lettura di ciò che non è né città né campagna, dovrebbe basarsi su questi elementi, e in fondo fa esattamente quello: ma c’è modo e modo. Tutto dipende dalle premesse e dagli obiettivi, più o meno dichiarati, che si comprendono anche a partire dalla personalità di chi indica via via ciò che appare prioritario: un contadino, un politico conservatore o progressista, un architetto, un economista e via dicendo. Perché in un modo o nell’altro essendo portatori di interessi particolari saranno attirati verso la polarità più congeniale, il «che fare» esattamente quando si tratta di passare dalla dispersione alla diffusione, o magari a qualcos’altro ancora da capire. Più città? Molti risponderebbero che bisogna puntare sul reddito, è quello che fa città, che incrementa i flussi, le relazioni, le attività. Altri che ancora più a monte è il volume dell’edificato a mettere le premesse socio-economiche, e allora si tratta di riempire i troppi vuoti «rammendando» un costruito all’altro, riempiendo di senso urbano-edilizio ciò che oggi ne è privo, o dotato troppo scarsamente. E via di questo passo.

Perché c’è dispersione?

Ma tocca chiedersi però, onestamente (da parte di favorevoli e contrari a questa o quella opzione di lettura/terapia di intervento) quali processi abbiano condotto al limbo detto dispersione/diffusione urbana, e quali processi siano prevedibilmente attivi nel medio e lungo termine. Di norma chi parla di città diffusa intendendola in positivo, quindi proiettata verso un divenire fulgido di realizzazione finale, si riferisce al classico processo di suburbanizzazione e decentramento novecentesco automobilistico, che avrebbe posto le premesse per un suo attuale assestamento «coerente». Da qui quella necessità di completare trame, trame urbane, trame edilizie e infrastrutturali, di servizi e reti, confermando e rafforzando polarità, e magari riequilibrando i ruoli fra insediamento storico e addizioni recenti. Nella pubblicistica internazionale, questo genere di processi si definisce con vari termini, da sprawl repair, a densificazione locale, o rinvia a modellistiche più particolareggiate e trasversali come il cosiddetto transit-oriented-development basato sui rapporti fra quantità di edificato e trasporti pubblici. Tutti questi percorsi logici e di intervento, hanno però un presupposto dato per scontato, ma che scontato a ben vedere non è affatto: ovvero che esista localmente una inequivocabile spinta alla crescita, che la crescita sia in qualche modo ambientalmente sostenibile, e che l’urbanizzazione nelle forme sopracitate sia in pratica l’unica possibilità. Solo rispondendo a quella domanda, dal punto di vista ambientale, socioeconomico, politico, si può ridurre il margine di discrezionalità, e passare a elaborare programmi degli di questo nome, a cui seguiranno piani e progetti. Prima, parlare di «diffusione» in qualunque senso, è solo mentire a sé stessi e ai propri interlocutori.

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