La teoria del gender va a pedali

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Foto J. B. Hunter

Raccontano le cronache, più recenti e meno recenti, di scontri titanici fra le tribù dei pedalatori e loro nemici ostili in agguato tra boschi e semafori. Quella più singolare, e diciamo pure con sfumature criminali, è la guerra scatenata dagli anti-ciclisti su certi percorsi di fuoristrada per sentieri, su cui si spargono schegge taglienti per i pneumatici o corde di traverso su cui inciampare e potenzialmente farsi anche parecchio male. Per non parlare, delle raffiche di insulti e prevaricazioni che arrivano al ciclista urbano medio da finestrini di auto o pedoni (probabili automobilisti in pausa sindacale), con bruschi inviti a «rispettare il Codice», o a suicidarsi pietosamente sul posto e farla finita con quella «solfa dell’ecologia», che qui dobbiamo lavorare, insomma! È questo, a fianco e oltre le nude statistiche sugli incidenti, i morti, i feriti, il dibattito sul sicurezza e le eventuali politiche repressive, il contesto in cui si cala di fatto la sostanza della discussione sulla mobilità dolce a pedali. Con una poco sottolineata, ma importante, distinzione fra un generico mainstream genericamente ciclista, che comprende tutto in un cocktail variegato ma che vede con un ruolo di sedicente avanguardia il classico approccio sportivo, e una più attenta disamina del bisogno a cui effettivamente risponde e potrebbe ancor meglio rispondere il mezzo di trasporto bicicletta.

Il maschio bianco sano e forte

Ci sono consolidate teorie e studi storici, sociologici, politici, che indicano come chiave dell’espansione americana del XX secolo nel mondo, non tanto la dispiegata potenza militare, o quella aggressivamente economica, ma la assai più sottile e sottostante filosofia dei consumi individuali su cui di fatto l’efficacia dei primi due aspetti si poggia. È stato scritto per esempio, che «La donna di casa di classe operaia del primo ‘900 certamente si sognava tante comodità domestiche, stoviglie funzionali, o l’acqua calda corrente, cuscini di piuma, e magari anche una lavatrice, le calze di seta, qualche soprammobile o accessorio elegante: ma tutto questo proprio sfuggiva alla rigida cultura maschile del socialismo». Il che, ricontestualizzato, sta più o meno a significare che se usciamo dalle grandi categorie dello spirito e cominciamo a razzolare un po’ più in basso, scopriamo cosucce sorprendentemente ovvie che ci erano sfuggite. Nel caso del ciclismo, ad esempio, che la medesima valanga consumista arrivata da oltreoceano ci ha fatto dimenticare pure il senso della bicicletta locale, quello stratificato e popolare, per ripartire dall’idea di importazione (assai limitata e potenzialmente fuoriviante) che si attacca al mercato dei mezzi meccanici, degli accessori, di un approccio maschile aggressivo, e al massimo del collaterale mercato edilizio delle piste ciclabili, considerate in una logica para-autostradale anziché inserite in un contesto assai più complesso di vero uso della città e del territorio, quotidiano, non sportivo, e legato alle attività correnti. Per leggere la realtà dei bisogni, un modo assai efficace è quello di partire «al femminile» anziché dalle braghette fluo del maschio alfa competitivo.

Buon senso di importazione

Come spesso succede, per trovare le terapie il modo migliore è cominciare dalla malattia, o addirittura dall’origine individuata della malattia stessa. Lo stesso mercato che voleva venderci i mostri tecnologici a pedali per arrampicarsi fino in cima alle montagne, ad un certo punto scopre anche bisogni più terra terra, quelli di far la spesa a cinquecento metri di distanza, senza farsi mettere sotto dalle auto e senza rovesciare tutte le borse nel ritorno, vuoi per insipienza del mezzo, vuoi per inadeguatezza dei tracciati. E oltre alla spesa ci sono una miriade di altre cose, che nell’arrampicarsi con venti rapporti su per le montagne ci erano sfuggiti, e che possiamo riassumere in un ciclismo «di genere», rivolto prima di tutto alle donne, e più in generale a minoranze economiche, etniche, professionali, sociali. Da studi recenti emerge che proprio quel «mercato deviato» sinora non fornisce informazioni sulle necessità di trasporto o di correlazione tra la forma ciclistica e altre mobilità complementari, dei soggetti non maschile-sportivo. Sappiamo solo per esempio che si vendono mezzi che poi non circolano sulle strade, ma non perché. Una volta individuati gli ostacoli (magari puramente informativi, ma anche tecnici, o esterni come l’organizzazione del commercio o servizi), i responsabili devono mettere in atto politiche adeguate. Per esempio, le aree di sosta, o la continuità di una rete di percorsi, o la corrispondenza tra percorsi e localizzazione dei servizi, oggi bellamente ignorata. E infine non lasciare il povero inadeguato «mercato» a farla da padrone come avvenuto sinora, ma evitargli un probabile suicidio perché non sa rivolgersi nel modo giusto ai soggetti giusti. L’elenco è lungo, e si rinvia all’allegato e relativi links.

Riferimenti:
Barbara Clabots, Even in the Most Bike-Friendly States, Women Are Left Behind, YES, 30 settembre 2016

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