La Città Verde è una realtà scientifica di libertà

foto F. Bottini

Si mette in discussione un aspetto centrale del movimento ambientalista. La pianificazione urbanistica, specie quella che tende ad un modello sistematico e razionale, viene considerata con sospetto, nemica delle persone. È l’idea complessiva degli obiettivi sociali di una urbanistica tecnica razionale ad essere respinta da qualcuno, come espressione di una élite per nulla rappresentativa.

L’esempio più recente di questa controffensiva sono gli attacchi al modello della Città dei Quindici Minuti nel Regno Unito. Come probabilmente già sanno tanti lettori, quel modello teorico dice che una città ideale potrebbe essere quella in cui le persone possono accedere ai servizi essenziali (come scuole verde negozi ecc.) senza necessariamente usare l’auto. In alcune città, caso più noto Parigi ma anche parecchie in Gran Bretagna, si è adottato quello schema di riferimento urbanistico per progettare trasformazioni e infrastrutture.

Ma l’idea è fortemente criticata in quanto inutile, da chi è prima scettico rispetto al cambiamento climatico, e soprattutto poco convinto che ci si trovi davvero dentro un’emergenza. Peggio ancora, questi scettici descrivono il concetto dei quindici minuti come una specie di prigione lockdown con la scusa del clima, a impedire libertà di movimento circoscrivendolo a pochi metri di aria attorno a casa. Si tratta di una pura invenzione (anche se ad essere giusti alcuni programmi anti parcheggio delle città limitano davvero in qualche modo la mobilità da e per il suburbio). Chi sostiene il modello città dei quindici minuti nonostante tutte queste critiche si ritrova in una posizione difensiva, di quell’idea contro forze di destra scettiche sul cambiamento climatico.

Ci sono anche altri fronti contrari alla pianificazione sul fronte della natura. Negli USA, Nature Conservancy e altri gruppi lavorano sui cosiddetti Greenprints, che sono sostanzialmente progetti di analisi e divulgazione di dati e informazioni sugli elementi naturali di cui tenere conto nelel decisioni di uso dello spazio. Si fanno da decenni in tantissimi e diversi territori e città, coinvolgendo parecchie ONG, tra cui spicca il Trust for Public Land. Negli ultimi tempi però in alcuni Stati si è levata una forte reazione contro il concetto stesso di greenprint, che secondo queste critiche andrebbe contro i legittimi diritti della proprietà delineandosi come comunista e incostituzionale. Certo non si tratta di attacchi inediti dalla destra americana alla pianificazione territoriale, visto che iniziano negli anni ’80 del reaganismo col cosiddetto «wise use movement» contrario a qualunque regolamentazione. Però la controffensiva attuale assume tanta veemenza da indurre alla tentazione di cancellare la parola stessa greenprint dall’uso corrente.

Viviamo da dieci anni ormai dentro una pressione costante a ridurre ogni forma di regolamentazione e governo pubblico, tema assai studiato e analizzato dagli scienziati della politica. Recentemente si è anche lanciato un feroce assalto frontale all’idea stessa di «pianificazione urbanistica». In primo luogo si critica la possibilità di una qualunque posizione obiettiva, di una valutazione imparziale dei fatti, in grado di orientare le trasformazioni. In secondo luogo, un volta stabilita così la natura del tutto soggettiva di alcune decisioni, le si colloca nell’ambito del discrezionale, irrilevante, elitario.

Grosso problema per il movimento ambientalista, visto che conoscenze esperte del tipo legato alla pianificazione del territorio stanno da sempre alla base di ciò che percepiamo e chiamiamo «ambiente». Ho letto il magistrale The Environment: A History of an Idea [di Paul Warde, Libby Robin, Sverker Sörlin, Johns Hopkins University Press 2017, n.d.t.] in cui si espone il complesso significato di «ambiente» e come sia mutato nel tempo. Si descrive il percorso in cui l’accezione tradizionale di ciò che circonda una persona o organismo sia cambiata sino a diventare sinonimo di qualcosa di globale, modificabile o degradabile dall’azione umana collettiva. E assolutamente centrale per questo nuovo significato del termine «ambiente» diventa la serie di conoscenze esperte, di chi riesce a valutare sia gli impatti che prevenirli. Il movimento ambientalista moderno si organizza attorno a gruppi di esperti in grado di valutare obiettivamente dei fatti, di cui l’esempio più lampante è forse lo Intergovernmental Panel on Climate Change per dimensioni e prestigio. Tutela e protezione dell’ambiente con criteri razionali diventa così un obiettivo sociale essenziale per qualunque pubblica amministrazione responsabile.

Ergo almeno una parte della risposta ambientalista alla controffensiva critica rispetto al concettodi pianificazione dovrà essere reazionaria. Difendere l’obiettività, l’idea di attenersi ai fatti, il metodo scientifico per verificarli. E ciò include schierarsi a difesa di alcuni di quei fatti oggettivi, naturalmente, come l’esistenza del cambiamento climatico, oppure gli effetti positivi sulla salute umana di una città vivibile a piedi. Dobbiamo difendere il concetto più generale di fatto obiettivo, stigmatizzando pubblicamente chi invece per ragioni tutte politiche vuole ridurre la questione a un diritto di decidere cosa è giusto. Senza scienza e fiducia nella scienza per prendere le decisioni non esisterebbe alcun vero movimento ambientalista.

Ma c’è una altra parte della risposta ambientalista a queste critiche pretestuose. Ovvero che la nostra posizione non è certo quella un po’ elitaria che può a volte apparire l’idea di città meno invase dalle auto. Se non altro problemi di questo tipo pratico dovrebbero stare almeno sul medesimo piano di altri come la guerra o il terrorismo o il costo della vita. Ma a ben vedere il fatto di evitare la catastrofe del cambiamento climatico dovrebbe apparire come essenziale per la continuazione della civiltà umana. Quindi il movimento ambientalista ha (dovrebbe quantomeno avere) in sostanza a cuore sia l’esistenza umana sulla terra che nelle città e quanto essa poi sia sicura e soddisfacente.

Queste preoccupazioni ambientali sarebbero certamente considerate più valide se esprimessero adeguatamente anche i bisogni delle popolazioni locali. E ci sono molte riflessioni sul modo di collegare il movimento generale a quei problemi. Per esempio la giustizia ambientale che suscita molta partecipazione alle decisioni. E in modo analogo opera quel tipo di ricerca accademica che elabora conoscenza in collaborazione con le comunità locali. Ma mi convinco sempre più che questo coinvolgimento delle persone nell’elaborare obiettivi sia sempre più necessario anche per rispondere alla controffensiva sulla pianificazione della destra. Il fatto di programmare sistematicamente sviluppo e trasformazioni è certo un po’ noioso, ma resta essenziale. Idem per la cosiddetta «co-produzione di conoscenza»

Detto terra terra se quelli che ce l’hanno tanto con la Città dei Quindici Minuti si sentono campioni della libertà è solo perché la questione è stata posta malissimo: quando i costruttori e speculatori possono recitare la parte di paladini contro il «falso ambientalismo» allora non abbiamo proprio capito nulla. E se declinassimo invece il movimento ambientalista proprio sulle libertà? Libertà di scegliere un mondo con più natura, per noi e i nostri figli. Libertà di vivere senza la paura di un cambiamento climatico catastrofico, di dover pregare per due gocce di pioggia o un venticello fresco ad alleviare siccità e ondate di calore. Libertà di vivere in città vivaci abitabili sostenibili. Molti di questi sogni di libertà hanno a che fare con la difesa e il ripristino di beni comuni. La teoria economica ci insegna come il bene comune non venga adeguatamente sostenuto dal libero mercato, e abba invece bisogno di regole, norme, incentivi. Il che ci riporta all’uso della pianificazione e programmazione come strumenti di governo dell’ambiente. Ma non si tratta di una pianificazione esercitata da una élite, né di un fine a sé: solo di uno strumento di libertà per garantire beni comuni.

Un modo di pensare che ha modificato il mio lavoro di ricerca. In passato, ad esempio, per l’accessibilità ai parchi degli abitanti delle città avrei pensato a una prospettiva di servizi all’ecosistema. Quanto le persone usano il verde, quali caratteristiche dei parchi incrementano l’uso. Quanto vale quella accessibilità in termini di vantaggi alla salute, o di disponibilità a pagare per quell’accesso. Si presumeva spesso che si potesse conferire un valore alla natura, orientarne il formarsi, decidere di accrescerne l’accessibilità. Ma lavorando materialmente sulle città, ho capito quanto i gruppi più attivi ed efficaci nel diritto al verde usassero poco o nulla quel genere di informazioni quantitative. Badano invece alla giustizia, a chi può accedere al verde: quell’accesso è un diritto umano, sostengono, e tutti dovrebbero essere liberi di interagire con la natura. Una costruzione logica di grandissima presa sulle persone, che è entrata in tanto dichiarazioni internazionali sui diritti universali.

Ero stato educato in modo simile a ragionare da ecologista sugli alberi e il loro ruolo nell’abbassare le temperature, dentro quell’approccio dei servizi all’ecosistema. Quanto contribuisce la copertura arborea a mitigare le temperature di atmosfera e superfici? Quanto si riducono i tassi di mortalità e malattie indotte riducendo quelle temperature? Quale il contributo sociosanitario generale in termini di vite salvate da un punto di vista statistico? Queste le domande a cui rispondono precisamente gli studiosi dell’approccio servizi all’ecosistema. Ma la cosa che invece entra più in sintonia con le persone è l’idea di giustizia climatica, di sottrarre la comunità (meglio ancora la propria comunità) ai peggiori effetti del cambiamento climatico. Si vuole essere liberi dal rischio climatico, dal rischio di morire in una giornata troppo calda. Liberi di uscire di casa in un pomeriggio d’estate, passeggiare per strada protetti dalla frescura della copertura arborea. Questo concentrarsi sul fattore libertà ci porta naturalmente a discutere sulla giustizia, visto che quella copertura arborea risulta tanto disegualmente distribuita in tantissime città. Vogliamo vie sicure da crimine, vogliamo acqua potabile pura, vogliamo poter uscire tranquilli anche in una giornata caldissima.

Un numero crescente di persone e gruppi riflette sul tema della libertà e della giustizia, spero che divento un vero e proprio movimento. Molto interessante per esempio l’approccio di American Forests al tema tree equity, per esempio. E tanti gruppi sui vari altri aspetti della giustizia climatica, nei vari stati e trasversalmente ad essi. Da studioso dei servizi all’ecosistema sono arrivato a pensare che il futuro della natura urbana non sarà deciso da quel genere di approccio e dalla razionalità della programmazione-pianificazione. Sarà determinato invece da ciò che come abitanti delle città ci appare più urgente. E che dobbiamo considerare soprattutto come parte della nostra battaglia di libertà.

da: The Nature of Cities, settembre 2023; Titolo originale: Green Urban Planning ― Along With the Idea of Objective Truth ― Is Losing the PR Fight – Traduzione di Fabrizio Bottini

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