La company town e il mausoleo del benefattore

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Foto M. B. Style

Quando si parla di città ideali bisognerebbe sempre imparare a distinguere il come dal perché, il fine dai mezzi, o magari il classicissimo invece dall’inoltre. Così ci capiremmo tanto meglio, piantandola di costruirci ogni volta mirabolanti aspettative destinate poi immancabilmente a lasciarci con un palmo di naso, come quando spunta l’alba sulle luminarie delle feste notturne. Insomma, per giudicare queste città ideali che spuntano dappertutto da secoli, o almeno per provare a farsene un’idea decente, ci sono almeno due criteri da tener presente: chi le propone, e a cosa servono. In pratica si tratta della scissione dell’atomo conosciuto come “ideale”, no? Ideale per chi e per che cosa?

Storiella in pillole per casalinghe annoiate

Per esempio, se scindiamo l’atomo ideale di classiche pensate come l’Utopia di Tommaso Moro, o la fluttuante Laputa di Jonathan Swift, o la Pienza di Papa Piccolomini, vediamo che ne escono chiaramente ingredienti base diversissimi. Partiamo dalla materia prima essenziale che (presumo qui concordiamo tutti) sono le pietre, o volendo proprio usare l’inevitabile anglicismo moderno il brick & mortar. Queste apparentemente solidissime pietre, il materiale eterno di qualsiasi città che sopravvive in forma di macerie anche alla cosiddetta distruzione totale, una volta scisse atomicamente col nostro ragionamento critico producono: per Utopia un po’ di materia strumentale e molte buone intenzioni; per Laputa un 100% di simbologia e zero zavorra materica; ma nel caso di Pienza nonostante l’ispirazione che più religiosa non si può, abbiamo una quota di mattoni geometri e cemento da quartierino speculativo contemporaneo. Cosa ovvia, perché se il nostro obiettivo è raccontare come e dove potrebbe svilupparsi una società, un’idea, di trasformazioni materiali ex novo ne possiamo proprio fare a meno del tutto, se invece dietro all’idea di città c’è il massiccio mausoleo/contenitore della nostra idea del mondo, i bastioni di contenimento sono indispensabili e qualificanti, a volte coincidono del tutto con mondo da creare o riplasmare.

Benefattori e beneficiati?

In fondo, al modello di Pienza tutto brick & mortar, dove l’ideale al massimo si può atomicamente scindere fra mattoni e cemento, appartiene tutta la generazione moderna delle company town cosiddette del paternalismo industriale. Dove al massimo, ma proprio al massimo, possiamo applicare un coefficiente (piccolino) di moltiplicazione all’aggettivo “paternalistico” per distinguere le semplici estensioni di capannone sotto forma di città, dai mausolei per i posteri dotati di vita propria. Come nascono in fondo queste città fabbrica integrate? Dall’idea che la gente lavora meglio se sta in un ambiente più adatto al lavoro, a quel lavoro, che comprende anche l’indispensabile riposo, svago, coltivare aspirazioni collaterali non confliggenti eccetera. Ergo l’obiettivo di quella città, il suo “ideale”, è la città stessa. Solo il fatto di nascere anche come mausoleo, memoria imperitura del bel tipo che ha così pensato di allargare il capannone, consente malgré lui (malgrado il benefattore) al resto di svilupparsi, cancellandone anziché perpetuandone il ricordo.

Tre casi di scissione dell’ideale a confronto

Se prendiamo due casi storici classici di città ideale, come la New Harmony di Robert Owen e cent’anni dopo la Garden City di Ebenezer Howard, troviamo due esempi opposti della medesima miscela. Owen in fondo la sua città ideale già se l’era costruita nel villaggio industriale di New Lanark, dal punto di vista del brick & mortar annesso a macchine e capannoni, e pure con ottime potenzialità (confermate dal destino fino ai nostri giorni) di diventare mausoleo. Ma preferì privilegiare gli aspetti smaterializzati, arrivando addirittura ad attraversare l’oceano per sbarazzarsi di quell’ingombrante contenitore di pietra, per quanto intriso di aspetti “ideali”. Al contrario Howard voleva costruire il suo percorso verso la vera riforma sociale, usando il taxi del quartiere di villini annesso alla fabbrica, ma ne restò imprigionato da chi di quella riforma non sapeva proprio che farsene, ma del quartierino carino invece era innamorato da sempre. Il terzo esempio con cui vorrei chiudere, però, è dei nostri giorni: la cosiddetta Zee-Town pensata dalla coppia Mark Zuckemberg e Frank Gehry. Con le premesse dei casi esposti sopra, dovrebbe proprio saltare all’occhio che la città ideale dell’inventore di Facebook e dell’immancabile archistar, sta tutta solidamente dentro al solco affatto ideale del capannone mausoleo a celebrazione dell’eroe capitalista. Anzi con una aggravante, una specie di coefficiente di demoltiplicazione se vogliamo: tecnologia contemporanea e web ci promettono ormai da lustri ogni giorno di smaterializzare tutto quanto, salvo erbetta verde, gattini e cose così, cosa ci azzecca l’ennesimo mucchio di mattoni firmati? Non ce ne sono già fin troppi, signori Zuckemberg e Gehry? Raccontatela giusta, ci volete semplicemente rifilare l’ennesimo sogno immerso nel verde a cinque click dallo sponsor. Dove potremo anche a eterna memoria pregare per l’anima dei benefattori, pagando l’affitto o il mutuo, s’intende, è il mercato baby!

Riferimenti:

Adam Greenfield, Is Facebook’s ‘Zee Town’ more than just a Mark Zuckerberg vanity project? The Guardian, 10 marzo 2015

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