Sviluppo del territorio comprensibile anche a un giornalista

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Foto F. Bottini

Hanno inaugurato in pompa magna un’autostrada, i giornalisti vanno a sperimentarla e scoprono che non porta praticamente nessun vantaggio per spostarsi dall’origine alla destinazione. Gli alti papaveri con classicissima e storica (si direbbe strutturale in termini desueti) faccia di bronzo replicano che per forza l’ignaro cronista non coglie l’avanzamento per l’umanità di quella Grande Opera a Carico del Contribuente: è solo un segmento del Grande Disegno Territoriale, che una volta completato consentirà di scorazzare felici da un capo all’altro dell’universo, manco fossimo i protagonisti di una versione soap familiare dei classici di Douglas Adams. E i cronisti, forse troppo impegnati a prendere appunti mentre guidano, paiono non accorgersi della presa per i fondelli a cui stanno oggettivamente partecipando, quando riferiscono senza scoppiare idealmente a ridere queste enormità.

A cosa serve la strada nella mente di chi ne capisce

Una strada da che mondo è mondo non è mai servita per andare da qui a lì, anche se la si può utilizzare volendo per quel secondario scopo. Per andare da qui a lì si fanno quattro (o quarantamila) passi, magari un po’ di bracciate a nuoto se c’è di mezzo dell’acqua. Se proprio si vogliono realizzare manufatti si va dalla canoa, alla ferrovia, all’aerostato, al convertitore iperspaziale. La strada è solo una delle tantissime opzioni, e l’autostrada anche di più, visto che gli effetti negativi e incontrollabili del modello li hanno intuiti immediatamente, all’alba dell’automobilismo, tutti gli osservatori pensanti. C’è l’effetto studiato da Alessandro Schiavi (nel 1925) di scaricare attività e relativi edifici in corrispondenza di quelli che oggi chiameremmo svincoli e caselli, e c’è l’effetto indiretto di scaricare altre attività e edifici lungo tutta la striscia e le sue propaggini (studio di Benton MacKaye, 1930) fino a costruire ciò che originariamente si definiva road slum, e che gli osservatori più pudici di oggi chiamano in versione un po’ ripulita strada-vetrina. Ergo fissiamo questo principio: nella testa di chi propone la strada c’è prima di tutto l’insediamento che quella strada consentirà, chi ci passa sopra così sarà utente al tempo stesso della strada e soprattutto dell’insediamento. Vi siete mai chiesti perché non fanno in tempo a finire i lavori di una circonvallazione attesa trent’anni per alleviare il traffico in centro, e già spuntano sui due lati i cantieri dei fabbricati che nel giro di un battibaleno la renderanno quasi identica, congestionata, coi problemi di parcheggio eccetera?

Grandi disegni

Ecco, una volta accennato per sommi capi a cosa serve più o meno la strada, passiamo all’uso che se ne fa, specificamente. Ce n’è uno spontaneo, che viene così per caso, e uno più ragionato, con un’idea di futuro, che si chiama pianificazione. Ad esempio da mezzo secolo la pianificazione delle autostrade ipotizza anche che (secondo il modello originariamente previsto da Alessandro Schiavi nel 1925) in corrispondenza di svincoli e caselli si collochino dei cosiddetti poli di sviluppo. Ho investito soldi e aspettative in questa infrastruttura e reso molto accessibile quel posto, e quindi attorno allo svincolo/interfaccia tra la strada e il territorio metto tutto quello che è utile raggiungere, che è utile collegare in rete. Ma c’è anche l’altro aspetto parassitario, quello del road slum di Benton MacKaye, di organismi assai meno logicamente aggrappati qui e là lungo l’asta stradale, magari lungo le arterie secondarie tra uno svincolo e l’altro. Quella cosa che i critici chiamano sprawl, e pudicamente quanto in malafede i suoi promotori definiscono sviluppo, o pubblicitariamente anche città diffusa, città infinita, a far finta di spalmare qualità, invece che degrado. Degrado non perché sia brutto, ma perché come sappiamo da sempre danneggia l’ambiente, le colture agricole, inquina l’aria e l’acqua, dulcis in fundo distrugge paesaggi, ma questo forse è l’ultimo dei problemi.

Alternative

Ma invece pare proprio la distruzione dei paesaggi ad essere sempre messa in primo piano dagli oppositori: forse per cercare più facili consensi, forse proprio per scarsa consapevolezza del grande disegno. Si finisce così per perdere di vista il vero piano sotteso agli interventi degli speculatori: usare l’effetto Schiavi per provocare l’effetto MacKaye, salvo successivamente promuovere gli interventi cosiddetti di rammendo, giusto per usare uno sciagurato neologismo poco meditato e mal interpretato del senatore Renzo Piano. Se andiamo oltre l’obliterazione dei paesaggi locali, e alziamo un po’ lo sguardo sul territorio nel suo insieme, questo disegno appare abbastanza chiaro: le strade di grande importanza sono sempre organizzate per anelli, al centro dei quali stanno le forti concentrazioni di ricchezza, e ogni anello successivo è una tappa per accrescere per allargare sul territorio questa ricchezza, fatta di valori immobiliari. Le altre forme di ricchezza non sono contemplate, in questo schema per cerchi concentrici: ambiente, abitabilità, neppure efficienza contano, di fronte all’unico obiettivo di “urbanizzare” ovvero accrescere il prezzo medio di mercato del metro quadro, in un modo o nell’altro. In una certa fase del XX secolo si sono tentate alternative a questo modello a cerchi concentrici di autostrade che serve solo a costruire una colmata urbana. Quella forse più famosa in Italia è lo schema detto a “turbina” proposto dalle forze di sinistra per il Piano Intercomunale Milanese, e che aveva come modello (tipico della tradizione europea migliore) da un lato una crescita regionale per concentrazioni locali urbane, in corrispondenza di nodi infrastrutturali, dall’altro la tutela del sistema ambientale e delle grandi reti naturali, del tutto ignorato dall’approccio edilizio/autostradale per anelli. Dal conflitto fra due visioni alternative del mondo, uscì vincitrice quella che sembrava una soluzione di compromesso.

Oggi: la guerra fratricida strisciante

Non era una soluzione di compromesso, perché di fatto cessava di esistere l’unico strumento possibile di regolazione, ovvero quel piano generale che consentiva al tempo stesso di evidenziare (anche per i giornalisti, quando è il caso) la realtà delle scelte, e di scegliere via via tra varie opzioni i necessari tasselli a comporlo. L’unico piano o schema generale rimasto in vita è così quello autostradale, opzione Schiavi + opzione MacKaye, con i suoi cerchi concentrici, le bretelle di collegamento radiali, e le colmate urbane a colpi di Polo di Eccellenza A B C eccetera, via via denominati secondo il settore più opportuno o buono a fare immagine, dalla salute alla produzione alla residenza immersa nell’improbabile verde di qualche giardiniere di importazione. Assenza e sconfitta del grande piano generale significa anche trionfo generalizzato di un approccio nimby localista, verificabile soprattutto nelle forme di opposizione parziali, settoriali, mai di sistema. Al punto che spesso sono proprio i protagonisti diretti della colmata urbana, quelli che sono andati a colonizzare come pionieri un anello concentrico, a fare muro perché non si compia quella parte di disegno. Hanno investito i risparmi di una vita nella casetta girata verso un campo vuoto, da sempre e coerentemente destinato all’edificazione, ma convinti che invece quel posto fosse “campagna”. Poveracci. Ma poveracci soprattutto perché nessuno li ha avvertiti. Come a quanto pare nessuno ha avvertito quanti inauguravano ieri la Bre.Be.Mi.: non serve per andare da Brescia all’Expo, tontacchioni! Serve per convogliare qui altre generazioni di coloni della nuova frontiera suburbana, a cui far subire prima o poi il medesimo destino degli altri che si sono fidati di voi per farsi informare.

Riferimenti:

Alessandro Schiavi, Le autostrade e l’urbanesimo (La Casa, giugno 1925)

Benton MacKaye, L’autostrada senza città (The New Republic, marzo 1930) 

Fabrizio Bottini, Piano Intercomunale Milanese: Antologia e allegati, Eddyburg Archivio / Pagine di Storia, 2007 

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