La metropoli della promiscuità etnica e della paura? Ridicolo

Chi guarda le cose da lontano e da fuori, può oggettivamente costruirsene una immagine diciamo così neutra, priva di alcuni condizionamenti dello sguardo ravvicinato e della identificazione personale. La distanza o estraneità impediscono però di cogliere alcuni aspetti a volte fondamentali per costruirsi un’idea davvero realistica, anche se certo consentono approfondimenti parziali, esattamente come con tutto ciò che viene estrapolato dal contesto per alcune analisi. Accade con la qualità urbana, soggetto certamente segmentabile ed esaminabile per parti, salvo poi non coglierne il mix inequivocabile che costituisce l’identità locale, e accade con quell’aspetto tanto in voga ai nostri tempi che è la cosiddetta «sicurezza». Cosiddetta proprio perché nel caso specifico le cose sono tanto mescolate e contraddittorie da aver fatto diventare di uso corrente quel modo di dire, «sicurezza percepita», che sarebbe del tutto surreale utilizzare per altre cose, salvo forse la temperatura. Quindi come accade di norma con tutte le sperimentazioni e approfondimenti «di laboratorio», anche con la sicurezza la prospettiva migliore di osservazione e adozione di politiche sarebbe quella mista, esterna e soggettiva, e ogni cosa a vari livelli.

La prospettiva suburbana

Per comprendere dove si può andare a finire imboccando una strada sola, basta vedere il percorso della cosiddetta teoria della finestra rotta: partita come riflessione esterna e lontana (è un approccio psicologico interno alle forze di polizia), si è tradotta di fatto in una gestione prevalentemente militare, e poi immobiliarista, della riqualificazione urbana e delle politiche sociali e di ordine pubblico, spesso provocando più problemi generali di quanti non ne abbia puntualmente risolti. E anche qui si tratta di varie prospettive interne ed esterne che non si mescolano, a partire appunto da quella specialistica della polizia, e poi lo sfruttamento politico di una certa percezione sociale pure esterna (chi non abita in certi quartieri), senza mai tenere in conto tutt’altre «percezioni», solo perché non faceva comodo. Un altro punto di vista esterno è quello, abbastanza classico, suburbano contro urbano, ovvero di chi si è costruito una specie di universo ideale privatizzato artificioso, e non tollera contraddizioni: la sua insicurezza quando queste contraddizioni è costretto a incrociarle, frequentando ad esempio per lavoro altri diversi ambienti, è del tutto soggettiva e priva di fondamenti. Persone che ad esempio non abituate a convivere con certi comportamenti e atteggiamenti, specie se tali da modificare in parte anche gli spazi dei quartieri, li considerano minacciosi per un proprio soggettivo «ordine costituito».

La verifica sperimentale

Inutile proporre qui una casistica, perché gli esempi sono infiniti: l’immagine della povertà (nelle persone, negli edifici, in altri dettagli) considerata da chi povero non è come una minaccia, forme di interazione sociale, al limite toni di voce, inusuali e per questo allarmanti, stili di vita molto diversi da proprio e che sono percepiti come una sorta di sfida alla civiltà per pura incapacità a comprenderli. Ma, anche al netto della diffusione di sensibilità simili, determinate da una più o meno consapevole scelta di vita e residenza, per esempio usare sempre l’auto privata e mai camminare o prendere i mezzi pubblici, un atteggiamento politico non partigiano e opportunista già da solo indicherebbe l’azione più adeguata: contrapporre a questa vaga «insicurezza percepita» il dato reale delle informazioni. Ovvero se, in che misura, dove e come, i segnali colti da una sensibilità esterna indicano davvero forme di trasgressione all’ordine costituito, e soprattutto se questa trasgressione contraddice regole di convivenza accettabili. Quando per esempio il dato rilevato dei reati (o di altri tipi di degrado urbano minore) contro la persona e il patrimonio delinea scenari diversi da quelli dipinti dai timori istintivi di qualcuno, sarebbe il caso di «governarlo». Informare tutti, ed eventualmente adottare politiche diverse da quelle del ferro e fuoco tanto amata della destra ideologica. Oggi le cosiddette città santuario provano a adottare questo genere di forma locale della politica, addirittura in contraddizione ad altra mala-politica, sul tema immigrati, provando a rassicurare il cittadino e il suo rappresentante eletto almeno su un punto: non c’è da temere in modo particolare chi ha una pelle diversa, o parla una lingua diversa. Forse è più pericoloso quel signore elegante a cui abbiamo affidato  con mal riposta fiducia il nostro pacchetto titoli.

Riferimenti:
Lauren Carasik, Who do sanctuary cities protect? Boston Review, marzo 2017

Commenti

commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.