La pianificazione dopo la tempesta

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Foto F. Bottini

Durante le burrasche, quando il bastimento è scosso dai marosi e rischia di inabissarsi da un momento all’altro, si fanno le leggendarie promesse da marinaio. Succede la medesima cosa anche quando a scuotere inesorabilmente il mondo così come lo conosciamo ci sono altri tipi di intemperie, dagli analoghi eventi climatici estremi che mandano sott’acqua le nostre città e territori, come se fossero bastimenti costruiti senza la necessaria cura, allo stesso modello di sviluppo da cui quelle città di cartapesta sono spuntate come funghi. Niente di più chiaro, da questo punto di vista, di tutte le periferie territoriali lasciate a sé stesse, che siano gli ex quartieri operai dove, evaporato il ciclo industriale locale, manca qualunque forma di integrazione e abitabilità, oppure gli insediamenti improvvisati vittima di catastrofi naturali colpevolmente non previste, oppure quei mozziconi di città stroncati sul nascere proprio dalla crisi economica di questo scorcio di secolo.

The New Regional Town

Casi diversissimi, quello della classica periferia urbana ex industriale o del territorio della dispersione, che però hanno in comune un medesimo problema di integrazione al centro urbano cui fanno riferimento. Tutto si riduce, se così si può dire, a riequilibri centro-periferia, o città-campagna. E in effetti hanno questo, in comune, le rivolte dei quartieri popolari di banlieu, le crisi sociali di rigetto della diversità nel suburbio, la povertà che striscia nelle fasce esterne della dispersione, o il dissesto idrogeologico indotto in queste medesime fasce che cercano invano uno sviluppo locale a colpi di urbanizzazioni, seconde case, parcheggi, zone industriali destinate a rimanere spesso vuote. Ovvero stabilire nuovi ruoli per parti di un tutto, dopo che questo tutto è cambiato radicalmente. La dimensione territoriale di questi sistemi in fondo non è molto cambiata dall’esplosione suburbana di metà ‘900 che fissò definitivamente le città-regione già individuate dai geografi nel periodo tra le due guerre mondiali. Quello che cambia oggi, però, con l’urbanizzazione galoppante, le crisi ambientale ed energetica, l’innovazione nelle comunicazioni, è il tipo di equilibrio da ricercare in questa città-regione.

L’urbanistica di aspirazione e compressione

Alcuni pianificatori interessati in modo particolare ai nuclei in crisi industriale hanno individuato lo slogan della cosiddetta shrinking city, forse accattivante ma che in fondo vale soltanto come punto di partenza, e proprio per quei soli centri che già si sono ristretti socio-economicamente per conto proprio. Quindi tanto vale seguire l’onda, e aspirare tutte le infrastrutture obsolete e inutili, ripristinando sistemi locali più aperti. Ma in questi e altri casi rimane aperto il problema del resto dell’area regionale: dove si cresce e dove no? Rispondere col mito della cosiddetta decrescita, almeno quando si parla di territorio, ha pochissimo senso oltre la dimensione urbana o poco più. Resta, in senso lato, il cosiddetto urban retrofitting, ovvero riorganizzazione spaziale profonda, accompagnata da un attento monitoraggio dei bisogni sociali e degli impatti ambientali (a scala regionale, si badi bene), per cui se un nucleo urbano denso ha ottime ragioni per essere ulteriormente densificato, lo stesso non può valere acriticamente per la sua fascia suburbana, se essa ad esempio interessa bacini idrografici sottoposti a eventi di flash flood o simili. Al tempo stesso, il retrofitting sta automaticamente a significare densificazione edilizia e trasformazione urbana anche sgradita ad alcune fasce di abitanti, quelli che comportandosi da nimby si credono invece virtuosi progressisti difensori dell’ambiente. Non lo sono: ogni azione o atteggiamento deve essere valutato alla scala del bacino naturale/urbano di riferimento.

Riferimenti:

Alana Semuels, The Unfinished Suburbs of America, The Atlantic, 14 novembre 2014

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