Urbanistica dallo spazio profondo

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Foto M.B. Style

Tutti ci ricordiamo alcune delle scene più spettacolari del primo film lungometraggio di Star Trek, quelle in cui il cielo si riempie dell’immensità e complessità di una cosa misteriosa chiamata Vigger. L’astronave Enterprise entra nel ventre di questa immensità, solo per scoprire alla fine del lungo viaggio, che quel Vigger altro non è che la nostra sonda Voyager col nome un pochino distorto, tornata per così dire arricchita dal suo vagare nello spazio profondo, e dotata ormai di propria identità, assai diversa da quella originaria. Oggi qualcosa del genere sta succedendo con l’urbanistica, e i progetti di trasformazione della città in genere: tanti anni fa abbiamo lanciato una sonda chiamata landscape planning verso gli spazi infiniti del suburbio e del libero mercato, e adesso lei ci torna a casa completamente trasformata. L’unica vera differenza con Vigger, è che nel frattempo non ha cambiato nome, e questo ci confonde parecchio sulle sue vere evoluzioni.

Dal parco urbano al parco urbano

Come è andato questo viaggio in fondo lo sappiamo un po’ tutti. In principio c’era la casta dei nobili coi loro architetti di fiducia, che attorno al castello o villa gli progettavano un bel parco formale o naturalistico. Poi, dopo l’industrializzazione e l’esplosione demografica urbana, questi spazi verdi circondati dalle case venivano ripensati come polmoni di sfogo per il bisogno di natura e respiro della popolazione, di tutta la popolazione. A New York, un gruppo di intellettuali e tecnici faceva qualcosa di più, promuovendo la creazione di un grande parco urbano prima ancora che la città arrivasse fisicamente a circondare la zona, formalmente già ritagliata dalle streets e avenues ortogonali del piano stradale 1811. Nasceva la landscape architetcure moderna, con F.L. Olmsted e C. Vaux a progettare dentro quello spazio sottratto all’urbanizzazione una specie di via di mezzo fra natura e città, in cui le due cose convivevano, o provavano a convivere. Quel tipo di progettazione diventò in seguito la base per i cosiddetti quartieri giardino, evoluti (o involuti, a seconda dei giudizi) nel suburbio cul-de-sac, o nelle fasce di interposizione autostradale, commerciale, industriale. Ma in tempi abbastanza recenti, insieme alla crisi dell’idea di crescita territoriale continua, molte delle culture suburbane cercano un proprio spazio in città. Succede con gli scatoloni della grande distribuzione, ma succede anche con questa ormai transustanziata idea di parco, che non è più natura in città, ma città sovrapposta alla natura, una cosa diversa e opposta.

Tracciamo una linea chiara

Si stava iniziando seriamente a parlare, nel mondo della progettazione urbana, dei cosiddetti pocket parks, ovvero espedienti per allargare e migliorare lo spazio pubblico là dove non esistono altre possibilità. Nulla più di interventi di arredo e gestione locale del traffico, ma cose preziose se organizzate in rete e partecipate. Poi ha fatto irruzione nel dibattito il caso High-Line di Manhattan. Niente di male in sé, visto che sembrava allargare il concetto di pocket park a uno spazio più ampio e al recupero di una infrastruttura dismessa, ma ci si è messa di mezzo la gran confusione terminologica di cui sopra: concettualmente non un parco accessorio in più, ma un parco invece; non un interessante grande progetto di arredo a verde dentro un piano assai più complesso di valorizzazione immobiliare (di quello ci sarebbe da parlare: è gentrification pura), ma un vero e proprio parco. Adesso col medesimo criterio, e da parte dei medesimi operatori, si lancia anche qualcosa di più grosso e ambizioso, il recupero dell’area Pier 55 sulla sponda del fiume Hudson realizzando alcuni ettari di verde artificiale posati su piloni. Ingegneristicamente interessante, di sicuro si migliorerà l’area, arricchendola di un ambiente di valore, ma sia un parco che una operazione urbanistica sono altro. Come si capisce dando un’occhiata anche rapida al piano cittadino per la riqualificazione della fascia di sponda, che è vigente da oltre vent’anni. Insomma chiariamo i termini.

Riferimenti:

City of New York, Plan For The Manhattan Waterfront (1993)

Charles V. Bagli, Robert Pogrebin, With Bold Park Plan, Mogul Hopes to Leave Mark on New York’s West Side, The New York Times, 17 novembre 2014

 

Hudson River Park Trust

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