Lo sprawl precario del terzo millennio

cinisello36

Foto J. B. Gatherer

C’era una volta la Nuova Frontiera, quella spietata ma autentica che affiancava crescita infinita e mobilità sociale verso l’alto. Con un ruolo di primo piano di quello che il sociologo William H. Whyte definiva nel suo libro campione di vendita mondiale L’Uomo dell’Organizzazione. Vere e proprie tribù nomadi, impiegati e manager delle grandi imprese erano la punta di diamante di un nuovo stile di vita suburbano che alla comunità urbana classica sostituiva una specie di prolungamento dell’azienda nel territorio. La strana capsula spaziale dove viaggiava la nuova stirpe dell’avanguardia sociale, era il nuovo suburbio automobilistico seriale, prodotto e gestito ad hoc da altri innovativi imprenditori sul territorio: schiere di villette unifamiliari in affitto pronte al rapidissimo ricambio di inquilini, dove si formavano e scioglievano turbinosamente amicizie così come avviene nei corridoi degli uffici o all’angolo caffè. Avete letto bene, non c’è un errore di copia-incolla: affitto, quelle casette originarie degli anni ’40-’50 prima del white flight di massa successivo, erano in affitto, in pratica con tutte le eccezioni e distinguo assai simili a un residence, coi servizi gestiti però dalla premurosa mogliettina della segregazione di genere industriale.

Proprietà e stabilità

Venne poi il mitico dispiegarsi in pieno del modello proprietario-consumista di massa legato all’auto: una casetta, una famiglia, qualche mezzo meccanico, tanti elettrodomestici in casa, e poi lo shopping mall, il centro fai da te giardino, la stazione di servizio multiuso allo svincolo, eccetera eccetera. Restava la grande mobilità della manodopera che vuole far carriera, o semplicemente ormai conservare uno straccio di possibilità, ma tutti dovevano farsi carico dell’ideologia conservatrice, una specie di world-sharing coatto a carico dei singoli redditi. Tutto avveniva spinto anche dall’altro motore propagandistico, quello dell’immagine della città come luogo del degrado, del pericolo, del grigiore esistenziale. Città dove chissà perché un sacco di attività di punta, private e pubbliche, continuavano a prosperare, prime fra tutte quelle culturali e di ricerca, ma che i media dipingevano a tinte che definire fosche è poco, come testimoniano intere serie di film urbano-catastrofici. La nazione di proprietari zoccolo duro dell’establishment politico-industriale continuava però ad allargarsi e a riprodursi, con quell’immaginario addirittura localista delle artificiali radici diventate naturali, ben riassunte dalle avventure nel tempo di Marty McFly su e giù tra un passato remoto e un futuro lontano, ma pur sempre immersi nel verde del suburbio e delle colonie familiari. Ma c’erano in agguato i figli scapestrati, i cosiddetti Millennials, con la loro eversiva (almeno per il mercato dominante) voglia di ambienti cittadini, di complessità, di vita non appiattita nei cicli produzione-riproduzione.

Comunque sia, ti devo vendere qualcosa

Per questi giovani delle professioni creative e della vita familiare non ortodossa, è rinato il settore della casa in affitto, a riprodurre nei nuclei densi e multiuso riqualificati delle città centrali, qualcosa di simile all’antico residence prolungamento suburbano dell’azienda descritto mezzo secolo prima da William H. Whyte. Certo oggi né le aziende, né le città, né la mobilità sociale sono più quelli di un tempo, ma non è cambiato affatto il viziaccio di provare a estendere peggiorato il modello alle masse. Complice la crisi economica che imperversa dal 2008, complici anche i pignoramenti e gli sgomberi degli ex aspiranti proprietari di villetta suburbana o esurbana, oggi si vorrebbe a quanto pare estendere il mercato dell’affitto e il suo modus operandi relativamente ricattatorio allo sprawl e alla tipologia unifamiliare. Perché è indubbiamente molto più lucroso, invece di lasciar sfruttare a tutti gli infiniti vantaggi – monetari, ambientali, sociali – della sharing economy metropolitana, continuare a vendere in modo parcellizzato ogni atomo di sistema abitativo, anche se il vecchio modello della dispersione consumista pare davvero alla frutta. Il ricatto però funziona, se la forza del mercato riesce comunque a inventarsi qualunque trucchetto, ivi compresa l’eternità dello slogan drive till you qualify, esteso alla casa in affitto anziché in vendita. Alla faccia dei proletari che avrebbero da perdere solo le loro catene, quelle di montaggio.

Riferimenti:
New York University Furman Center, Capital One, Affordable Rental Housing Landscape 2016

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