Localismo straccione e nuovi orizzonti metropolitani sostenibili

bonetti_capannoni

foto J. B. Hunter

Come ci raccontano quasi ogni giorno le cronache c’è un partito internazionale e trasversale con radici smisurate che affondano nel territorio, lo pervadono e ne sono pervase in una specie di simbiosi, orgasmo reciproco eterno. Un partito i cui rappresentanti nelle istituzioni e nei gangli economici fanno del localismo un dogma, uno stile di vita, dell’identità specifica il cibo del corpo e dell’anima, della incarnazione diretta delle esigenze del luogo un istinto.  Il concetto impazza ovunque, anche con certe improbabili specificità inventate a tavolino, vuoi dalle agenzie turistiche, vuoi dai candidati della destra, vuoi da quella sinistra che scrutando nelle tenebre dell’antichità ideologica si vuole più rossa che verde. In quella sedicente sinistra sedicente progressista, non si scherza a tirar su quando serve immaginari confini, barriere culturali contro il mondo brutto e cattivo, a rilanciare arcadiche autarchie ruraliste. Magari all’inseguimento di cose come il movimento Transition Town, non a caso attentissimo a ribadire la propria collocazione esterna agli schieramenti. Poi ci sono le statistiche, che magari è vero non raccontano tutto, ma tanto lo dicono.

Tempo fa il mensile Money, perfettamente in linea con le ideologie del localismo imperante, compilava un elenco dei «100 posti migliori per abitare d’America». Conformista fino allo spasimo, probabilmente la direzione consigliava ai suoi rilevatori incaricati di dare un’occhiata di riguardo, per quanto ufficiosa, anche a cose come il tasso medio di capelli biondi e occhi azzurri, o il rapporto fra numero di abitanti e chilometri di steccato bianco. Perché di quei cento posti migliori, alla fine si sottolineava la somiglianza al mito eterno della piccola comunità tradizionale (da parecchi decenni esistente solo nelle simulazioni tipo Disneyland), riprodotta con qualche forzatura nelle fasce suburbane e esurbane delle grandi metropoli.

Eh si, quella è la chiave di lettura prosaicamente realista: grandi metropoli, altro che piccoli centri, se non fosse per il trucco della circoscrizione comunale. Ci si chiama Willow Springs o Santa Maria, ma nelle inserzioni immobiliari c’è scritto Nord Chicago o sud-est Milano, anche se con l’optional della fattoria ancora attiva e latte appena munto, e il poco optional della coda in tangenziale per sei svincoli e passa tutte le mattine. Non si tratta di una boutade, ma di un riscontro scientifico sistematico. Due prestigiosi studiosi americani, ovvero Bruce Katz e Owen Washburn, sono andati pokeristicamente «a vedere» i dati di quella classifica di Money, e ne hanno fornito una analisi obiettiva in una nota per la loro Brooking Institution, la cui tesi in breve si riassume con: i piccoli centri di elevata qualità socioeconomica e dell’abitare sono in realtà quartieri metropolitani, a volte anche molto decentrati e classificabili quindi come esurbi (categoria statistica ben definita), ma lasciamo perdere per favore la retorica della specificità, almeno oltre qualche lodevole elemento di paesaggio, l’aria buona e via dicendo.

Del resto anche il buon senso dovrebbe parlare abbastanza chiaro: là dove il mitico territorio locale è soltanto lo sfondo delle ore di tempo non dedicate al lavoro o alla fruizione di servizi indispensabili (commercio istruzione cultura ecc.), siamo in un contesto metropolitano. Tra l’altro di solito anche l’organizzazione spaziale ribadisce questa situazione, salvo rari casi di esurbio davvero isolato e con tempi di pendolarismo estremi, superiori alle due ore. Quindi in realtà chi parla di sviluppo locale spesso (non proprio sempre, per carità) confonde le idee, a sé e agli altri.
A maggior ragione non la racconta giusta neppure chi vede nell’improbabile recupero di valori tradizionali, di mestieri abitudini e stili di vita, una chiave per rispondere alla crisi della città così come la conosciamo oggi. C’è sempre da chiarire almeno un aspetto del famoso dato aggregato sul 50% della popolazione «urbana»: cosa significa in termini socioeconomici territoriali e dove vogliamo andare a parare.

Molti centri studi che potrebbero in realtà fare assai meglio, spessissimo per partito preso sorvolano sugli aspetti che non toccano direttamente lo sviluppo economico o l’integrazione sociale ed etnica ad esempio, lasciando in sospeso certi elementi di forma insediativa che invece la differenza la fanno eccome. E che sono appunto l’articolarsi per tre sistemi (per nulla complementari, al momento) delle grandi e classiche da mezzo secolo, regioni urbane: la città compatta, il suburbio, la fascia esurbana. Ci sono poi altre significative differenze anche all’interno delle tre categorie e/o declinazioni «locali», come le specializzazioni funzionali, certe tendenze indotte da norme o consuetudini, ma proviamo a immaginarceli per semplicità allo stato puro.

La città compatta di medio grandi dimensioni contiene più o meno tutte le gerarchie residenziali, produttive, direzionali, di servizio, magari articolate su più poli; poi c’è il suburbio diciamo di fascia interna o prossima, a prevalenza di nuovo insediamento residenziale a densità medio-bassa, a volte innestato su nuclei preesistenti che gli danno giusto il nome, e qualche parvenza di storia locale; infine l’esurbio che assomiglia tanto alla campagna con un po’ troppe case in mezzo, e da dove guarda caso una enorme percentuale degli occupati (e degli studenti) ogni mattina si muove verso la città centrale. Ciò premesso: cosa vuol dire identità locale, radici nel territorio, nella storia, nella tradizione ecc?

Lo spunto è uno dei primissimi studi sociologici territoriali sul tema, ovvero l’enorme lavoro anni ’20, all’alba dell’automobilismo di massa, di Roderick McKenzie sulla Comunità Metropolitana. Le cui conclusioni identitarie alla fine individuavano proprio le tre fasce del centro, della periferia dell’estremo lembo urbano-rurale incorporato alla metropoli come portatrici di valori condivisi, a cui gli abitanti attingevano. Naturalmente per chi vuole riconoscersi. Un immaginario complesso, ma che dovrebbe apparire abbastanza ovvio ad esempio a chi, “emigrato” per qualche motivo dalla città centrale in una delle due fasce più esterne, riesce senza traumi a vivere con disinvoltura entrambe le realtà. Forse è utile oggi, ribadire questa complementarità di spazi, culture, storie e tradizioni, nel momento in cui si affaccia nell’era della città cosiddetta post-industriale o post-petrolifera la riflessione su temi come la mobilità dolce, o l’agricoltura urbana, col loro inevitabile richiamo a un passato prossimo che per molti è ancora un vivacissimo presente.

La produzione locale di alimenti anche nelle zone densamente popolate e con relativamente scarse disponibilità di superfici coltivabili, ha infatti da tempo suscitato enormi aspettative, ivi comprese quelle di certo localismo (inteso come filosofia di sviluppo, programmi politici) fuori tempo massimo. Che il problema sia assolutamente all’ordine del giorno lo sanno benissimo tutti coloro che sanno fare due più due, ovvero nel caso specifico mettere fianco a fianco una manciatina di articoli di giornali sul classico problema alimentare mondiale, e un’altra manciatina sul famoso superamento della soglia del 50% di popolazione globale urbana. Si aggiunga la questione ambientale, climatica, energetica, e magicamente spunta dal cappello l’agricoltura di prossimità. Che come le aree urbane richiede di essere adeguatamente definita, dal punto di vista spaziale, sociale, economico, e anche dell’immaginario.

Su tema della sostenibilità e autonomia alimentare urbana, ad esempio abbiamo letto spesso di arzilli vecchietti o mamme iperattive che si arrampicano ogni giorno sul tetto di casa a curare i pomodori, o di guru dell’alta tecnologia in collaborazione con archistar e immobiliaristi, che sognano una specie di versione agricola del grattacielo urbano gestito dalla grande corporation; o infine degli esperimenti di riuso sociale con orti o idroponia dei contenitori dismessi, da Detroit a Torino. Quanto poi incida davvero, questo tipo di produzione, sul totale consumi e trasporti a lunga distanza, non è dato di sapere. Quella che invece ci travolge è la retorica sul ritorno al bel tempo andato, quando i mulini erano bianchi e i veri Valori imperavano. E qui, vorrei ricordare, che nel bel tempo antico i contadini erano analfabeti e campavano in media una quarantina d’anni.

Quindi bel tempo andato no di sicuro. Certo se ne è andato, e il bello sta forse nel fatto che resiste nella memoria, e lo si può attualizzare, recuperare in una prospettiva futura, dove la nostalgia funziona al massimo da carburante. Se torniamo ai sistemi metropolitani articolati su tre fasce, forse anche nella prospettiva di una futura agricoltura a chilometri zero se ne comprende meglio la logica integrata, e perché uscire dal localismo ideologico non può far altro che bene.

C’è la città centrale, con la sua identità classicamente industriale, da ambiente denso, pure troppo dicono alcuni. Qui (come di fatto succede nella realtà) l’agricoltura urbana inizia come attività residuale e di ritorno, a partire dagli orti e terrazzi che ci sono sempre stati, e che oggi assumono ruolo nuovo, diverso, grazie a progressi tecnologici e organizzativi. La questione non è di «ruralizzare» la città come si vagheggiava negli anni ’30 in funzione antioperaia, ma di individuare un nuovo ruolo per la natura e la produzione (anche di identità) nelle aree metropolitane centrali. Ci sono i cosiddetti tetti verdi, le tecnologie hard e quelle un pochino più soft, l’approccio puramente economico e quello più attento agli aspetti sociali e di inclusione. C’è infine il rapporto con altri aspetti del metabolismo metropolitano: dalla distribuzione commerciale, alla mobilità: qui l’agricoltura come ci entra? Ecco, affrontare in modo non frammentario questi aspetti è già una sfida gigantesca. Altro che pensare sognando chissà cosa (come fanno certi politici di destra) a una città che smette di essere urbana, per diventare un villaggio di tizi un po’ stupidotti e creduloni che vanno in giro in bicicletta con la zappa.

Un aspetto potenzialmente interessante è quello delineato dalla cultura dei cosiddetti localovori, ivi comprese tendenze anche estreme come i neo-raccoglitori, ormai organizzati in gruppi e con tanto di rubriche fisse sui giornali. Che se possibile mette ancor più in risalto la schizofrenia di certe identità locali. Da un lato il rifiuto ideologico della città, col naso perennemente ficcato nelle crepe di qualche marciapiede alla ricerca dell’insalatina coriacea ma non necessariamente velenosa, o arrampicati sul platano dei giardinetti alla ricerca della muffa che poi fa fermentare l’aceto di vite selvatica raccolta nella fabbrica abbandonata … D’altro canto, proprio i medesimi vagabondaggi e sperimentazioni alimentari sottolineano la straordinaria capacità della natura e della città di convivere, specie se si riescono a comprendere meglio i tipi di simbiosi e complementarità governabili e prevedibili. Trasferire la campagna in città diventa così solo un modo di dire: niente trattori fra i grattacieli, o trebbiature del grano sul piazzale della stazione, ma introduzione di un sistema integrato dove sia possibile ricostruire le cosiddette «infrastrutture verdi», che sono cosa assai diversa dalla ricca famiglia di cose (raggi, percorsi, sopraelevate …) che con l’aggiunta dell’aggettivo «verde» ci propongono tanti progettisti di tradizionalissime pedonalizzazioni, piste ciclabili, arredi.

Aspetti che purtroppo spesso restano confinati agli articoli di colore o sulle riviste scientifiche, dalla neofauna urbana di volpi, nutrie, grossi uccelli, coyote, a cose molto più piccole ma essenziali per le reti naturali come i funghi, anche specie sconosciute ma commestibili. E che a maggior ragione introducono il rapporto diretto e integrato con le fasce esterne, suburbana ed esurbana, da cui di solito provengono gli «intrusi». La medesima logica innovativa andrebbe applicata, in controtendenza rispetto a certe formulette schematiche elaborate dalla cultura architettonica e urbanistica negli ultimi anni, quelle che riassumono tutto in aumento delle densità, introduzione di attività economiche e servizi. Cose certamente interessanti per i costruttori, che poi daranno lavoro ai progettisti più creativi, o per quei sindaci che si sono letti qualche paragrafo di Richard Florida, scambiandolo per un manuale di ricette buone per qualsiasi sviluppo locale. Ma l’aggettivo «locale» oggi, si deve sempre declinare innanzitutto in rapporto alla collocazione metropolitana: se sto in un suburbio a bassa densità, forse è meglio non dimenticarselo.

Non dimenticarselo se si tratta di ripensare il sistema alimentare, della mobilità, della produzione di reddito e dell’identità. Il suburbio nasce dalla spinta alla ricerca di spazi privati più ampi, e il mercato per un paio di generazioni ha prodotto quello sprawl che conosciamo. Prendere a calci nel sedere l’identità vorrebbe dire ignorare questa storia, per quanto non millenaria. Perché non pensare invece al suburbio come spazio ideale di densità edificate intermedie, dove esiste a volte anche qualche tradizione rurale ancora viva, per sviluppare programmi di km0 integrati a più ampio respiro? A differenza del fitto ambiente urbano, con le sue superfici dismesse spesso da bonificare radicalmente per qualunque uso non edilizio, il suburbio è ricco di superfici libere, che sarebbero sprecate in una logica di automatico infill, e anche nell’assimilazione a classici ambiti verdi di carattere urbano centrale. Lo stesso vale dal punto di vista socioeconomico per l’introduzione di attività produttive e di servizio: se ne deve auspicare una urbanizzazione indifferenziata che scimmiotti quanto già avvenuto nel nucleo principale, oppure ci sono altre possibilità?

Infine l’esurbio. Qui probabilmente la sfida è più tecnologica e organizzativa che altro. Della città centrale queste aree hanno spesso assunto solo tempi e modi di vita, affiancandoli a spazi e sistemi economici caratteristici del rurale. Ancor più che col suburbio, qui l’idea di trasformare la città dispersa in città tout court pare davvero demenziale (anche se pubblicamente coltivata e promossa come luminoso futuro di ricchezza, ad esempio nel caso degli insediamenti di seconde case sulle coste e in zone montane). Se di urbanizzazione possiamo legittimamente parlare, dovrà trattarsi di una effettiva metropolizzazione dell’identità e degli stili di vita e aspettative, parallela al rafforzarsi del radicamento delle attività economiche metropolitane ….. prime fra tutte l’agricoltura di prossimità e la conservazione delle risorse naturali. Unica vittima, ahimè per lui e per chi ci campa inopinatamente sopra, sarebbe il localismo ruralista ideologico aggrappato a un’idea arcaica di spazio, dove il rapporto con la terra era davvero esclusivo, prima per motivi di scarsa mobilità fisica, negli anni più recenti soprattutto per rigidità culturale, pur accuratamente coltivata.

La cosa certa è che la città occidentale, probabilmente perduto il primato della crescita economica, farebbe malissimo a suicidarsi inseguendo il nuovo mito della megalopoli liberista dei paesi neoricchi spesso sventolato da qualcuno. Se una risorsa fondamentale abbiamo, è proprio la nostra tradizione locale, non intesa come sguardo rivolto a un passato da cartolina, ma ben ancorata al presente e proiettata verso il futuro. A partire dalla constatazione che la scomparsa della campagna come luogo dell’arretratezza non deve significare il suo tramonto dietro un muro di cemento di solito inutile. La metropoli moderna è tale proprio in quanto comprende sia l’idea di città consolidata che altre forme «civili», ivi comprese quelle dell’agricoltura e della natura. Gli spacciatori in malafede dello sprawl infinito scambiato per urbanizzazione moderna, giocano invece al ribasso sull’equivoco. Conta sempre di più la nostra capacità di capire cosa significhi, nel terzo millennio, la parola città, con l’obiettivo di non farci fregare dai ciarlatani. A furia di provarci qualche volta ci si riesce.

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