L’urbanistica come strumento di politica estera (1946)

Spero siate tutti d’accordo se non vi racconto oggi la storia di centinaia di città europee distrutte, di milioni di senzatetto, di privazioni materiali e spirituali. Si tratta di cose ben note, e ogni volta che se ne parla si tende a scivolare in un senso di frustrazione che gli europei non si meritano, dato che esistono ancora notevoli energie. Un senso di frustrazione che non deve essere troppo sottolineata di fronte agli americani, specie agli urbanisti americani, che se lo vogliono hanno l’occasione di aiutare l’Europa.

Vi parlerò invece dell’urbanistica come strumento di politica estera. Ogni cosa che dirò è orientata a questa idea.
Prendiamo il caso dell’Italia. Aerei, cannoni, carri armati, truppe americane, hanno devastato, distrutto, raso al suolo centinaia di città e villaggi italiani. Dicevamo che stavamo portando la democrazia. Andavamo all’assalto di quelle città, per poi dichiarare: “Guardate, abbiamo deposto il fascismo, vi abbiamo portato la libertà. Arrivederci”. Se foste un contadino italiano, o anche un esponente dell’intellighenzia del paese, quale sarebbe la vostra reazione davanti a una dichiarazione del genere?

Ora qualcuno potrebbe anche obiettare: “L’Italia era un paese nemico, che ci aveva dichiarato guerra. Abbiamo fatto quello che si doveva fare”. Ma non è una risposta un po’ troppo facile? Le condizioni di base dei paesi europei sono sostanzialmente molto simili, che siano paesi nemici, co-belligeranti, o alleati. Non si combatteva solo per distruggere. I democratici di ogni nazionalità lottavano per un’idea costruttiva, per realizzare una comunità mondiale democratica, e insieme ad essa l’unico sfondo sul quale è possibile vederla sorgere e crescere: tutto quanto è possibile creare grazie ad una pianificazione creativa, intelligente, sana, di città e regioni in tutto il mondo.

Cosa sarebbe successo, se qualcuno a Washington avesse pensato all’idea di mandare un urbanista insieme al governo militare delle città appena liberate (o presso l’ambasciata), in grado di rivolgersi ai tecnici locali, spingerli a tornare immediatamente al lavoro di ricostruzione; un urbanista per aiutare e popolazioni e fornire loro informazioni sulle esperienze americane, di cui tutti qui in Europa chiedono, sui programmi americani, sulla prefabbricazione e via dicendo?

Immaginatevi la reazione di un italiano a questo tipo di proposta: “D’accordo – potrebbe rispondere – gli americani mi hanno distrutto la casa e tutta la città, erano obbligati a farlo. Però adesso mi offrono un aiuto”. Credo che la buona volontà prodotta da questo gesto relativamente semplice sarebbe enorme.
In tutti i paesi d’Europa il problema principale, quello del cibo, si risolve inviando derrate. Per quelli che vengono subito dopo, e cioè casa e urbanistica, dovremmo metterci in grado di offrire e mandare tecnici. Abbiamo speso milioni di dollari in propaganda. Sulla base delle mie esperienze, sono convinto che quello dell’urbanistica sarebbe il miglior contributo possibile alla propaganda Usa. Incaricando e mettendo a disposizione i necessari esperti e strutture per casa e urbanistica si instaurano relazioni stabili e operative con la classe politica, gli ambienti intellettuali e accademici, quelli tecnici, gli amministratori orientati a un approccio costruttivo, la parte migliore della cittadinanza. Credo che per mancanza di lungimiranza si siano perse ottime occasioni di consolidare influenza e potere dell’America all’estero. Ma non dobbiamo rivangare il passato. Oggi l’urbanistica ha una importante funzione e ruolo di politica estera.

Negli ultimi due anni ho lavorato in Italia come membro dei Servizi di Informazione dell’Ambasciata degli Stati Uniti a Roma. Il nostro scopo era, per dirla in parole molto semplici, di “vendere” l’America in un altro paese; mostrare quanto serenamente e magnificamente si possa vivere in una democrazia. Ciascuno di noi era molto stimolato da questo compito. Al punto che probabilmente spesso abbiamo un po’ esagerato.
In varie occasioni mi si chiedeva di descrivere casi di urbanistica americana, o di mostrare esempi dei più riusciti progetti residenziali del periodo di guerra, e cercavo di presentare al pubblico l’America al meglio.
Ricordo che una sera di qualche mese fa a Roma stavo parlando di pianificazione urbana e regionale. Forse ero un po’ troppo enfatico.

Alla fine un signore piccolo del pubblico si è alzato e ha osservato piuttosto freddamente “GUARDI CHE IO LÀ CI SONO STATO”. Aveva visto l’America, e sapeva che anche là ci sono ancora parecchi quartieri molto degradati, città in crisi e obsolete. Col suo tono molto critico, quel “LÀ CI SONO STATO” stava a significare “Magari in Europa non abbiamo un’urbanistica al massimo livello, ma siamo poveri. Ci sono state guerre, distruzioni continue; a differenza dell’America magari non abbiamo avuto la “dritta” giusta! Ma guardatevi: siete la nazione più ricca e potente del mondo. La terra di tutte le occasioni, ma come abitate, però. Lo sfondo della vostra democrazia è fatto anche di città e quartieri degradati; segregazione dei ricchi e segregazione dei poveri. Magari avrete anche acqua corrente e frigoriferi, la bomba atomica, la coca-cola, ma non cercate di venderci la vostra urbanistica. A definire le vostre città c’è solo una parola: squallore”.

Avrei voluto vedervi al mio posto,a rispondere a quel tizio. Ero imbarazzato. Ho cominciato a dire che, entro certi limiti e con certe eccezioni, in fondo ero d’accordo con lui, ma che le carenze dell’urbanistica americana trovavano una spiegazione nel fatto che il paese era cresciuto molto rapidamente; i ritmi dell’espansione americana non avevano consentito città stabili e ben progettate.
Un americano poi poteva anche permetterselo, di abitare in un quartiere degradato, dato che il suo ragionamento era: l’anno prossimo guadagnerò di più e cambierò casa. O magari si spostava addirittura in un’altra città, o regione, di solito più a ovest. Con l’eccezione di alcuni centri, continuavo, l’America era sempre sul punto di spostarsi. Ecco perché in passato non si era avvertito un forte bisogno di urbanistica, non le si era dato un gran valore.
Ma oggi che la frontiera è stata raggiunta, che il paese è stabile, al dinamismo del passato seguirà una nuova cultura, un’idea di vita in grado di sostituire la sola enfasi sulla crescita quantitativa dei beni materiali. Concludevo osservando come nel quadro di questa nuova cultura fosse arrivato il tempo dell’urbanistica americana.

Così più o meno la mia risposta a quello sgradevole “Io là ci sono stato”. Forse voi avreste potuto fare di meglio. Ma il punto di tutta la storia è che, di nuovo, l’urbanistica è una delle manifestazioni più evidenti di una cultura sociale, uno strumento – in realtà, il migliore strumento – per l’obiettivo di esportare all’estero il nostro modello di vita democratica.
Quando si lavora a un piano urbanistico si incontrano tanti problemi da risolvere, le pressioni dei vari gruppi, tecniche, economiche, che si rischiano di dimenticare talvolta le profonde radici culturali e il senso di questo lavoro. Posso testimoniare sulla base della mia esperienza che in Europa mostrare un buon piano urbano o regionale degli Stati Uniti vale più di tonnellate di propaganda. La vostra urbanistica non è solo importante per il benessere delle vostre città, ma anche per tutto il mondo. Ed è fondamentale come mezzo di comunicazione adeguato per esportare l’idea centrale della cultura americana.

Oggi che gli Stati Uniti si pensano come una di tante nazioni, che riconoscono le proprie responsabilità internazionali, che si è costituita una Organizzazione delle Nazioni Unite, dobbiamo assumerci anche la responsabilità di una organizzazione internazionale dell’urbanistica. L’American Institue of Planners, ne sono certo, capirà l’urgenza di questa nuova sfida che si presenta al paese. Potete dare un forte contributo, molto più di quanto alcuni di voi possano immaginare, al ruolo internazionale dell’America. Non è una fantasia.
E avrei alcune indicazioni concrete da proporre: se alcuni fra voi concordano con questa idea di cooperazione internazionale, forse nel corso di questo convegno si può presentare una mozione perché si spedisca il Journal of the American Institute of Planners alle biblioteche dei Servizi di Informazione delle Ambasciate di tutto il mondo. Può sembrare un contributo piccolo, ma è significativo, mandare all’estero una cinquantina di copie della rivista. Così il vostro lavoro potrà essere utile non solo negli Stati Uniti, ma in tutti i paesi. C’è poi un secondo aspetto di quella che possiamo chiamare, un po’ paradossalmente, politica estera urbanistica americana. Ho già parlato di cosa possiamo dare, e ora vorrei spiegare cosa ci possiamo guadagnare. Che ci crediate o no, per quanto fieri di tutti i traguardi raggiunti dall’America, non siamo certo l’unico paese civile del mondo. Ed esistono in molti altri paesi eccellenti esperienze urbanistiche.

Sono stato in Inghilterra per un anno durante la guerra, e ho studiato i piani per la ricostruzione post-bellica. Anche in Italia ho lavorato direttamente a diversi piani.
Gli urbanisti sono al lavoro in Francia, Inghilterra, Finlandia, Svezia, e in tanti altri paesi. Mi chiedo se gli americani conoscano i bellissimi lavori per la ricostruzione delle città dell’Istituto di Architettura Finlandese. Nessuna rivista di questo paese per quanto ne sappia ha mai proposto il lavoro dei finlandesi. E poi prendiamo l’esempio del piano per la ricostruzione di Londra, di Abercrombie e Forshaw [County of London Plan 1943, n.d.t.]. Quanti urbanisti americani l’hanno studiato attentamente, questo che di sicuro è un classico dell’urbanistica contemporanea? Per quanti siano, dovrebbero essere molti di più, c’è tanto da imparare da questo splendido lavoro.

È mia convinzione che una consapevolezza urbanistica internazionale, un movimento attivo a sostenerla, possano operare in due direzioni. L’America aiuta l’Europa, l’Europa aiuta l’America.
La mia impressione è che il dopoguerra europeo sarà importante nella storia dell’urbanistica. Con la spinta della ricostruzione gli urbanisti avranno molte possibilità per sperimentare su larga scala, per affrontare a dimensione nazionale le questioni sociali legate alle città: dal regime dei suoli, alla densità di popolazione, alla localizzazione industriale e così via. Per pura necessità, l’Europa dovrà affrontare i problemi essenziali della vita moderna, e risolverli in modo coordinato..
Sappiamo che la vita oggi in realtà è concretamente piuttosto indietro rispetto ai nostri ideali e culture progressiste, perché le abitudini, le tradizioni, gli interessi consolidati spesso si oppongono al nuovo. Negli Stati Uniti, per fortuna, non ci sono le distruzioni della guerra ad obbligare chi governa ad affrontare direttamente questi problemi essenziali di sviluppo nazionale, regionale e urbano. E così curiosamente, senza le distruzioni della guerra e l’urgente necessità di una ricostruzione dalle basi, gli urbanisti americani si ritrovano in qualche modo davanti a ostacoli psicologici più difficili di quelli dei loro colleghi in Europa.

Ho la sensazione che una più diffusa conoscenza di quanto si fa in Europa oggi, di quali siano i problemi, potrebbe aiutare gli urbanisti a rendere più consapevoli del problema i cittadini americani. Quindi spero che una migliore informazione su quanto accade all’estero in materia urbanistica possa servire come strumento non solo culturale in senso lato, ma anche per mobilitare l’opinione pubblica americana. Non occorre spiegare il valore incommensurabile di uno strumento del genere, indipendentemente dal fatto che le idee che si vogliono diffondere e ribadire negli Stati Uniti siano simili o diverse da quelle dei vari aspetti della ricostruzione in Europa.
Per entrare più precisamente nel merito, vorrei farvi alcuni esempi di quanto mi è successo lavorando alla ricostruzione delle città in Italia.

Gli urbanisti stanno tentando di istituire un vero e proprio Ministero dell’Urbanistica. In Inghilterra ce n’è già uno, e così in Francia. In tutti i paesi d’Europa, si avverte l’esigenza di avere un riferimento diretto governativo a coordinare le attività di pianificazione urbana e regionale. È un’idea superata, quella di avere invece varie responsabilità che si occupano di localizzazione industriale, delle scuole, aeroporti, ferrovie, ospedali. Lo scopo primo dell’urbanistica è di armonizzare in equilibrio organico i vari e a volte contraddittori elementi del territorio di oggi. L’obiettivo è di integrare problemi sociali economici spirituali. Un’integrazione a cui non si arriva affrontandoli un po’ alla volta. Oggi c’è bisogno di uomini diversi, con una visione più ampia, e di un Ministero che serva a questi scopi.

Lavorando nell’ufficio del governo italiano che si occupa di urbanistica, ho scoperto che molti ottimi piani regolatori venivano bloccati dal settore Belle Arti. Quando un’amministrazione locale invia il proprio piano alle Belle Arti, gli archeologi non guardano neppure il piano. Si limitano a esaminare il materiale allegato alla ricerca di tutti i monumenti per cui si propone alterazione o distruzione. E per salvare un monumento mettono il veto a tutto un piano. La stessa cosa succede al Ministero dell’Industria, a quello dei Trasporti, della Sanità, del Tesoro. Tutti difendono il proprio piccolo ambito, disinteressati del quadro generale e dei bisogni urbani. Il nostro punto di vista è che l’urbanistica non debba essere la somma di tutti gli interessi particolari, ma una loro integrazione. Le Belle Arti devono partecipare sicuramente all’urbanistica, ma non solo per difendere un singolo monumento dopo che il piano è stato redatto, e invece misurarsi efficacemente col problema sin dall’inizio, specie in un paese che è tutto un monumento. E la stessa cosa vale anche per gli altri ministeri.
Si propone quindi che venga istituita una commissione centrale per l’urbanistica, che ciascun ministero abbia un rappresentante tecnico specializzato, che conosca i problemi urbanistici specifici del settore, ma al tempo stesso abbia una prospettiva e comprensione sufficientemente ampia per sacrificare, ove necessario e giustificato, gli interessi del settore rappresentato, a favore di quello urbano generale.

Mi chiedo se questa esperienza italiana possa valere negli Stati Uniti. Non ci serve qui un miglior coordinamento a scala nazionale, regionale, locale, delle attività urbanistiche? Se si, gli esempi di riorganizzazione europea potrebbero rivelarsi un utile strumento di progresso.
E c’è un altro esempio, quello della prefabbricazione, a lungo discusso in Italia. Lì si ritiene che gli edifici prefabbricati possano costituire un pericolo per i patrimonio cultural nazionale. “Non possiamo farlo” mi ha spiegato un amico “Tutta l’Italia è antica, storica, monumentale. Ogni città ha una propria specifica tradizione, aspetti particolari che dobbiamo tutelare, proteggere. In una zona distrutta dalla guerra di Firenze non si possono mettere neppure dieci edifici prefabbricati, neppure in periferia. In America si può fare, ma non in Italia, col nostro patrimonio storico culturale delle città”.

Settimana scorsa a New York stavo discutendo con l’architetto finlandese Aalto questo tipo di problema. Lui diceva che in Finlandia si producono moltissime case prefabbricate, che però poi si vendono alla Svezia, all’Inghilterra, alla Russia. Commentava che in patria le si utilizza solo raramente, finché la produzione industriale non sarà in grado di soddisfare la domanda – psicologica e biologica – delle persone per un modello più flessibile.
Non c’è il medesimo problema qui in America? Non lo affrontano oggi gli urbanisti americani? Senza un efficiente ministero responsabile, senza un’adeguata amministrazione di programmi urbani e regionali, di standard, ci saranno milioni di case prefabbricate collocate lungo le strade, a costruire una nuova generazione di slums. Su dimensioni diverse, per motivi diversi, abbiamo lo stesso problema dell’Europa. Siamo tutti favorevoli all’industrializzazione del settore edilizio, ma non a distruggere o peggiorare la qualità della vita e i caratteri specifici delle nostre città.

E vorrei aggiungere un ulteriore esempio: gli edifici pubblici e collettivi. Ricorderete tutti il lungo dibattito prima della guerra in questo paese, se ci dovessero essere nei quartieri residenziali degli edifici pubblici e collettivi oppure no. Urbanisti e architetti progressisti all’epoca ribadivano che la città non è certo solo una sommatoria di case. Ci vogliono scuole, centri sociali, spazi per il tempo libero, e tante altre cose. Oggi in Europa milioni di persone mancano anche letteralmente di un tetto sopra la testa, ma si chiede che la ricostruzione avvenga in modo organico, che insieme alle case si progettino scuole, biblioteche, edifici collettivi. Anche per chi è in una situazione estrema abitare significa qualcosa di più che non la sopravvivenza fisica. Vuol dire autentica comunità, sviluppo culturale.

E per concludere, è molto semplice il punto che ho cercato di ribadire: l’urbanistica americana oggi si trova di fronte a una responsabilità internazionale, che è strettamente connessa a una responsabilità nazionale. Il lavoro degli urbanisti americani è essenziale per la politica estera del paese nel ventesimo secolo, per creare un atteggiamento positivo ed esportare all’estero un sistema di governo e uno stile di vita.
Vi propongo che si sfruttino tutte le strutture del Dipartimento di Stato, e specificamente gli incaricati per la cultura e la casa delle ambasciate, per far pervenire e circolare le pubblicazioni, i progetti, le idee.
Infine, chiedo che si dia ogni sostegno alla costituzione di un settore Urbanistica presso le Nazioni Unite, che possa coordinare e distribuire in tutto il mondo in tutti i paesi le informazioni e le attività.

Intervento all’incontro annuale dell’Associazione Urbanisti Americani, Cleveland febbraio 1946, Journal of the American Institute of Planners, inverno 1946 – Titolo originale: Town Planning as an instrument of foreign policy – Traduzione di Fabrizio Bottini

Per assonanza di temi e attualità vedi anche Milano Porta Nuova e la Jihad Urbanistica 

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