Aldo Putelli: un progetto coerente per la città italiana (1992)

Tecnica, democrazia, coerenza

Esistono, nella pubblicistica italiana sulle città, molti indizi di un percorso coerente , che oltre le discontinuità dovute a contingenze interne ed esterne alla disciplina urbanistica, ha determinato negli anni della sua prima legittimazione una evoluzione lineare, tanto quanto complessi e contraddittori erano i fenomeni con cui di volta in volta si misurava. Molti studi hanno individuato nella ricerca sui fondamenti e sui fondatori un valido strumento per acquisire elementi e categorie di giudizio, utili ai fini della ricerca storica, così come a quelli della riflessione critica su quanto viene da molte parti definita crisi disciplinare urbanistica, ma che probabilmente altro non è che il manifestarsi una ciclica fisiologica evoluzione verso equilibri diversi tra le componenti. Esiste anche uno sfasamento tra le varie linee di ricerca, focalizzate le une sulle singole biografie professionali, le altre tese a ricostruire l’evoluzione di alcuni temi. Il lavoro sui fondamenti ha approfondito il periodo tra le due guerre mondiali, in cui si definiscono culturalmente e istituzionalmente i nuovi approcci alla città e al territorio che sono giunti sino a noi raccolti nell’accezione di «urbanistica». Il lavoro sui fondatori ha invece privilegiato il periodo del secondo dopoguerra, del dibattito sulla ricostruzione, la programmazione economica e gli sviluppi successivi.

La scelta di riconnettere invece questi due approcci-periodi sinora piuttosto distinti vorrebbe connotarsi come qualcosa di diverso dalla semplice proposta di un nuovo punto di vista, e rappresentare invece una tesi di continuità, nei modi di intendere l’idea di città, tra urbanistica di epoca fascista e urbanistica dell’Italia repubblicana. Una continuità spesso solo accennata o implicita, ma raramente verificata dalla ricostruzione puntuale nell’opera dei protagonisti. Collochiamo così la lettura della attività culturale e professionale di Aldo Putelli (1900-1978), personaggio certo meno noto di altri suoi contemporanei, ma la cui vicenda ricalca diversi elementi comuni a una intera generazione. Formazione e inizio dell’attività tra gli anni ’20 e ’30, partecipazione alla grande stagione dei Concorsi di piano regolatore, dibattiti sulla dimensione urbana e regionale del piano, polemiche tra accademia e innovatori modernisti sulla città del futuro. Nel dopoguerra , di nuovo l’acceso dibattito sulla ricostruzione e le strategie di sviluppo, ed insieme e nuovi temi dell’accelerata industrializzazione e urbanizzazione del paese, l’esperienza dell’INA-Casa, la «ideologia del quartiere». A questo si aggiunge la singolare personalità di Putelli , una certa ritrosia rispetto ad enfasi e protagonismo, una tendenza a connotare l’azione professionale in modo ricco, ma al tempo stesso caratterizzato da understatement.

Sarebbe certo presuntuoso e velleitario pensare di riuscire – in un saggio che per molti versi parte da zero – a ricostruire una biografia a tutto tondo e indagarne originalità e discrasie rispetto all’evoluzione (architettonico-urbanistica e non) dell’Italia attraverso questi decenni cruciali per la nostra storia. Le note che seguono si limitano a tentare una prima ricostruzione del percorso teorico, professionale, di impegno sociale di Aldo Putelli, restituendone gli elementi legati alla continuità di una ricerca che non a caso apre e chiude il testo: il rapporto tra pianificazione e democrazia. O meglio come certo avrebbe preferito Putelli, il modo in cui l’azione pubblica può far confluire le aspirazioni dei singoli in un progetto progressista. Concetto ben riassunto nel suo intervento al IV Congresso INU quando afferma: «Tutti pianificano, chi a scadenza breve di mesi, chi a scadenza di anni. Quando una madre fa studiare da medico il figlio, pianifica». Ingenuità? Eccesso di schematizzazione? Probabilmente, solo scelta di esprimersi fuori dal tono retorico e strumentale, ma coerentemente con quanto questo saggio tenterà di restituire nelle relazioni col dibattito sull’architettura-urbanistica nazionale.

Una breve precisazione conclusiva riguarda il tipo di esposizione. Essendo tesi e oggetto centrale dell’articolo la continuità del dibattito architettonico-urbanistico, è difficile definirlo sia come biografia che saggio storico-critico disciplinare1. Resta il tentativo di ipotizza, soprattutto, una sorta di bypass ideologico che, lontano dalle semplificazioni, connetta alcuni elementi di debolezza del dibattito contemporaneo con un flusso evolutivo diverso da quanto in molti definiscono scontro generazionale.

La stagione dei concorsi nelle città medie

Monza – Quartieri di espansione

«Non ho mai potuto dimenticare […] la sorprendente uscita di un Presidente – di non importa qual Comitato – che udii con le mie orecchie giustificare, in ristretta riunione, il suo savio avviso di non bandire un concorso. “Voi capite – diceva – se avessimo bandito il concorso poteva darsi che ne emergesse un progetto indiscutibilmente migliore fra tutti, e allora ci saremmo trovati nell’obbligo di eseguirlo”». (Alberto Alpago Novello, 1939)

Aldo Putelli nel 1935 sottolinea come «Siamo spettatori e attori dell’ondata di concorsi per i P.R. delle Città italiane minori. Lodevole e pieno di promesse questo risveglio e questo bisogno di chiarezza sentito dalle podesterie poste alla reggenza dei Comuni»2. Un auspicio di collaborazione tra giovani professionisti e amministrazioni. Ottimismo forse un po’ forzato, visto che nello stesso anno il Sindacato Ingegneri lamenta una notevole discontinuità qualitativa proprio nell’ambito dei concorsi, proponendo dalle pagine della rivista ufficiale l’Ingegnere una versione aggiornata del Bando Tipo pubblicato solo due anni prima da Urbanistica. A metà degli anni ’30 la questione dei concorsi può a tutti gli effetti essere considerata strategica per la cultura nazionale delle città, e Aldo Putelli ne coglie l’importanza facendo ruotare proprio attorno ai concorsi sia la formazione e legittimazione degli urbanisti, che la collaborazione pubblico-privato, che la sinergia tra le strutture tecniche istituzionali e i liberi professionisti. Qualcosa che a diversi anni dall’istituzione dell’INU proprio in quella prospettiva ancora stenta ad innescarsi.

Il focalizzarsi di tante aspettative attorno a qualcosa di abbastanza marginale come i concorsi trova piena giustificazione se si considera che tra le due guerre buona parte del dibattito urbanistico passa proprio da lì. Come sottolineerà Vincenzo Civico traendole conclusioni del primo congresso nazionale INU nel 1937 «c’è dell’ottimo, del buono, del mediocre e del decisamente pessimo», ma lo stato di salute della disciplina, in attesa della sempre rinviata Legge nazionale, si giudica proprio attraverso qualità e quantità dei concorsi3. Come lo stesso Putelli osserva forse con velata ironia alle pagine di Urbanistica il dibattito europeo sulla formazione dei piani regolatori e territoriali regionali poggia sulle solide basi di leggi approvate nei primi anni ’30, mentre in Italia solo alcuni grandi centri hanno provveduto a disciplinare in qualche modo la propria crescita. «La ragione di questa negligenza va principalmente ricercata nel fatto […] che il richiamo esercitato dalle Città industriali sulle masse rurali non è stato sentito in Italia in così violenta misura quanto per i centri urbani dell’estero che si trovano nella influenza dei bacini minerari»4.

Una negligenza tutt’altro che passiva, visto che un progetto di legge generale urbanistica è stato silurato sul nascere qualche anno prima. Il Ministro dei Lavori Pubblici, Araldo Di Crollalanza, già sponsor politico del Congresso Internazionale dell’Abitazione e dei Piani Regolatori a Roma nel 1929, si era fatto redigere da Virgilio Testa un disegno molto innovativo, che introduceva la pianificazione sovracomunale, la separazione tra strumento generale e attuativa, la validità a tempo indeterminato. Proposta accolta però con notevole diffidenza dai responsabili degli altri Ministeri, e nonostante le pressioni del mondo accademico e dell’INU, Crollalanza non aveva osato rischiare uno scontro, ritirando la proposta prima di discuterla in Consiglio dei Ministri5. Da qui l’affermarsi del concorso di piano regolatore come laboratorio in cui, protetta da una connotazione istituzionale e di sperimentazione, la cultura urbanistica prova ad esprimersi al meglio6. Da qui anche una accelerazione del dibattito disciplinare, sostanzialmente lontano da quello politico di settore ma al tempo stesso ricco di suggestioni e proposte per le città, mature per accettare un adeguamento dei propri tessuti alla spinta modernizzatrice che pur contraddittoriamente il fascismo sta provando a imprimere alla società italiana.

Il paese si distingue tradizionalmente, nel panorama europeo, come quello delle «cento città» dove, anche negli anni del primigenio sviluppo industriale, i nuclei medi hanno saputo mantenere identità e specificità, anche all’interno di sistemi socioeconomici territoriali di scala più ampia. Anche l’adeguamento del tessuto locale e meno locale alla modernizzazione, secondo l’auspicio del 1913 di Gustavo Giovannoni sulla Nuova Antologia diventa sempre più urgente: adattare Città Antiche e Vita Moderna, come recita il famoso libro che di quell’articolo è lo sviluppo logico. Secondo Aldo Putelli le nuove prospettive pongono in secondo piano tutto ciò che non tiene al centro la dicotomia città-territorio anche nei centri medio-piccoli, dato che «l’affermarsi del nuovo spirito ordinatore del Fascismo rende già questo panorama sulle condizioni delle città minori un poco anacronistico»7. Specie se poi questi centri minori sono di fatto inseriti dentro aree a forte dinamica economica, e dove quindi sarà ancora più urgente provare in qualche modo ad aggirare le pastoie del sistema legislativo, amministrativo e politico. Animato da questo spirito Putelli affronta col suo gruppo di lavoro nel 1933 col concorso per il piano regolatore di Monza.

Centro industriale di fatto alle porte di Milano pur con una propria rivendicata tradizione di autonomia, Monza aveva vissuto negli ultimi decenni dell’800 un impetuoso sviluppo urbano, e già negli anni ’20 a ciclo di crescita esaurito si era avvertita l’esigenza di riorganizzare questa crescita casuale attorno al nucleo murato medievale8. Il concorso pur di poco successivo all’adozione dello strumento elaborato dagli uffici tecnici cerca però di rispondere a una questione più generale: «Non deve Monza ubbidire ad un Piano veramente regionale, piano che dalla metropoli prendesse lo spunto invece di chiudersi in un organismo a sé stante, intangibile ed ortodosso?»9. A ben vedere, quella dimensione regionale del piano appare una questione che ne riassume molte altre, ma per Monza specificamente assume un ruolo emblematico.

La pianificazione di scala sovracomunale, anche se nel disegno di legge urbanistica Crollalanza 1933 non ha ancora la struttura gerarchica del 1942, viene comunque interpretata come una sorta di imposizione dall’alto anziché espressione locale di partecipazione a un contesto, così caratterizzato dalla centralità milanese. Facile intuire come per Monza, Milano sia un vicino ingombrante poco desiderabile, specie dopo l’aggregazione dei Comuni contermini di soli dieci anni prima e l’idea che proprio quella procedura (idea dell’urbanista amministrativo Virgilio Testa) sia in qualche modo perfettamente organica a un processo di piano regionale10. Dentro la tradizione di forte autonomia e quasi antagonismo con Milano, a Monza si scontrano necessità di integrazione e altre spinte a costituirsi «organismo a sé stante» con riferimento a un proprio bacino suburbano verso la Brianza.

Sarà proprio la capacità di equilibrare entrambi gli aspetti il punto di forza determinante la vittoria del progetto C.M.N.P. 22 di cui sono autori insieme a Aldo Putelli: Paolo Chiolini, Alberto Morone, Fausto Natoli.

Monza – interventi sul centro storico

Armando Melis relatore della commissione lo giudica un elaborato che «Decisamente si stacca dagli altri per la buona preparazione e per l’avveduta praticità delle soluzioni proposte», e secondo Ferdinando Reggiori pur nel respiro regionale dell’analisi e dell’impostazione c’è una grande attenzione al nucleo urbano centrale, alla praticabilità economica sull’arco di una attuazione circa ventennale, non si «vuole rifare la città per il gusto di rifarla; non vuol mettere Monza in concorrenza con Milano. E codesta d saper conservare, nello spazio e nel tempo, la giusta unità di misura, è la migliore prova data da un gruppo di giovanissimi urbanisti»11. Il progetto esprime una singolarmente moderna concezione di città media, affrontando la scala territoriale vasta con un approccio interessante nel suo distinguersi sia dalle provocatorie coerenze tutte teoriche che contraddistinguono per esempio il modernismo del Gruppo Urbanisti Romani di Luigi Piccinato, sia dai più tradizionali elaborati dei grandi uffici tecnici come quello diretto da Cesare Albertini a Milano.

Del resto basta confrontarlo con gli altri progetti concorrenti per cogliere quanto la scala regionale venga interpretata come prospettiva analitica più che come dimensione strategica del progetto, col risultato che là dove il tessuto storico scompare sotto la sovrapposizione di nuovi schematici tracciati stradali nella maggior parte degli schemi concorrenti, il Piano C.M.N.P.22 propone «garbati adeguamenti» vuoi coerentemente innestati lungo le direttrici di sviluppo territoriale, vuoi complementari a grandi progetti come quello di deviazione del fiume Lambro e realizzazione di una sorta di parco lineare o tratto di parkway centrale. Altri elementi di pregio dell’elaborato sono i classici quartieri modernisti di espansione dentro uno schema di interposizione a verde, o il sistema viario ad anelli tangenziali a servizio e tutela sia del Parco Reale che della crescita industriale fuori porta. Fa forse vale la pena tornare sulla concezione singolarmente regionale: Armando Melis dalle pagine di Urbanistica12 sottolinea quanto quella dimensione vasta finisca per condizionare tutto il resto sin nei dettagli, letti come variabili dipendenti.

Nell’esposizione dei giovani urbanisti: «Monza, città dal certo felice futuro, non costituisce un centro avente una fisionomia autonoma ed una economia indipendente, bensì è una parte importante di quel complesso regionale topograficamente, socialmente, economicamente determinato e definibile, che prende da Milano il nome, anche se Milano stessa non ne è che una parte, sia pure la maggiore»13. Non fosse per la costruzione sintattica del periodo, sarebbe assai facile confondere questo incipit con tanti documenti prodotti una o due generazioni più tardi nell’ambito del Piano Intercomunale Milanese, o addirittura successivi. Ma a parte questi accostamenti il confronto contemporaneo è forse da fare più con il citato piano di Milano di Cesare Albertini, o col relativo disinteresse delle riviste di settore per il regional planning, che anche quando se ne applicano nelle pratiche i criteri come nella Bonifica Integrale dell’Agro Pontino, viene presentato solo a cornice di progetti microurbanistici pur magari di indiscussa qualità14. Anche da questo punto di vista si conferma il distacco del gruppo Putelli dalla media per originalità di impostazione.

Ma si tratta di impostazione teorico-culturale, non certo destinata a scontrarsi con pratiche politico-amministrative e ridimensionare i propri spunti: i concorsi degli anni ’30 specie nei contenuti non strettamente architettonici si connotano come cortina fumogena tesa a mascherare dietro l’impatto emotivo ed estetico delle tavole esposte alle Mostre, carenze di progettualità pubblica che invece l’organizzazione corporativa tenderebbe a dare per scontata. Nonostante i tentativi di animazione disciplinare dell’INU e dei Sindacati professionali, col Bando Tipo per concorsi di piano regolatore o l’Annuario delle Città Italiane accade di verificare quanto «Grave è il compito delle Commissioni giudicatrici, e più grave ancora diventa di fronte a sfoggi grafici che rappresentano ottimo materiale per giudicare la capacità pittoresca dei concorrenti, ma pessimo per paragonare equamente il valore intrinseco urbanistico delle varie soluzioni […] escludendo quelli che non sentono la voglia di diventare dei cartellonisti, ché purtroppo molti degli elaborati sono assai simili a cartelloni pubblicitari»15.

Novara schema urbano

Un commento valido per tanti casi ma riferito specificamente al concorso di Novara a cui Aldo Putelli partecipa col medesimo gruppo di lavoro di Monza arricchito dalla partecipazione di Dodi, Guglianetti e Venturini, classificandosi al secondo posto. Se nel capoluogo brianzolo era stato centrale considerare le questioni territoriali sovracomunali, già il bando per Novara si qualificava invece per la sistemazione estetico-funzionale del vecchio centro. Considerando i problemi urbanistici di dimensione maggiore non particolarmente gravi e limitandosi a richiedere idee di adeguamento viabilistico, predisposizione di un nuovo nucleo terziario rappresentativo, soluzione del nodo storico Cardo-Decumano detto Canto delle Ore nel cuore più antico della città16. Ma anche in questo caso il gruppo di lavoro si distingue per il metodo sistematico anziché artistico-intuitivo, le analisi statistiche-demografiche a sostegno delle scelte formali, lo schema urbano di espansione per quartieri modernisti e cunei di interposizione verde. Fino a disorientare la stessa Commissione che considera il peso conferito all’espansione urbana inutile e fuorviante, preferendo per questo al piano il grande progetto di Rocco, Prati, Visioli, classificato al primo posto. Ma suscitando una perplessità da parte di Plinio Marconi: «Non si giustificherebbe che tale opposizione [allo schema Putelli et. al.] dipendesse da ragioni programmatiche generali, giacché è ben noto che siffatta conformazione è oramai ritenuta la migliore»17.

Molto più simile a Monza si presenta invece per complessità dei problemi la situazione di Vigevano. Come sottolinea il supplemento sindacale di Architettura, l’amministrazione locale dello storico centro ai margini della Lomellina che fu di Leonardo, di Bramante, degli Sforza, ha saputo mettere gli urbanisti in grado di fare propriamente il loro mestiere18, con un bando di concorso impeccabile che costituisce la premessa a quella «collaborazione tra amministrazioni e professionisti» già individuata da Putelli per superare la logica del piano regolatore disegnato per le Mostre. A Vigevano lo sviluppo casuale determinato dalla crescita industriale si somma a una questione igienica determinata sia dal degrado edilizio storico sia da problemi idraulici. Pochi anni prima a un convegno milanese su igiene e piani regolatori, un medico aveva ben definito il rapporto di diretta proporzionalità tra urbanesimo e insorgere di patologie sociali, indicando l’urbanistica come vera e propria terapia preventiva19.

Vigevano – schema regionale

Un dato igienico acquisito certamente per le grandi metropoli industriali europee e che ora si pone in termini abbastanza inediti per i medi centri, dove la semplice operazione chirurgica dello sventramento dei quartieri malsano vede l’opposizione di un conservazionismo sempre organico alla cultura architettonico urbanistica italiana – indipendentemente dagli orientamenti più o meno modernisti o accademici – e molto ben riassunto dal pensiero di Gustavo Giovannoni tra i padri dell’INU20. Il fatto di spostare letteralmente le tensioni igieniche e conservazioniste del centro antico a scala territoriale più ampia era stato l’espediente di esordio del Gruppo Urbanisti Romani di Luigi Piccinato a Padova nel 1926. Anche legando le trasformazioni centrali ai grandi progetti di riordinamento idraulico complemento di risistemazione igienica edilizia: alla tombatura dei Navigli milanesi ai canali interni di Padova21, alla deviazione del Lambro a Monza o infine al canale del centro storico di Vigevano.

Dunque non è un caso se il capitolo sulla città esistente di Aldo Putelli si apre con la tabella della mortalità per tisi e tifo nel 1934. Il gruppo di lavoro a cui partecipano oggi Chiolini, Basletta, e il giovane Ezio Cerutti, ancora una volta si distingue per il rigore scientifico delle analisi e la stretta coerenza del progetto spaziale a un programma di fattibilità economica. Se a Monza si manifestava la necessità di equilibrare autonomia urbanistica e inserimento nel sistema territoriale e socioeconomico milanese, Vigevano pur nel legame storico saldissimo con Milano risulta una realtà a sé stante che dialoga se mai con le campagne e i distanti analoghi poli di Novara, Pavia, Mortara. Risolto il sistema anulare delle circonvallazioni e connessioni di scala vasta sull’asse Milano-Alessandria, ci si stringe verso il centro storico, la stazione ferroviaria, i quartieri popolari cresciuti a ridosso ma artificiosamente separati da barriere fisiche-sociali. Per quanto riguarda la cura monumentale Armando Melis definirà «encomiabile» la sistemazione del Castello e insieme le «lodevoli preoccupazioni paesaggistiche» nella tombatura del canale interno22.

Vigevano – trasformazioni centrali

Ancora una volta il metodo coerente di equilibrio tra analisi e piano-progetto produce una proposta sistematica, soprattutto lontana da certo confuso oscillare tra tecnicismi e intuizioni creatrici che permea tanto del dibattito urbanistico tra le due guerre. Valga a questo proposito una ulteriore comparazione tra i casi di Vigevano e Monza: là dove nel capoluogo brianzolo si subordinava il riordino del centro storico alla già definita deviazione fluviale, a Vigevano il quadro generale non sembra suggerire una simile focalizzazione su una singola grande o piccola opera di trasformazione (realizzata in corso o auspicata come spesso accade ad esempio con le ferrovie) come fanno invece altri concorrenti citando addirittura la Città su Diversi Livelli che aveva schematizzato Leonardo23. A distinguere un approccio urbanistico proprio e aperto, come chiedeva l’Amministrazione, a uno più progettuale.

Gli anni ’30, il decennio successivo a quello in cui le Corbusier in Urbanisme aveva indicato la strada dritta o Rue de l’Homme contrapposta a quella inutilmente tortuosa o Rue de l’Âne, definendo più che altro un metodo che vada oltre le forme esteriori, oggi adottato da almeno una parte del modernismo italiano che si qualifica «razionalista». Le città certamente macchine per abitare, ma non definite attraverso ciclopici progetti posati sul territorio, piuttosto analizzate nel dettaglio statistico, storico, formale. Ezio Cerutti trent’anni più tardi scriverà che fu soprattutto l’interesse per i problemi sociali ad avvicinare la sua generazione di tecnici progressisti all’urbanistica24, ed è forse in questa prospettiva anziché in qualche coerenza progettuale che va cercata forse una linea coerente tra le prime polemiche moderniste degli anni ’20 la stagione dei concorsi, le sperimentazioni di Adriano Olivetti col Piano Regionale della Valle d’Aosta, la svolta culturale imposta alla Triennale dall’attivismo di un Piero Bottoni.

È però certamente anche possibile tentare di individuare un portato tecnico di ciò che Edoardo Persico considerava soprattutto un approccio morale alla città e che nel caso di Vigevano il piano Putelli esprime soprattutto nello schema di espansione. Un impianto classicamente stellare, assimilabile a quanto già proposto a Monza o Novara (nel secondo caso sconcertando la tradizionalista Commissione). I quartieri sono definiti e separati, concepiti per una attuazione graduata nel tempo, allineati sulla circonvallazioni ma divisi da cunei a parco pensati come «arma con la quale potere efficacemente combattere la tendenza ad una espansione continua attorno al nucleo urbano»25. Arma concepita per essere maneggiata più da una attenta pubblica amministrazione piuttosto che da architetti-urbanisti demiurghi possibili progettisti esecutivi dei futuri quartieri, secondo la logica che pervade poi l’intervento citato all’inizio di Aldo Putelli al congresso del sindacato Ingegneri sulla collaborazione tra professionisti e comuni nelle strategie di lungo periodo.

Un elaborato di piano per quanto tecnicamente impeccabile risulta poco utile se non corrisponde qi processi reali: un concetto ben presente a Putelli la mattina del 6 ottobre 1934 mentre scorta nientemeno che Benito Mussolini lungo le scale e i corridoi della nuova Casa del Balilla, che aveva progettato inserita nella zone di espansione oltre la ferrovia del piano regolatore di Monza26. Presidio politico rappresentativo al centro di una zona residenziale produttiva di servizi da riqualificare e trasformare in snodo centro-periferia. E anche a Vigevano la logica di scala urbana del piano pur senza ignorare forme esterne o tutela monumentale è la stessa: sinergia tra scelte urbanistiche e strategie politiche dell’amministrazione pubblica, ben oltre le classiche rassegne di prospettive trionfali scenografiche che ancora affollano ogni rassegna di concorso nonostante le raccomandazioni dell’Istituto Nazionale di Urbanistica e la lettera dei singoli Bandi.

Vincenzo Civico nel 1937 compila a margine del Primo Congresso nazionale INU una breve statistica, individuando nel 1933-1934 il picco quantitativo dei concorsi preludio ad una fase successiva di assestamento. Quel tipo di competizione e stimolo ai professionisti pare perdere col tempo la centralità che aveva assunto nel dibattito disciplinare, mentre le vicende chiuse si riaprono nella pratica con l’approvazione di Leggi Speciali di Piano Regolatore che iniziano ad anticipare i contenuti delle future norme sul paesaggio del 1939 o della Legge nazionale Urbanistica del 1942. Questo non significa naturalmente che non ci siano più concorsi o che essi abbiano perso di interesse e contenuti. Aldo Putelli insieme a Ezio Cerutti e Giordano Forti partecipa nel 1938 al concorso per Alessandria basato di nuovo sul concetto di «demanio verde» di interposizione alla crescita urbana isotropa27, con una proposta che a parere della critica «dimostra una buona preparazione e competenza urbanistica generale ed una chiara impostazione del problema urbanistico di Alessandria, pur esagerandone taluni aspetti e giungendo pertanto a soluzioni sproporzionate alle sue reali necessità»28.

Alessandria -Zone Omogenee

La Commissione classifica quarto l’elaborato aggiudicando la vittoria al piano di Armando Melis. Anche Putelli collaborerà di lì a poco con lo stesso Melis, e il collega Ezio Cerutti, nel concorso per il piano regolatore di Verbania dopo la fusione dei due nuclei comunali di Intra e Pallanza sulla sponda piemontese del Pago Maggiore. Rispondendo a un bando che ci ricorda ahimè i tempi cupi attraversati dall’Italia quando invita alla partecipazione architetti e ingegneri di razza ariana «a fondere una sola città creando la cellula di unione e sviluppo nella località che i concorrenti riterranno più adatta»29. Il nodo urbano definito cellula d’unione altro non è che un complesso terziario pubblico con edifici del Comune della Casa del Fascio delle Poste e via dicendo. Questione decisamente architettonico-urbanistica diversa da quelle di più larga scala esaminate sinora, con una popolazione totale comunale di 22.000 abitanti di cui non si prevede rapido incremento, e una economia industriale (Intra) e turistica (Pallanza) consolidata e senza particolari problemi di assestamento territoriale.

Verbania – Sviluppo residenziale

Come provare ad esprimere anche a questa dimensione urbanisticamente abbastanza irrilevante lo stesso spirito culturale modernista attraverso forme e contestualizzazione del piccolo quartiere terziario integrato di residenza «che commenti e metta in valore il nucleo sociale»? Come riproporre in una piccola trasformazione nel paesaggio delle sponde del lago le linee coerenti, gli schemi analitici e progettuali che abbiamo sinora ripercorso: dalle reti viabilistiche di raccordo locale-sovralocale allo zoning in esso contestualizzato, al sistema pieni-vuoti dei quartieri e del verde pubblico, che nel caso specifico si arricchisce del tema tutela del paesaggio in contemporanea con la Legge Bottai, e infine al programma di attuazione. Perché naturalmente è questo il percorso che ci interessa ricostruire guardando ai casi di concorso di piano regolatore: uno stile, un metodo, una coerenza di modello. Ovvero nella teoria e pratica professionale quotidiana il crescere dell’idea di città in trasformazione scaturito prima in nuce dall’articolo di Gustavo Giovannoni su Nuova Antologia nel 1913, e via via tra convegni pubblicazioni studi eventi pratiche30 arrivato alle soglie del secondo conflitto mondiale ad una provvisoria maturità.

Ricentraggio idee e ideologie negli anni dello sviluppo

«Their idea cities were to be planned cities. Ths meant that human rationality would take control from the blind operation of economic forces» (Robert Fishman, 1982)

«A quando, il Piano regolatore del Mondo?» (Giuseppe Pagano, 1942)

Pare facile ridicolizzare uno slogan che appare ridicolo e velleitario, ma ancora più facile sembra acclamarne l’enunciazione senza capirne davvero lo spirito e le conseguenze. Per molti versi la storia dell’urbanistica italiana da questo punto di vista risulta emblematica: ovunque riecheggia il diktat mussoliniano «Sfollare le città»31 fino a sfociare nell’articolo di apertura della Legge del 1942 che si dichiara di contrasto all’urbanesimo; ma dopo queste dovute genuflessioni alla linea ufficiale del regime gli architetti-urbanisti non possono che fisiologicamente riconvergere su ciò che loro più interessa. La città, meglio ancora la grande città, motore economico del divenire sociale a cui si cercano di imporre forme e regole. Nel caso specifico di Milano i processi di modernizzazione già alle soglie degli anni ’40 si delineano sostanzialmente nel passaggio dal modello della città industriale a quello della regione urbana: impianti produttivi in via di decentramento, terziarizzazione in stile downtown del centro, periferie e comuni contermini caratterizzati da residenza popolare e/o attività economiche minori-subalterne32. Pur senza la polarizzazione caratterizzante più specificamente il modo di pensare la città negli anni successivi del boom economico già prima della guerra si colgono alcune focalizzazioni33.

La pratica professionale a differenza degli auspici teorici o accademici o associativi-corporativi distingue abbastanza chiaramente tra intenzioni e progetti34. I giovani modernisti pur in polemica formale con la tradizione tecnica garden city locale seguono in sostanza contemporaneamente al dibattito internazionale il passaggio dai raggruppamenti organici di villini o palazzine al vero e proprio quartiere autosufficiente o neighborhood unit composto di alloggi razionali igienici e spazi pubblico-collettivi efficienti, inserito nel processo metropolitano. Aldo Putelli con Ezio Cerutti Paolo Chiolini e Oscar Vanzina partecipa al concorso architettonico per l’aerostazione di Linate col motto ASSO, dove pur coi limiti tematici si possono cogliere diverse coerenze di tema e scelte. L’analisi preliminare al progetto innanzi tutto, che contrappone la scala contenuta della trasformazione fisica al suo smisurato ruolo di «porta internazionale della metropoli», e l’inserimento nella rete locale di sviluppo flussi e trasformazioni del territorio35.

Aeroporto Linate – Terminal passeggeri

Ritorna lo spirito tutto modernista36 già intravisto nel concorso per il pano regolatore di Monza e implicitamente presente in tutte le esperienze citate sinora, della città polo metropolitano di irraggiamento dell’innovazione dentro cui il progetto architettonico-urbanistica si inserisce sia deduttivamente che induttivamente. Anche là dove come nel caso dell’aeroporto si tratta di poco più di un fatto simbolico, ma con maggiore incidenza nel nodo di visibilità per eccellenza rappresentato dalla nuova Fiera Campionaria, che affermatasi nel giro di pochi anni come vetrina della produzione italiana e luogo di nuova identità metropolitana, richiede urgenti interventi di rilocalizzazione della sede. La crescita per aggiunte successive dell’impianto originario aveva finito per costruire una specie di cocktail imperfetto tra l’idea di mostra internazionale e fiera paesana patronale, e insieme un quartiere totalmente privo di rapporti organici socioeconomici e urbanistici con la Grande Milano presente e soprattutto futura.

Polo Fiera Milano in rapporto alla città

Curioso come la prima proposta di rilocalizzazione sia proprio in un’area adiacente all’aeroporto di Linate oggetto del concorso di cui sopra, anche se poi la scelta cadrà sulla zona della ex Piazza d’Armi nel settore urbano privilegiato opposto di nord-ovest. Il gruppo di Aldo Putelli, con Enzo Battigalli, Ezio Cerutti, Luigi Dodi, Giordano Forti, Giovanni Sacchi, si impone sui progetti concorrenti ribadendo la continuità di metodo che abbiamo ripercorso sino a far pensare alla Commissione che «sopravanza nettamente gli altri»37. Ciò grazie all’impostazione analitica preliminare, che ponendo per certi versi in secondo piano la stessa organizzazione interna del quartiere espositivo che sarebbe l’oggetto vero della competizione, ne definisce innanzitutto il ruolo urbano-regionale premettendo al progetto vero e proprio che ovviamente non manca «una serie di osservazioni così chiare ed acute […] che inquadrano nel modo più felice la questione della Fiera di Milano e spiegano il successo del progetto dovuto, innanzitutto, a questa lodevolissima impostazione preliminare del problema»38.

Fiera di Milano il quartiere espositivo

In primo piano si collocano i rapporti del polo espositivo con le grandi linee di comunicazione regionale, col nuovo piano regolatore generale approvato della città, con le reti del trasporto pubblico. In secondo luogo si distingue il già citato ruolo della Fiera da un lato come spazio pubblico locale dedicato all’incontro, al tempo libero, al commercio minuto, dall’altro la vetrina internazionale vera e propria, a cui viene destinata la zona più interna e raccolta, difficile da confondere e assimilare alla fiera paesana. Proposta la variante allo strumento urbanistico generale, poco resta se non precisare una ipotesi planivolumetrica del nuovo quartiere che, nelle suggestive immagini di alcune tavole, sembra replicare lo understatement architettonico già visto per il polo terziario di Verbania39. Questo per quanto riguarda la ricerca specifica di queste note biografico-professionali sullo stile e approccio della nuova generazione di architetti urbanisti legati alla cultura modernista internazionale.

Ma esiste anche, altrettanto caratterizzante e fondamentale, l’impegno sociale che costituisce forse il motore principale della ricerca e dell’innovazione di metodo. In questo senso la transizione dal modello di città industriale tradizionale a quello metropolitano inizia a delineare almeno tre linee di approccio: un prima che Ezio Cerutti definisce accademica, attenta a rivestire di rassicuranti facciate operazioni edilizio-immobiliari decise da qualche ovattato consiglio di amministrazione; una seconda che è quella relativa ai nodi simbolici e funzionali strategici per la grande transustanziazione (a cui appartengono di diritto Aeroporto e Fiera); infine una terza probabilmente molto più innovativa di quanto non apparirà alla fine di quel ciclo40, fortemente legata a ciò che Edoardo Persico chiamava approccio morale ai problemi urbani, a individuare nella casa popolare il principale tassello costitutivo del mosaico urbano. Del resto anche un intellettuale urbanista di stampo fortemente conservatore come Cesare Chiodi già da tempo sottolinea quanto una politica di sviluppo focalizzata sui quartieri popolari costituisca l’indispensabile contraltare pubblico ai processi di deindustrializzazione centrale metropolitana41.

Quartiere Padre Reginaldo Giuliani – alloggi tipo

Una coscienza del problema che certamente e ovviamente pervade di sé l’ambiente progressista modernista, pronto a individuare nella progettazione razionale della nuova città uno strumento che «Per la prima volta nella storia farà della casa per tutti un mezzo di elevazione sociale e morale delle masse, finendo con questo di essere la casa un elemento della speculazione individualistica per divenire un servizio della organizzazione collettiva»42. A questo va aggiunta sicuramente la presenza sin dagli anni ’20 negli organi dirigenziali dell’Istituto Case Popolari milanese dell’ingegner Giuseppe Gorla, poi Podestà di Milano e Ministro dei Lavori Pubblici che imporrà la Legge Urbanistica43. Una garantita continuità istituzionale che riduce a ben poco le aspre polemiche di ordine più che altro formale tra i giovani modernisti e la scuola locale di tipo garden city con punte avanzatissime da Alessandro Schiavi a Giovanni Broglio.

L’azione di Gorla è strategia dispiegata sul territorio a coinvolgere le migliori energie intellettuali nel progetto di quattro quartieri di espansione , e porre le premesse di un metro di misura qualitativo che riuscirà a sedimentarsi negli anni a venire. Il quartiere Costanzo Ciano, di Albini, Bottoni, Camus, Cerutti, Fabbri, C. e M. Mazzocchi, Palanti, Pucci, Putelli, rappresenta «un altro passo avanti che potrà dirsi compiuto quando la totalità delle abitazioni sarà concepita nella stessa maniera unitaria, non sottraendo a nessuna di queste gli elementi fondamentali di cui dovrebbe essere dotata ogni singola abitazione»44. Dove unitarietà sta a significare inserimento organico nel sistema urbano prima ancora che definizione di cellule autonome o «autosufficienti» nella dizione che prenderà piede nel dopoguerra. Sarà ancora Giuseppe Gorla a cogliere lo spunto della Milano Verde promosso da Giuseppe Pagano sulle pagine di Casabella per le aree dismesse dello Scalo Sempione45, riprendendo l’idea di risarcimento alle classi popolari nella periferia rinnovata già espressa da Cesare Chiodi.

Su scala vasta e ambiente complesso si realizza così la collaborazione tra professionisti e amministrazioni pubbliche già teorizzata tanti anni prima al Congresso degli Ingegneri da Aldo Putelli per una strategia basata su «quattro grandi quartieri nei punti più bisognosi: quattro nuclei, completi ed autonomi, quattro organismi vivi unitari e bene ordinati, concepiti non solo con un criterio razionalmente soddisfacente, ma risolti con desiderio di unità»46. Aldo Putelli e gli altri professionisti citati si associano nel Gruppo Urbanistico a redigere prima una ipotesi di massima dei nuovi nuclei, la cui natura strategica nello sviluppo urbano appare ovvia ed evidente con un semplice colpo d’occhio alla mappa della città. In tre casi i quartieri costituiscono capisaldi di un arco settentrionale della fascia di pianura suburbana industrializzata: «Costanzo Ciano» a nord-ovest tra la zona di San Siro e il Cimitero Maggiore di Musocco; «Italo Balbo», baricentrico agli insediamenti produttivi di Bovisa e Sesto San Giovanni; «Guglielmo Oberdan» a nord-est nell’area di espansione industriale-operaia di Lambrate. Nella fascia meridionale di pianura irrigua il quartiere «Arnaldo Mussolini» si innesta invece nella prospettiva di insediamento del Canale navigabile Milano-Po e conseguente decollo industriale del terminal portuale.

Quartiere Costanzo Ciano

Oltre agli alti livelli di innovazione di progetto e standard47, è da rimarcare qui l’azione dell’Istituto Case Popolari per certi versi divergente dal Piano regolatore di Cesare Albertini che proponeva una sorta di sviluppo isotropo. A cui si sostituisce una logica per poli innestati sulle direttrici di sviluppo radiale e persistenze storiche cara da sempre a certa cultura locale: «l’impianto fortemente caratterizzato e innovatore delle Quattro Città Satelliti, in quel suo distinguersi dalle morfologie insediative storiche che lo rende in apparenza indifferente al contesto, si mostra invece ad un tempo rispettoso verso l’intorno e capace di innestare estesi processi di riscatto»48. Quella dei quattro quartieri resterà soprattutto una enunciazione di intenti, sia urbanistici che sociali e di progetto (alcuni degli studi per esempio confluiranno dall’ipotesi del «Costanzo Ciano» nel dopoguerra al quartiere Gallaratese), ma resta una importante occasione di ricerca e sperimentazione teorica per i giovani entusiasti ma abbastanza poco qualificati progettisti.

Nell’area di S. Siro dove già negli anni ’30 un centinaio di professionisti si era variamente cimentato sul tema dell’abitazione economica49 oggi il concorso per il nuovo quartiere «Padre Reginaldo Giuliani» sembra offrire uno spunto per più avanzate ricerche tipologiche. Il progetto di Aldo Putelli ed Ezio Cerutti, se è possibile anche in questa dimensione ricercare linee di continuità nel metodo, si distingue di nuovo per la sistematicità delle analisi preliminari. Stavolta il rapporto con la città è un dato indiscutibile e non una variante, e i vincoli del Bando non concedono troppi spazi alla discrezionalità interpretativa, ma il gruppo riesce ancora una volta ad imprimere il proprio marchio di fabbrica sugli elaborati. In termini di strettissimo legame con gli obiettivi sociali e la fattibilità del progetto, con la consapevolezza che qualunque contributo brillante ma divergente da quegli aspetti «non verrà però ad attenuare sensibilmente uno stato di fatto che supera la buona volontà dei singoli e anche quella degli Istituti preposti e richiede provvedimenti generali di vario ordine. I quali, non ne dubitiamo, verranno»50.

Purtroppo quegli auspicati indubitabili «provvedimenti generali di vario ordine» non arriveranno affatto, vista la stasi di sviluppo imposta dagli eventi bellici che prima riduce il dibattito alla pura esercitazione teorica o alle pressioni corporative professionali per l’approvazione della Legge Urbanistica nazionale, contiene le motivazioni e spinte sociali che avevano determinato l’approccio di una intera generazione di architetti alla città, e in ultima analisi prolunga un certo limbo progettuale già apparso evidente nel decennio precedente: «prima che gli architetti razionalisti italiani si sentano impegnati a misurarsi col tema dell’abitazione popolare nelle città e in grado di formulare proposte innovative sullo sviluppo urbano sarà necessario un lungo periodo di di studio e progettazione»51.

Il dopoguerra tra continuità e sperimentazione

«La pianificazione burocratica dittatoriale può avere i suoi pregi di semplicità e di rendimento a patto che i pianificatori siano molto in gamba […] Ma se la pianificazione avviene in un paese che ha tradizioni democratiche od almeno nel quale una buona parte dei cittadini ama la libertà questo modo di pianificare non rende più» (Aldo Putelli, 1952)

L’equazione tra urbanistica e politica che aveva fatto da sfondo al primo Congresso INU nel 1937 pare ancora uno dei capisaldi della disciplina, insieme ai suoi più sedimentati apparati scientifici, dopo la caduta del regime fascista e l’inizio ufficiale del dibattito sulla ricostruzione del paese. Ma un profondo mutamento esterno è ora intervenuto a mutare il senso del termine «politica». Un mutamento qualitativo della spazio di intervento per la pianificazione territoriale e urbanistica: aumentano le opportunità , si differenziano le istanze, accelerano i processi evolutivi. Alle aspirazioni di tecnici e intellettuali corrisponde però una società che tende a imboccare processi divergenti difficilmente assimilabili all’impianto gerarchico prescrittivo di cui l’impianto della legge del 1942 era sia simbolo che indizio: sostanzialmente estraneo alle spinte antiautoritarie se non vagamente anarcoidi del dispiegarsi di differenze e particolarismi52.

In questo periodo si osserva come «Gli architetti e i critici che li affiancano nell’ambiente milanese si dedicano ad un attività di studio che pur guardando a modelli europei – in particolare mitteleuropei degli anni Trenta – sono nella tradizione del socialismo riformista milanese: quartieri popolari, Milano Verde, la Città Orizzontale»53. Da questo percorso di ricerca, dalla coerenza di metodo che abbiamo provato a ricostruire sull’arco del lungo decennio di riflessione e sperimentazione, scaturisce ora il Piano AR-Architetti Riuniti. L’amministrazione comunale invita nel novembre 1945 singoli studiosi, gruppi ed enti a individuare le linee generali di un piano regolatore per la città che si misuri col ruolo di fulcro di una vasta regione urbana . Il dibattito sulle ben 96 diverse elaborazioni pervenute occupa trenta sedute tra il dicembre 1945 e il marzo 1946. Temi principali oggetto del contendere sono gli stessi del decennio precedente: metropolizzazione, rilocalizzazione industriale a scala regionale, individuazione di nuovi obiettivi sociali per la disciplina urbanistica.

Il nuovo orientamento può trarre però le proprie connotazioni tecnico-culturali dalle esperienze pregresse, e basta scorrere le mozioni discusse in assemblea per ritrovare i medesimi compagni di viaggio dei concorsi e delle ultime esperienze del Gruppo Urbanistico per i quartieri popolari di espansione e la razionalizzazione della crescita metropolitana. Una sorta di decentramento suburbano (che era sostanzialmente quello già accennato dalla città giardino di Milanino) non più riconducibile alla cultura antiurbana del fascismo, inizia a presentarsi come realtà nel dopoguerra nell’area padana. E ciò che all’epoca dell’aggregazione dei Comuni contermini a Milano e successivo Concorso di piano regolatore negli anni ’20 era qualcosa di semplicemente accennato diventa nel dopoguerra una vera nuova frontiera dello sviluppo e della pianificazione. I convenuti al dibattito sul futuro della regione milanese prendono atto dei processi in corso e la posizione del collettivo è di riconoscere come «la città di Milano non può essere concepita se non come un organo direttivo e motore di tutto un vasto complesso produttivo al quale è inscindibilmente legata e che costituisce una delle maggiori fortune del paese»54.

Focalizzazione dello sviluppo metropolitano nel settore NE/NO che già aveva caratterizzato i tre principali Quartieri Popolari e rifiuto di abbandonare il centro a quella destinazione di downtown in parte già prefigurata nel progetto vincitore del Concorso elaborato da Piero Portaluppi e Marco Semenza, creando nuovi poli di centralità sugli assi regionali in uno schema che contesta quello classico delle circonvallazioni. Sono alcuni dei temi del Piano A.R. Reso pubblico nel novembre 1945 contemporaneamente alla convocazione delle assemblee sui vari schemi urbanistici elaborati dai professionisti. Gli Architetti riuniti sono un gruppo a caratterizzazione politica progressista, comunisti, socialisti, azionisti e simpatizzanti di area, già attivi sia nella Resistenza che nell’associazionismo di settore.

Coerentemente con alcune delle premesse (regionalizzazione, decentramento, terziarizzazione relativa del capoluogo) di cui abbiamo schematicamente ricostruito l’evoluzione negli anni ’30 il Piano «prende le mosse da una caratterizzazione della città nelle sue quattro funzioni principali: amministrazione, commercio, direzione della produzione, cultura. Quanto alla quinta funzione della Milano attuale, la produzione industriale, la presenza in città degli organi veri e propri della produzione (le fabbriche) non è necessaria, anzi nociva»55. La nuova zona industriale secondo la proposta si deve attestare sull’asse regionale nord-occidentale, e precisamente sul previsto canale navigabile tra Svizzera e fiume Po (nel medesimo sistema che aveva visto la localizzazione del quartiere Arnaldo Mussolini sul terminale portuale).

Sempre sull’asse nord-ovest si prevede l’espansione terziaria direzionale in area Sempione nello scalo ferroviario dismesso, scaricando il centro da questa funzione e rendendolo disponibile alla residenza. Il rapporto città regione si struttura per due Assi Attrezzati che si incrociano ai margini del previsto Centro Direzionale. Col Piano A.R. esordisce di fatto in modo compiuto il tema della città-regione che continuerà a interessare il dibattito locale milanese e lombardo almeno per tutta la seconda metà del ‘900. La proposta degli architetti modernisti associati è considerata abbastanza unanimemente dalla critica «uno dei rari prodotti della cultura urbanistica italiana che possa figurare accanto alle più significative proposte sulla metropoli elaborate nel corso di questo secolo»56. E indipendentemente da alcune questioni sia generali che attuative (per esempio il poggiarsi su infrastrutture di complessa per non dire dubbia realizzazione) è la permanenza di lungo periodo dei temi a determinare l’importanza e qualità del Piano A.R. L’area vasta, la fine del modello di città industriale tradizionale, l’uso della tecnologia e dell’organizzazione a fini urbani redistributivi, raggiungono una altissima esplicitazione. E il loro riproporsi nel tempo su tutto l’arco del XX secolo dal Concorso anni ’20 poi col Piano Intercomunale anni ’50-’70 sino alla deindustrializzazione e alla Città Metropolitana, confermano.

Milano poi in realtà inizia a ricostruire, a colmare i vuoti lasciati dalle distruzioni belliche, in assenza di un piano. Agli interessi particolari e al parziale vuoto legislativo dell’immediato dopoguerra sembra sommarsi quella che lo stesso Aldo Putelli da almeno vent’anni indica come la tara dell’urbanistica nazionale: inerzia, abulia, incapacità di farsi carico delle proprie responsabilità. «Ad ogni modo è possibile che in Lombardia una pianificazione a carattere democratico possa essere tentata se si riuscirà a smuovere i burocrati dalle posizioni di privilegio che credono di aver acquisito»57. E certo a ciò può giovare una operazione pilota in parte analoga a quanto tentato prima della guerra coi Quattro Quartieri di espansione. Il QT8 discende evidentemente dalle ricerche degli architetti modernisti milanesi e dalle aspirazioni moderniste dello scomparso Giuseppe Pagano. Nel dopoguerra la Triennale riprende le proprie attività con l’obiettivo di «rivedere le funzioni e i propri mezzi organizzativi alla luce della dura realtà economica e della nuova realtà sociale, o perire» come recita il programma della Mostra imperniata sul tema dell’abitazione «una mostra permanente, sperimentale vivente dell’architettura moderna».

Vivente al punto che ci si vive dentro per generazioni, il quartiere-esposizione è concepito in stretta relazione alla città, su un’area di proprietà pubblica ceduta in diritto di superficie, e destinata a realizzare abitazioni sia popolari che di libero mercato, entro un piano urbanistico e con incentivi alla sperimentazione edilizia, alla prefabbricazione, all’innovazione tipologica. I modelli dei piani attuativi redatti e perfezionati via via testimoniano la continuità col dibattito teorico contemporaneo: da una primissima versione di riferimento anteguerra del 1935 (Bottoni, Pagano, Pucci) si evolvono un primo progetto 1946 del gruppo Bottoni, Cerutti, Gandolfi, Morini, Pollini, Pucci, Putelli, una seconda ipotesi 1950 di Bottoni e Cerutti, e infine nel 1953 del solo Bottoni. Le modifiche, di scarsa rilevanza per le presenti note, sono soprattuto formali e di qualità ambientale del verde58. Soffermiamoci invece sulla versione del gruppo allargano del 1946 che meglio riassume lo stato dell’arte della cultura modernista nazionale e milanese.

Quattro distinti settori residenziali, ciascuno caratterizzato da tipi e densità diverse, convergono su un centro di servizi. Fattore unificante lo spazio verde con un parco lineare lungo il fiume Olona, che si allarga in uno specchio d’acqua all’estremità nord ovest. Tutte le varianti dell’impianto lasciano comunque intatta l’indipendenza tra un settore e l’altro, il ruolo funzionale del verde nel fondere l’insieme, ovvero tutto ciò che secondo la cultura modernista crea «le condizioni urbanistiche ideali per l’architettura moderna»59. Confluiscono gli studi degli anni ’30 e insieme una nuova sperimentazione tipologica specie nel settore meridionale con case a due piani a bassa densità. Anche Aldo Putelli dopo il contributo al piano collettivo 1946 continua la collaborazione con progetti architettonici. Triennale e Ministero dell’assistenza post-bellica bandiscono un concorso nazionale di abitazioni per reduci da concepire dentro «norme urbanistico-igieniche che, svincolando il quartiere dai regolamenti vigenti, promuovano le iniziative e gli studi atti a favorire l’adozione delle migliori soluzioni»60.

Putelli vincerà in gruppo con Gandolfi e Viganò il concorso per il tipo a schiera a quattro letti e per le case abbinate a quattro e sei letti con Cerutti Gandolfi e Viganò, grazie a soluzioni che si distinguono per facilità di realizzazione, cura nell’equilibrio degli spazi e «lirismo della concezione architettonica»61. Con Cerutti proseguirà anche la collaborazione per la sperimentazione sui prefabbricati di edifici a quattro piani in altri settori del QT8. Il quartiere sperimentale rappresenta un caso pressoché unico, una sorta di oasi protetta all’interno della quale si riversano con una certa libertà lustri di ricerche architettoniche tecniche urbanistiche. Da questo punto di vista l’esperienza è un vero e proprio snodo di continuità fra il periodo formativo tra le due guerre e la seconda metà del ‘900 che inizia con il Piano INA-Casa.

Osserva Giuseppe Samonà che il Piano Fanfani può essere considerato al tempo stesso esaltazione di alcune capacità professionali, e luogo di incontro tra intellettuali e burocrazia amministrativa, dalla cui collaborazione soltanto può scaturire un progetto di pratica trasformazione della città italiana62. Quasi alla lettera le medesime questioni sollevate nel 1935 al congresso degli ingegneri da Aldo Putelli, stavolta dentro il programma di creazione di posti di lavoro e modernizzazione sociale pilotata, e specificamente in un contesto come quello milanese dove «proprio l’azione degli Istituti Autonomi per le Case Popolari e degli enti di nuova formazione quali la Gestione INA-Casa, è servita ad accelerare il passaggio dalla fase assistenziale a quella dell’inserimento dell’edilizia sovvenzionata nella politica di sviluppo della città»63. Politica di sviluppo che però non sembra connotarsi come tale mentre la cultura urbanistica nazionale passa al setaccio il proprio apparato teorico, di fronte a una inefficacia pratica della pianificazione che, anche alla scala minima del quartiere, dimostra già negli anni ’50 tutti i propri limiti64.

Milano certo si distingue nel panorama più generale sia per la rilevanza dei problemi che per quella delle risposte almeno culturali. L’azione congiunta dell’Istituto Case Popolari e dell’INA-Casa assume dimensioni straordinarie anche se pare aver perduto in parte nel dopoguerra democratico-liberale quel senso di strategia urbana addirittura alternativo alla pianificazione burocratica ufficiale. Alla proliferazione dei quartieri di iniziativa pubblica non pare accompagnarsi una ricerca d’avanguardia sull’edilizia residenziale e in rapporto alla città, indice se non altro di un arretramento culturale e politico65. Certo come evidenziato dall’esperienza QT8 non scarseggiano certo tra gli urbanisti le energie intellettuali, e neppure quelle di stimolo e intervento dell’Istituto Case Popolari che per esempio prosegue la propria pluridecennale politica di acquisizione di superfici. Ma certo al proliferare dei quartieri non corrisponde una elevazione della qualità urbana, e ciò finisce per allontanare di fatto il mondo culturale professionale da quello burocratico decisionale amministrativo: mentre si raccolgono i frutti del glorioso passato si trascura di prefigurare e coltivare con altrettanto impegno il futuro66.

Piano A.R. per Milano schema urbano

Siamo nel pieno della fase di inurbamento impetuoso di ex contadini speranzosi di diventare qualcos’altro, delle baraccopoli-slum chiamate «Coree» per l’analogia con uno scenario bellico, del primo emergere delle contraddizioni socio-spaziali nei quartieri popolari realizzati in epoca fascista e che evidentemente non corrispondevano nemmeno agli obiettivi dichiarati. Un vero e proprio brusco spiazzamento culturale dei professionisti ben riassunto dalle cifre: contro una popolazione di 850.000 abitanti prevista dal Piano A.R. la città si avvia pochissimi anni dopo ad ospitarne quasi il doppio, e senza neppure calcolare la letterale esplosione dei comuni contermini67. Comprensibile dunque la mancata traduzione in progetti collettivi delle pur interessanti riflessioni individuali così come era accaduto negli anni precedenti. A queste difficoltà esterne alla disciplina si somma una disgregazione del fronte professionale , che riproduce al proprio interno le contraddizioni di quella che Aldo Putelli chiama «ingiustizia economica della pianificazione» fino a demotivare gli urbanisti dal «continuare col metro attuale, nel quale ci sono di mezzo grossissimi affari, con in quali i furbi possono diventare ricchi, avere molti incarichi di progettazione ed essere ossequiati come eccellenti progettisti, mentre gli onesti sono derisi come idioti»68.

Con queste premesse si comprende meglio forse la preoccupazione di chi si era accostato ai problemi urbani vent’anni prima con uno spirito etico prima che professionale: oggi i quartieri crescono come funghi, a volte vengono addirittura progettati da gruppi di lavoro simili in tutto o in parte a quelli del modernismo storico del piano A.R. o del QT8 ma si tratta pur sempre di espansione senza qualità e senza identità che già fa pensare al futuro emblematico disagio delle periferie, esatto contrario dell’idea di comunità evocata dall’autosufficienza o dal vicinato. Secondo Putelli la città è interazione sociale, compito dell’urbanista eliminare le barriere fisiche determinate da una crescita squilibrata e per parti non comunicanti, vuoi attraverso la ricucitura dei tessuti vuoi predisponendo spazi pubblici e servizi carenti. Curioso notare come negli ideologici anni ’50 Aldo Putelli inizi ad essere consapevole di quanto l’impegno sociale dell’urbanista possa manifestarsi prevalentemente in un contributo di carattere tecnico orientato lasciando che sia la società a scegliere i propri percorsi evolutivi.

«Nel 1949 gli architetti del CIAM si sono riuniti ed hanno discusso lungamente il tema del centro del quartiere […] e non sono arrivati a conclusioni sicure ad eccezione di una, che è opportuno lasciare […] si formi un po’ alla volta in relazione ai bisogni che si andranno man mano determinando»69. Sono gli stessi temi del QT8 o dei quartieri popolari che per usare l’espressione di Piero Bottoni «sono stati costruiti con qualche intenzione urbanistica». O usando come esempio un complesso popolare progettato da Putelli con Blasi, Borachia, Fratino, Gandolfi, Morini, Ravegnati, Santi, Vincentini alla Chiesa Rossa lungo l’asse del Naviglio Pavese ponendo al centro una concentrazione di servizi rivolti anche all’intero settore urbano70.

All’espansione popolare in periferia fa da contrappunto una riorganizzazione del centro secondo criteri ben diversi da quelli ipotizzati nel Piano A.R. Il respiro regionale della proposta era stato però colto in una prospettiva del tutto opposta dagli operatori economici71 che concentrano sul nucleo interno del capoluogo una fortissima pressione terziaria innescando la reazione per realizzare un alternativo Centro Direzionale in parte ripreso proprio dal Piano A.R. Il quartiere degli affari in realtà non proprio decentrato anche se esterno alla città murata si colloca a nord tra viale Zara e via Galilei, zona molto danneggiata dai bombardamenti ma definita dalla Relazione del piano «nella direzione corrispondente alle tendenze naturali, spontanee, economiche dello sviluppo della città e della regione»72 dove si incrociano gli assi attrezzati di connessione tra città e area metropolitana.

Col senno di po sembrerebbe sin troppo facile stigmatizzare l’entusiasmo un po’ furbesco con cui Luigi Piccinato saluta il concorso per il Centro Direzionale di Milano individuando una chiara volontà di trasformare il fermento creativo, che anima almeno dal 1937 la cultura urbanistica italiana, in concreti e duraturi segni di organizzazione territoriale, passando sopra le tradite strategie A.R. o alcune lungimiranti indicazioni del redigendo Piano Regionale Lombardo73.

Milano ex edificio Servizi Tecnici Comunali oggi nel complesso «Porta Nuova»

Il progetto di Aldo Putelli con Ezio Cerutti, primo premio ex aequo, si distingue soprattutto per la cura del tracciato stradale, delle gerarchie dei percorsi, secondo una evoluzione di quanto già studiato e sperimentato coi quartieri residenziali: «Queste strade, se danno vita ai nuclei che attraversano, dividono quello che dovrebbe in teoria essere il quartiere in più monconi»74. Nel caso del Centro Direzionale sembra però ripetersi qualcosa già verificato negli anni ’30, ovvero l’uso ideologico del concorso, dove alla magnificenza e spettacolarità delle tavole esposte e delle dichiarazioni pare non corrispondere una stretta aderenza ai bisogni reali75. Prova ne è che la mancata collaborazione tra Enti, per esempio le Ferrovie dello Stato, identificata come l’ostacolo principale alla traduzione dei progetti in trasformazioni urbane, finirà per rallentare e poi affossare tante idee apparentemente impeccabili e ovvie oltre che già soggette a realistica mediazione76.

E tornano in mente per l’ennesima volta le antiche considerazioni sulla necessità di interagire tra amministrazioni e professionisti: dagli anni ’30 agli anni ’60 del XX secolo con le grandi speranze nella programmazione economica, sembra cambiato poco da questo punto di vista. Al centro geometrico del mai nato Quartiere degli Affari Decentrato l’unico segno tangibile dei ben più ambiziosi auspici di Aldo Putelli resta il cosiddetto Pirellino o grattacielo dei servizi tecnici comunali, su progetto in collaborazione con Bazzoni Fratino Gandolfi. Uno degli elementi caratterizzanti lo skyline della zona e che ancora oggi ben regge al confronto con le masse delle nuove architetture globali imposte alla città dalla finanza immobiliare dentro bozzoli privati in cui valgono solo le regole del cosiddetto libero mercato. Poca cosa quell’edifico testimoniale, ma senz’altro coerente col lungo percorso teorico-professionale che abbiamo riassunto in queste pagine.

da: Piano Progetto Città, Semestrale del Dipartimento di Architettura e Urbanistica dell’Università di Chieti Facoltà di Architettura di Pescara, n. 12-13, 1992
Le immagini che illustrano il testo sono dai materiali storici citati nelle NOTE bibliografiche seguenti, escluse Quartiere Costanzo Ciano e Piano A.R. dai volumi Fondazione CARIPLO sulla storia di Milano del ‘900. Pirellino foto F. Bottini 2023. Per descrizioni e immagini del QT8 si veda l’articolo dedicato  al
Quartiere Sperimentale sull’Antologia di questo sito 

NOTE

1 Per esempio non si è mai focalizzato in modo particolare il peso del contributo di Aldo Putelli nei progetti n collaborazione che compongono il percorso professionale, alcuni dei quali come si vedrà assai compositi e molto noti

2 A. Putelli, La collaborazione fra liberi professionisti e Uffici tecnici di Enti Pubblici per la redazione dei piani regolatori, memoria presentata al III Congresso Nazionale degli Ingegneri Italiani, Trieste, maggio 1935

3 V. Civico, «La Mostra di Roma e l’attuale livello dell’urbanistica italiana», Urbanistica VI, 1937

4 A. Putelli, «Le leggi belga, francese ed inglese sui piani regolatori e regionali», Urbanistica IX 1936

5 Cfr. F. Bottini, «Dall’utopia alla normativa: la formazione della Legge Urbanistica nel dibattito teorico», Bollettino DU n. 4, 1984; poi in G. Ernesti (a cura di) La costruzione dell’Utopia. Architetti e urbanisti nell’Italia fascista, Ed. Lavoro, Roma 1988; poi in V. Cazzato (a cura di), Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni ’30, Ist. Pol. e Zecca dello Stato, Roma 2001, Vol. I

6 Cfr. G. Ernesti, Per una ipotesi di storia urbanistica in G. Ernesti (a cura di) Il piano regolatore generale, esperienze, metodi, problemi. Alcune tendenze a confronto, F. Angeli, Milano 1990

7 A. Putelli, La collaborazione … Cit.

8 Cfr. F. Bottini (a cura di) Monza Piani 1913-1997, Clup, Milano 2003

9 F. Reggiori, «Il concorso per il piano regolatore di Monza», Architettura aprile 1934

10 Cfr. V. Testa, «Necessità dei piani regionali e loro disciplina giuridica», Urbanistica, III, 1933, e l’Ingegnere VII, 1933

11 F. Reggiori, «Il concorso …» Cit.

12 A. Melis, «Il concorso per il piano regolatore di Monza», Urbanistica III, 1934

13 P. Chiolini, A. Morone, F. Natoli, A. Putelli, Il Piano Regolatore di Monza, Off. Tip. Gregoriana, Milano 1933

14 Per un confronto con la pubblicistica corrente tra le due guerre sul tema vedi D. Ghirardo, Building New Communities, Fascist Italy and New Deal America, Princeton University Press, New Jersey 1989

15 A. Cian, «Il concorso per il piano regolatore di Novara», Urbanistica III, 1934

16 Cfr. Il piano regolatore di Novara, a cura dell’Ufficio Stampa del Comune dove a pag. 27-29 si osserva che: «Non ci troviamo, come in molte città italiane, di fronte a situazioni irrimediabilmente compromesse da uno sviluppo edilizio disorganico ed irregolare, e neppure il riordinamento della Città è ostacolato dalla esistenza di edifici storici intangibili».

17 P.Marconi, «Concorso per il piano regolatore di Novara», Architettura III, 1935

18 Cfr. «Concorso per il piano regolatore e di ampliamento della città di Vigevano», Architettura IV 1934 suppl. n. 5

19 G. Salvini, Tubercolosi e urbanesimo, in Atti del II Congresso internazionale di Tecnica Sanitaria e Igiene Urbanistica, Reale Società di Igiene, Milano 1932

20 Cfr. G. Zucconi, La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti, Jaca Book, Milano 1989

21 Cfr. R. Fabbrichesi, «La moderna urbanistica e le sue applicazioni alla città di Padova», Conferenza all’Istituto Superiore di Ingegneria, Rivista Internazionale di Ingegneria Sanitaria e Urbanistica II, 1934

22 A. Melis, «Concorso per il piano regolatore di Vigevano», Urbanistica I-II 1936

23 Cfr. Città di Vigevano, Concorso per il piano regolatore e di ampliamento, Stamperia Universitaria Pavese, 1935

24 Cfr. E. Cerutti, Un trentennio di architettura e urbanistica, s.e. Milano 1966

25 Città di Vigevano, Il piano regolatore, Arti grafiche editrici Vincenzo Colonnello, Milano 1937

26 Cfr. A. Putelli, La Casa del Balilla di Monza, s.e. Milano 1934

27 Cfr. A. Putelli, E. Cerutti, G. Forti, Piano regolatore di Alessandria, Concorso nazionale, Off. Tip. Gregoriana, Milano 1939

28 «Il concorso per il progetto del piano regolatore di Alessandria. Relazione della Commissione Giudicatrice», Urbanistica I, 1939

29 Bando di Concorso, artt. 1 e 3 in E. Cerutti, A. Melis, A. Putelli, Verbania – Concorso per il progetto di massima del piano regolatore e di ampliamento della città, Off. Tip. Gregoriana, Milano 1942

30 Cfr. E. Fuselli, «Urbanistica di Mussolini: il Piano Regolatore Nazionale», Quadrante n. 7, 1933

31 Cfr. B. Mussolini, «Cifre e deduzioni: sfollare le città», Il Popolo d’Italia, 22 novembre 1928, che riprende i temi del contrasto all’urbanesimo industriale già esposti nel cosiddetto Discorso dell’Ascensione del 1927

32 Cfr. V. Castronovo, L’Istituto Case Popolari di Milano dal 1908 al 1970 nel quadro della politica edilizia nazionale, in A. Pedretti (a cura di), Case popolari, urbanistica e legislazione, Milano 1900-1970, Edizioni Edilizia Popolare, Milano 1970

33 A Milano sono in molti – per esempio Cesare Chiodi o Cesare Albertini – a considerare già obsoleto sul nascere quell’impianto gerarchico che definito nel 1928 dalle «Questioni Urbanistiche» di Gustavo Giovannoni su L’Ingegnere, passato attraverso tanti Bandi di Concorso di Piano Regolatore, sfocerà poi nella Legge Generale Urbanistica del 1942 dove la scala sovracomunale pur considerata sia dai Piani Intercomunali che da quelli Territoriali di Coordinamento risulta collaterale e non organica all’impianto.

34 Due concorsi per Milano contemporanei nel 1938: uno per la parte meridionale di Piazza Duomo, uno per un Quartiere dell’Istituto Case Popolari; come giudica Ezio Cerutti, per un giovane architetto idealista non c’è alcun dubbio su quale scegliere: «il secondo concorso senza incertezze avvierà allo studio di uno dei problemi più vivi ed attuali e sarà in seguito tema consueto». E. Cerutti, Un trentennio … Cit.

35 Cfr. L’Aerostazione di Milano Linate – Relazione allegata al Progetto dei Dott. Ingg. P. Chiolini, A. Putelli, O. Vanzina, collaboratore E. Cerutti, s.d. s.e.

36 Cfr. per gli aspetti specificamente architettonici del concorso per Linate: R. Giolli, «L’Aeroporto Forlanini di Milano», Casabella febbraio 1938; G.L. Giordani, «L’Aerostazione di Milano Linate» e D. Torres, «La grande aviorimessa del nuovo aeroporto di Milano Linate», Rassegna di Architettura maggio 1938

37 Cfr. «Il concorso di massima per il piano regolatore della nuova Fiera Campionaria di Milano. La relazione della Giuria», Rassegna di Architettura, giugno 1938

38 A. Melis, «Il concorso per il piano regolatore della nuova Fiera di Milano», Urbanistica IV, 1938

39 Cfr. E. Battigalli, E. Cerutti, L. Dodi, G. Forti, A. Putelli, G. Sacchi, La Fiera di Milano e la storia di un concorso, s.e. 1938, Pamphlet polemico che critica la confusione dei fini e temi di concorso

40 All’interno di una cultura nazionale specifica che con pochissime eccezioni è limitatissima se non inesistente, al punto che ancora nel dopoguerra la direzione INA-Casa non potrò fare a meno di rilevare l’immensa ignoranza tecnico-scientifica specifica dei professionisti ritenendosi impegnata direttamente nella loro formazione e guida. Cfr. G. Parenti, Una esperienza di programmazione nell’edilizia: l’INA-Casa, Giuffrè, Roma 1967

41 Cfr. C. Chiodi, Il problema della sistemazione edilizia delle grandi masse operaie dal punto di vista amministrativo, legale, politico, in Atti del convegno lombardo per la casa popolare nei suoi aspetti igienico-sociali, Reale Società di Igiene, Milano 1936

42 P. Bottoni, «Un piano provinciale per la soluzione del problema della abitazione operaia», Lo Stile, marzo 1941; vedi anche «Indagini sul problema della abitazione operaia nella Provincia di Milano e proposte per la sua soluzione», con una introduzione di Giuseppe Pagano, Casabella novembre 1940

43 Cfr. M. Romano, L’urbanistica in Italia nel periodo dello sviluppo: 1942-1980, Marsilio, Padova 1980

44 I. Diotallevi, F. Marescotti, Ordine e destino della casa popolare, Editoriale Domus, Milano 1940

45 Cfr. G. Pagano, «L’ordine. contro il disordine», Casabella-Costruzioni dicembre 1938

46 G. Pagano, «Presagi per la città di domani. In occasione del progetto di 4 moderni quartieri milanesi», Casabella, agosto 1942

47 Irenio Diotallevi e Franco Marescotti nel loro Ordine e Destino della Casa Popolare, cit. sottolineano il livello europeo delle soluzioni del quartiere Costanzo Ciano, col 50% della superficie totale a verde per 17mq/abitante; per un raffronto più ampio tra strategie dell’Istituto Case Popolari milanese e i corrispettivi europei Cfr. G. Pagano, «La casa popolare non è un problema minore», Casabella, giugno 1941

48 Progetto di quattro città satelliti intorno a Milano, 1939-1940, in G. Consonni, L. Meneghetti, G. Tonon, Piero Bottoni. Opera completa, Fabbri Editori, Milano 1990

49 Progetti tecnici «paghi di trovate e soluzioni magari geniali a primo acchito, ma limitate, localizzate ed insufficienti: tendenza finita purtroppo in vizi di forma e di gusto», F. Reggiori, «Il concorso per il quartiere San Siro dell’Istituto delle Case Popolari di Milano», Architettura, gennaio 1933

50 «Concorso per il quartiere di case popolari Padre Reginaldo Giuliani in Milano», Rassegna di Architettura, marzo 1938

51 G. Consonni, G. Tonon, «Giuseppe Pagano e la cultura delle città durante il fascismo», Studi Storici ottobre-dicembre 1977

52 Cfr. G. Ernesti, «Giovanni Astengo e lo sviluppo della cultura urbanistica italiana», Archivio di Studi Urbani e Regionali, n. 38-39, 1990

53 M. Fabbri, L’urbanistica italiana dal dopoguerra a oggi, De Donato, Bari 1980

54 Mozione approvata al Convegno sul piano regolatore di Milano, in C. Chiodi (a cura di), Rendiconto dei lavori del convegno per lo studio delle direttive per il nuovo piano regolatore di Milano, Comune di Milano, 1946

55 «Studi per il Piano Regolatore di Milano», Rinascita, novembre 1945; da cui desumiamo anche l’elenco degli Associati: Albini, Bottoni, Cerutti, Gardella, Mucchi, Peressutti, Pucci, Putelli, Rogers (dopo la Liberazione), Banfi (deportato e morto a Mauthausen), Belgiojoso, Romano, Zanuso.

56 G. Consonni, L’internità dell’esterno. Scritti sull’abitare e il costruire, CLUP, Milano 1989

57 A Putelli, Dei vari modi di pianificare, in Istituto Nazionale di Urbanistica, La Pianificazione Regionale, INU, Roma 1952

58 Cfr. Centro Studi Triennale, Il quartiere sperimentale della Triennale di Milano QT8, Editoriale Domus, Milano 1954

59 Ivi. Sul primo progetto urbanistico del Quartiere sperimentale vedi anche «Il quartiere sperimentale modello QT8 della Triennale di Milano», Metron agosto-settembre 1948

60 T8 Ottava Triennale di Milano – Catalogo Guida, Milano 1948

61 E. Cerutti, V. Gandolfi, A. Putelli, V. Viganò, «Case abbinate da 4 e 6 letti», Domus n. 217, 1947

62 Cfr. G. Samonà, «Il Piano Fanfani in rapporto all’attività edilizia dei liberi profesionisti», Metron settembre-ottobre 1949; ora in G. Samonà, L’unità architettura-urbanistica, scritti e progetti 1929-1973 (a cura di P. Lovero), F. Angeli, Milano 1975

63 C. Ripamonti, L’azione degli Istituti nella pianificazione urbana, in Istituto Autonomo Case Popolari della Provincia di Milano, Cinquant’anni di storia e di attività dell’edilizia popolare in Milano, Ufficio Stampa IACP, Milano 1962

64 Cfr. M. Tafuri, Storia dell’architettura italiana 1944-1985, Einaudi, Torino 1986; in particolare Parte I Cap. 3 Il mito dell’equilibrio. Il Piano Vanoni e l’INA-Casa secondo settennio

65 Cfr. V. Vercelloni, «Alcuni quartieri di edilizia sovvenzionata a Milano», Casabella, luglio 1961; piuttosto interessante sul medesimo numero della rivista anche il contraltare di Aldo Rossi all’esordio con le riflessioni su «La città e la periferia»

66 «L’art. 18 della Legge Urbanistica non è stato applicato dal Comune di Milano» stigmatizza per esempio a questo proposito un disinteresse strategico un titolo di paragrafo da: F. Passani, M.Silvani, «La politica delle aree urbane del Comune di Milano», Edilizia Popolare n. 28

67 Cfr. C. Morandi, Tra espansione e riuso urbano nel secondo dopoguerra a Milano, in AA.VV. La costruzione della Milano moderna, Clup, Milano 1982

68 A. Putelli, «La giustizia economica nelle pianificazioni», Edilizia Popolare n. 7

69 A.Putelli, «Organizzazione di un centro di settore», Edilizia Popolare n. 31

70 Cfr. A. Erba, «Il nuovo quartiere Chiesa Rossa dell’IACP di Milano», Edilizia Popolare n. 52

71 E. Cerutti, «Piano territoriale e Piani comunali in Lombardia», Casabella, gennaio 1959 ribadisce come «I veri pianificatori, se è giusto così definirli, sono gli industriali, le Società immobiliari, gli enti per l’edilizia sovvenzionata»

72 A. Boatti, Il piano regolatore del 1953 e la sua attuazione: dall’utopia del Piano A.R. agli anni della speculazione, in AA.VV. Un secolo di urbanistica a Milano, Clup, Milano 1986

73 Cfr. L. Piccinato, «Il concorso di idee per il Centro Direzionale di Milano, Metron n. 31-32, 1949: «Le distruzioni aperte dai bombardamenti hanno invece riaperto il tema del piano, permettendo di riproporre la questione di un piano regolatore generale»

74 A. Putelli «Organizzazione di un centro …» cit.

75 M. Romano, in L’urbanistica in Italia …, cit. osserva a questo proposito che «se da un lato agli urbanisti non può venir addossata una responsabilità […] nondimeno essi sono pur sempre responsabili di aver messo in circolazione proposte e ideologie che si prestano a un impiego perlomeno ambiguo»

76 Sull’evoluzione del Centro Direzionale: S. Baj, «Note sul nuovo centro direzionale di Milano», Città di Milano, aprile 1956; «Milano, il nuovo Centro Direzionale. Progetto di massima dell’Ufficio Tecnico del Comune di Milano», Casabella, giugno 1962; «Il Piano di Inquadramento Operativo della Zona 2», Casabella, ottobre-novembre 1979

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