No agli OGM urbanistici

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Foto F. Bottini

Com’è bella la città, com’è grande la città eccetera eccetera, ma quale, anche così in genere? Per intenderci, fatta più o meno di che cosa? Le proposte quando si scende dalle affermazioni di principio o dagli slogan ricordano molto certe campagne pubblicitarie di prodotti alimentari, dove tutto è giovane, fresco, dinamico, oppure solidamente tradizionale, casalingo, della mamma, e poi all’atto pratico ci troviamo in mano l’ennesimo salamino o sacchetto di patatine che come ben sappiamo fanno venire la pancia e i brufoli. Allo stesso modo certe soluzioni e trovate rischiano di far venire la pancia e i brufoli, per così dire, alle nostre aree urbane.

Prendiamo una cosa che apparentemente sembrerebbe il massimo della strategia complessa, della joint-venture avanzata fra pubblica amministrazione e impresa, ovvero le grandi riqualificazioni concertate, dove in cambio di certe agevolazioni (urbanistiche, fiscali) atterrano nel bel mezzo di quartieri parecchio in crisi o obsoleti operatori in grado di produrre posti di lavoro, nuove infrastrutture, spazi rinnovati e illuminati bene, per dirla con Hemingway. Prima c’era, per dire, il cratere vuoto di un’area industriale o ferroviaria semi-dismessa, o la macchia grigiastra del quartiere popolare mai davvero integrato al resto della città, ed ecco arrivare le attività e le risorse in grado di far ripartire il metabolismo virtuoso della metropoli. Fin qui la promessa, lo slogan che almeno dagli anni ’70-’80 ci raccontano tutti, nei programmi elettorali, negli opuscoli promozionali, nelle riviste di settore anche universitarie. Ma è vero?

Qualche volta, in parte, è vero: quando gli operatori (il pubblico e il privato) si incontrano al punto giusto, per merito dell’uno, dell’altro, di tutti e due, o anche delle circostanze favorevoli. Molto più spesso, da qualche tempo, si sta replicando un modello diverso, che mi piace definire degli organismi urbanistici geneticamente modificati: modificati perché da un paio di generazioni sono cresciuti in un ambiente extraurbano, quello dell’insediamento disperso dove a furia di farla da padroni assoluti hanno perso la vera adattabilità ed elasticità indispensabili per interagire con un contesto complesso. La cosa vale in modo evidente per due classiche componenti dello sprawl suburbano, il centro commerciale e il parco uffici, ma come ha raccontato ad esempio Anna Minton il giudizio si estende, guardando bene, anche a certi modelli residenziali e mixed-use autosufficienti. Centro commerciale e parco uffici però spiegano in modo più schematico il problema: si tratta di organismi cresciuti come baccelli chiusi, storicamente adattati al vuoto e al sistema automobilistico che li circonda, un adattamento che poi si riverbera sia sul comportamento dell’impresa e di chi essa coinvolge nel metabolismo quotidiano, sia nei suoi rapporti con l’esterno, sia con le sue aspettative.

Il risultato è che invece di rappresentare una cellula in più dell’organismo urbano, queste componenti diventano al loro volta organismi autonomi e configgenti, vere e proprie cisti (di per sé magari molto vitali al proprio interno) che invece di innescare processi positivi o se ne stanno lì neutre, o addirittura fanno danni. Lo aveva intuito in qualche modo Jane Jacobs mezzo secolo fa, contrastando i grandi progetti razionalisti di rinnovo urbano voluti a New York da Robert Moses, o a Philadelphia da Edmund Bacon, e l’hanno sperimentato molto più di recente in Gran Bretagna gli abitanti dei quartieri interessati dalla cosiddetta retail-led regeneration, partita dalle pie intenzioni del libro bianco sulle città curato da Richard Rogers, ma che poi sembra riprodurre vie urbane fotocopia di mall privatizzati e gestiti dalla vigilanza privata.

La stessa scoperta pare oggi confermata nelle città americane dove, complice la crisi, complice la cultura di impresa un po’ influenzata dall’idea di creative class, complice la solita fame di risorse delle amministrazioni locali, si fanno ponti d’oro alle grandi aziende che vogliono trasferire i propri centri direzionali. Si parlato molto (e giustamente male) del nuovo quartier generale della Apple Cupertino, e ora tanto per rimanere da quelle parti la municipalità di San Francisco attende con ansia l’impatto in città di un altro gigante della post-modernità come Twitter. Cosa succede? Succede che il baccello autosufficiente del parco uffici suburbano non smette di essere sé stesso solo per il fatto di sbarcare in città, magari costruito di edifici più alti o densi, con tutte le diavolerie che ci vendono le archistar oggi. Non interagisce col resto, a partire da una constatazione al limite scema, ma innegabile e simbolica: tutto è rovesciato all’interno, compresa la pausa snack. Pensiamo a qualcosa che spesso in Italia suscita polemiche: la pausa caffè dei dipendenti, spesso di uffici pubblici quando diventa occasione di uscita, e secondo molti perdita di efficienza.

C’è però l’aspetto, che diamo per scontato, del rapporto col quartiere e la città, i bar che lavorano per quella clientela, i negozi che fanno da complemento ai bar, il quartiere vivo e attraente che magari si arricchisce pure delle abitazioni di chi lavora negli uffici, e da ora in poi potrà andarci a piedi … Beh, tutto questo non succede, non può succedere, se l’astronave terziaria che atterra nei quartieri è concepita in tutto e per tutto (dall’organizzazione di spazi e tempi, ai servizi, alle forme del rapporto fisico col contesto) come baccellone chiuso e rivolto al proprio interno.

In altre parole, le cosiddette scintille che dovrebbero accendere il motore dello sviluppo di una civile convivenza non servono a nulla se manca tutto il resto, e non sono neppure scintille se vengono concepite senza nessun rapporto serio con tutto il resto. Non basta qualche conto di massima sulle sezioni stradali, la dotazione di strade e eventualmente reti di trasporto collettivo, il verde, magari la superiore qualità edilizia a bassissimo impatto (come visto nel caso della Apple).

Ci vogliono urbanistica in senso lato, e politiche urbane complesse, dal commercio di prossimità, al rapporto governato fra spostamenti locali e di raggio più ampio, alla qualità e gestione degli spazi pubblici, alla mescolanza sociale che tra l’altro riesce a garantire non solo una vaga democrazia, ma anche vitalità di tutti i servizi. Altro che «lasciamo fare il mercato»! Giusto e sacrosanto, evitare dirigismi controproducenti, esattamente come quelli che hanno determinato nel ‘900 i quartieri monofunzionali e monoclasse oggi in piena crisi. Ma altrettanto da evitare è quel tipo di fiducioso laissez faire predicato da chi legge la città solo come macchina per produrre redditi monetari.
Sostenibilità significa molto più che non calcolo di emissioni, quantità di superfici impermeabilizzate, bilanci energetici e via discorrendo. Significa soprattutto abitabilità ed eguaglianza: senza queste, prima o poi (di solito prima) qualunque equilibrio salta. Se si interviene solo con trasformazioni edilizie, di solito il problema del degrado non viene risolto, ma semplicemente spostato, magari esattamente nelle aree libere che si dice di voler tutelare densificando. Succede con lo sprawl suburbano nelle metropoli dei paesi ricchi, succede con l’estendersi dello slum sulle ex superfici agricole in quelle povere. Quindi la risposta alla complessità delle sfide attuali non sta affatto in ricette semplici, di tipo tecnologico o economico, ma in più programmazione complessa.

Sostenibilità è mescolanza di ceti, etnie, fasce di reddito, il che non significa appunto scagliare chicchessia in una improbabile melting pot metropolitana. È quanto fatto nella seconda metà del ‘900 coi grandi quartieri popolari di tutte le città industriali occidentali, e lì non è certo tutta colpa degli architetti razionalisti coi loro tetti piatti e gli edifici in linea, se poi sono emersi così tanti problemi di integrazione. In effetti a ben vedere che rapporto diretto ci sarebbe fra le oggi detestate (a parte dagli storici dell’architettura) forme del quartiere a unità d’abitazione e spazi aperti, e il tipo di problemi sociali, economici, di degrado che questi quartieri hanno determinato o consolidato?

Nessuno, salvo che quelle cose sono successe lì, e addirittura qualcuno si stupisce perché a volte succedono anche altrove, che so, in un quartiere di villini con le strade serpeggianti, come se la Storia fosse una specie di duello a distanza tra il fantasma di le Corbusier e quello di Raymond Unwin! Perché quello che sta accadendo con certe riqualificazioni urbane a senso unico, è esattamente l’esportazione dei medesimi problemi dai vecchi quartieri razionalisti alla fascia suburbana e esurbana, e per ora ci salva (sul versante esclusivo della percezione) proprio il fatto che i problemi sociali, economici, sanitari ecc. risultano diluiti esattamente dallo sprawl insediativo. Ma ci sono e anzi peggiorano, mescolandosi all’emergenza ambientale. Si tratta ad esempio di un dato rilevato dall’ufficio censimento degli Usa, dove da parecchio tempo si osservava la suburbanizzazione delle minoranze etniche a redditi medio-bassi, e ora emerge un vistoso spopolamento dei tradizionali quartieri neri popolari centrali.

Perché una città o un quartiere risultino socialmente ed economicamente sostenibili (oltre certe valutazioni semplicistiche che leggono solo le valutazioni immobiliari) giocano da sempre un ruolo centrale gli aspetti della qualità della vita, intesi come media abitabilità per tutte le fasce di reddito e di età. Prendiamo il classico quartiere centrale, del tipo decantato dai cultori della creative class: qui la faccenda è chiara, perché la rivalutazione di prezzi e affitti esclude tutti coloro che non sono giovani professionisti senza figli, nonché tutti i servizi che non si rivolgono specificamente a loro. In effetti un bambino medio di sei anni non ha molto a che vedere con le caffetterie, e men che meno con le gallerie d’arte, né una trentenne informatica con gli asili nido: se e quando deciderà di mettere su famiglia, di solito il mercato la spinge a cambiare quartiere, a volte anche città e lavoro.
Ci sono però altri aspetti, anche più gravi, spesso aggirati da piani e programmi pubblici, nonostante salti da anni all’occhio il vistoso difetto dei meccanismi spontanei di domanda e offerta a risolvere il problema: la salute dei cittadini.

La salute in senso lato, così come la si affrontava ad esempio nei piani ottocenteschi, con i pur discutibili sventramenti, le fogne, i parchi ecc., ovvero non semplicemente intervenendo su un solo aspetto, che di solito nel XXI secolo è il traffico automobilistico. Anzi, a volte fra i peggiori nemici delle pedonalizzazioni, pensate a migliorare l’abitabilità, ci sono gli esercenti di vicinato. Sta di fatto che sempre più spesso emerge come fra i vari motivi di degrado e segregazione ci sia la qualità della dieta che gli abitanti di un quartiere riescono a mantenere mediamente. La cosa ha risvolti vari, ad esempio nel suburbio o nella città compatta vince la logica del grande supermercato con spostamenti in auto per la clientela e in camion per le derrate. Contro questa logica si sta affermando da alcuni anni la politica cosiddetta del chilometro zero, coi suoi risvolti urbanistici di mantenimento di un vitale e vicino territorio agricolo, e di altre forme integrate di verde produttivo, orti, tetti verdi, serre, idroponia ecc.

C’è però l’altro aspetto, tipico dei quartieri poveri centrali, di dominanza di una certa distribuzione alimentare di quartiere, a suo modo capillare e ubiqua: quella del fast food. Che sta diventando da un lato una risorsa perché in quanto spazio che attira persone in luoghi “pubblici” vivacizza zone che altrimenti sarebbero morte, ma diffonde comportamenti alimentari micidiali. Che fare? Una delle risposte è quella di una joint-venture pubblico privata come sperimentato a New York dal programma F.R.E.S.H. per premiare con facilitazioni urbanistiche e fiscali chi riesce a portare in queste aree un’offerta economica di cibi sani e freschi, alternativa ai prodotti industriali e confezionati che spesso sono l’unica fonte per chi non può affrontare lunghi spostamenti (anziani, giovanissimi, chi in genere non ha l’auto) verso le aree dove queste strutture esistono.

C’è però un modo più diretto e interventista, ovvero introdurre nelle norme urbanistiche di zona un espresso divieto di insediamento ai locali e chioschi che offrono questo tipo di alimenti, specie entro un certo raggio dai luoghi frequentati da giovanissimi, come scuole o palestre ecc. Naturalmente ci devono poi essere programmi per incoraggiare un’offerta alternativa di cibi sani, e si spera anche gustosi e a portata di borsellino. Perché la città sostenibile non diventi, come qualche volta sotto sotto qualcuno inizia a pensare, una lagna noiosissima da cui scappare appena possibile

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