Per un vero ritorno alla «normalità urbana»

Foto J.B. Gatherer

Le emergenze da qualunque tipo di evento socialmente traumatico, che si tratti di catastrofi naturali, emergenze industriali o, come oggi, mutazioni della natura indotte da attività umane che producono pandemie, significano stravolgimenti dello spazio: funzioni prima considerate indispensabili che perdono qualunque senso, e nuove che si impongono, secondo criteri che possono apparire a dir poco sovversivi rispetto agli equilibri della complessità. Cambi radicali di destinazione d’uso con procedura eccezionale di emergenza, spesso promossi con incredibili forzature ma sulla spinta di una oggettiva urgenza da chi, molto semplicemente, aspettava giusto l’occasione per forzare regole non condivise. Possiamo anche concedere che esistano due prospettive per queste forzature: quelle in buona fede di chi considera la programmazione e le sue regole inadeguate ai ritmi evolutivi imposti dalle cose; e per converso quelle in malafede di chi invece crede di potersi benissimo regolare da solo e cerca scappatoie qualsivoglia. Entrambi però contrappongono il progetto al piano, come metodo, e non tengono nel dovuto conto la complessità e la necessità di qualche equilibrio: ambientale, sociale, decisionale, che è quanto ricercato pur in maniera imperfetta da piani e programmi.

Spazio, tempo, qualità

Negli anni più recenti in tutto il mondo si sono sperimentati i cosiddetti usi temporanei dello spazio urbano, per rispondere a varie esigenze. La parola «sperimentare» qui risulta piuttosto importante, e sottolinea l’elasticità del concetto: al cambiare dei risultati la sperimentazione resta comunque valida, visto che non si rivolge al merito, ma al metodo. I pop-up-shop che spuntano dai rilevati ferroviari dismessi in un quartiere dove quei luoghi erano diventati elemento di degrado e rischio, o i microambienti stradali dell’urbanistica tattica, con le aiuole autogestite, i parklet componibili pubblico-privati, le occupazioni abusive di immobili in qualche modo ratificate congiuntamente dall’amministrazione e dalla proprietà, tutto rinvia al medesimo concetto: il qui e ora apparentemente contraddittorio con ciò che dovrebbe essere permanentemente, ma a prefigurare altro. È la temporaneità insieme alla sperimentazione a conferire dignità di modello al metodo, una sorta di implicita variante di destinazione d’uso continua, che si sostituisce all’antico «per ogni funzione uno spazio», o almeno alla sua interpretazione meccanica incorporata da leggi norme e diritto. L’invariante urbana di riferimento non dovrebbe più collocarsi nell’organizzazione fisica dello spazio ma in altre prestazionalità, ad esempio sociosanitarie, ambientali, socioeconomiche, climatiche, energetiche: scientificamente determinabili e monitorabili così da fissare uno standard di riferimento.

Programma, Piano, Progetto

Questo in sostanza il risultato degli spazi temporanei sperimentali: fissare nuovi paradigmi per un ripensamento fondamentale della città e del territorio. Del resto in che altro modo pensare di «regolare» le trasformazioni edilizie e infrastrutturali a fronte di cambiamenti epocali come quelli degli ambienti di lavoro-telelavoro, dei tempi di pendolarismo sempre che si possa anche definire così la rete degli spostamenti, o delle emergenze che si susseguono l’una all’altra ribaltando situazioni e contesti? La trasformazione avviene sulla base di un programma dai capisaldi definiti, ma senza determinanti spazio-funzionali classiche come la destinazione d’uso, che sarà invece soggetta a fluttuazione. Se questo influisce sul «mercato immobiliare», beh, che lo stesso mercato immobiliare se ne faccia una ragione, invece di giocare sottobanco proprio con l’emergenza. Tutti i risultati delle esperienze di temporaneità urbana, esaminati in modo oggettivo e sistematico, indicano la medesima direzione: anche oggi nell’inedita emergenza sociosanitaria (che poi diventerà economica, e poi di nuovo ambientale …) si mescolano prospettive di breve, medio, lungo termine, delineando una alternativa. Dalla crisi economica del 2008 è scaturito un raddoppio delle esperienze di uso temporaneo in alcuni casi, e di queste molte non hanno resistito al «ritorno alla normalità» successivo. Anche questa è una indicazione di metodo, perché il cosiddetto Stato Nascente forse non è stato valutato in modo adeguato. Forse gli usi temporanei dell’emergenza pandemia potranno stabilizzarsi meglio, sia perché forse rispondono a una necessità più profonda (quella di un uso meno meccanico e casuale dello spazio). Ma resta aperto il tema di fondo: oltre i singoli progetti e interessi puntuali, quale città vogliamo? E come verificare che si stia realizzando?

Riferimenti:
Michael Martin, Stephen Hincks, Iain Deas, Temporary use in cities: Looking beyond the exceptional, Urban Studies, 18 febbraio 2020

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