Quanto mi costa, l’auto del vicino!

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Foto J. B. Gatherer

La letteratura sul territorio via via costruito a misura per l’automobile, praticamente coincide in positivo o in negativo con la storia della città moderna. Nel senso che ci sono i favorevoli, dai figli delle avanguardie novecentesche auto-battezzati «razionalisti» (gli altri poveretti erano considerati irrazionali, si vede) in poi, e le schiere di scettici, conservazionisti, portatori di culture alternative dall’altra parte. È con l’automobile che arriva a maturazione e si dispiega davvero quell’idea di città dai grandi spazi apparentemente aperti solo intuita dagli sventramenti ottocenteschi: spazi aperti per nulla vuoti e disponibili, ma che via via saranno colonizzati e concepiti ad hoc proprio per la nostra nuova appendice meccanica, che li occupa fisicamente, suolo, aria, acqua, e virtualmente infilandosi anche da sempre nel portafoglio dei cittadini, anche di quelli che le auto neppure le vedono.

Questa dell’invasione armata del portafoglio altrui, è una tesi da sempre sviluppata dagli avanzati (nel senso di forzosa consapevolezza) americani, almeno da quando il grande programma di crescita militar-industriale basato sul sistema autostradale nazionale iniziava a mostrare spudoratamente le sue magagne, per esempio coi fallimenti pilotati delle aziende locali di trasporti pubblici, classificate «diseconomiche» dopo le scalate delle stesse compagnie automobilistiche. La tesi di fondo è che esista una cosiddetta banda di strada (road gang) , che attorno all’opera pubblica della strada mangia a quattro palmenti le nostre tasse, sotto forma di sostegni diretti alla costruzione delle opere, e indiretti a tutto il resto, inclusa benzina, assicurazioni, stili di vita indotti che obbligano ad altri consumi, e giù in una spirale che non fa pensare a Matrix per un solo motivo: perché molto probabilmente la trama del film non richiedeva in fondo troppa fantasia, bastava guardarsi attorno nel parcheggio di uno scatolone qualunque circondato da uno svincolo, e fare due conti.

Il centro delle critiche alla contemporanea way of life le cui forme sarebbero decise nei consigli di amministrazione delle case automobilistiche anziché dai cittadini o dai loro rappresentanti eletti, stava sinora però in un ambito abbastanza limitato: la quota di investimenti pubblici orientata ai trasporti collettivi, o non motorizzati, rispetto a quella della mobilità automobilistica. Cosa verificabile da qualunque pedone o ciclista, per esempio, notando che qualunque passo carraio viene immediatamente e perfettamente dotato di scivoli e altri ammennicoli adeguati, mentre biciclette, anziani, passeggini, carrelli spinti a mano, devono a meno di lotte degne di miglior causa accontentarsi a volte per anni, a volte per sempre, di soluzioni rabberciate. Questo stato delle cose, e tutta la cultura e percezione collettiva che lo circonda, salta all’occhio per esempio nel recente dibattito sugli standard a parcheggi, dalle ultime ordinanze e varianti di Manhattan al pubblicizzato caso europeo dello Shard londinese progettato da Renzo Piano. In queste e altre situazioni è bastato domandarsi: perché buttare soldi per far arrivare si lì qualcuno e sistemare la sua auto, quando ci può arrivare molto più comodamente in altro modo?

La risposta era abbastanza ovvia, ma a posteriori va detto che anche le enormi resistenze culturali (si tratta ancora, non dimentichiamolo, di incredibili eccezioni) e istituzionali la raccontano lunga sulla logica da Matrix in cui stiamo placidamente immersi. Esistono leggi nazionali e locali, tali da coprire tutta la superficie del globo, che prevedono per diritto a ogni automobilista ettari asfaltati vuoi su strada quando si muove, vuoi altrove quando sta fermo, e arriviamo all’assurdo se si aggiunge che un’auto statisticamente sta ferma in media molto più di 23 (quasi 24) ore al giorno! Non è un errore di stampa: la vita di un’automobile in termini di tempo trascorre quasi tutta nell’immobilità del vostro box, o nell’autosilo del centro commerciale, o nel piazzale dietro al palazzo dell’ufficio. E come rimarcato all’inizio e fin qui, l’auto occupa posto, ci scarica fumi in gola, ci svuota il portafoglio sia direttamente che indirettamente, consentendoci però di andare da qui a lì, asciutti quando piove, eccetera eccetera, perché ce la siamo comprata, paghiamo il bollo, l’assicurazione, la benzina … Falso! C’è una buona quota dell’investimento necessario a farci andare da qui a lì guidando, che viene pagata dalla collettività. Anche il lattante su cui scarichiamo direttamente le nostre sgasate facendo manovra nel parcheggio mentre sua madre arranca col passeggino per attraversarlo (di solito senza scivoli: la fiscalità non li prevede) paga mezzo migliaio di euro abbondanti l’anno per consentirci di sgommare via felici e contenti dopo averlo innaffiato.

Sono i calcoli di uno studio dell’Università di Dresda pubblicato tempo fa, e dal titolo già da solo rivelatore: I veri costi della mobilità automobilistica. Che come tutte queste ricerche sistematiche parte dalla classica domanda: anche accettando che tutto questo sia ineluttabile, come sono distribuiti gli oneri e i vantaggi del modello? La risposta dei puntuali ricercatori tedeschi è che dal punto di vista sociale l’intera rete diretta e indiretta della mobilità automobilistica si basa su una profonda ingiustizia, che loro chiamano pudicamente «inefficienza». La circolazione automobilistica esternalizza allegramente, ci scarica addosso proprio come quel tubo di scappamento sul bambino, 3-400 miliardi di euro l’anno, calcolati sui 27 paesi dell’Unione, compreso il malcapitato giovinetto che si muove spinto da sua madre e mai si sognerebbe di pagare la sua quota di 750 in cambio del puzzolente sbuffo. Quelle macchine insomma, oltre ai guai ben noti, ne fanno pure un altro forse più percepibile immediatamente dalla collettività attenta al bilancio: per funzionare non si pagano affatto da sole il pedaggio, lo fanno pagare un bel po’ anche a noi. Il danno, la beffa, e il danno aggiunto.

Detto in altre parole, il traffico che intasa arterie urbane, suburbane, rurali di tutta Europa, che peggiora la qualità della vita di tutti i cittadini, che interferisce con tutti i tentativi di sviluppare modi di movimento diversi, con la vita di tutti i giorni, è fortemente sussidiato anche da chi non ha nessun rapporto con esso: per esempio un signore che abita in una baita delle Alpi, beve il latte delle mucche locali, va a piedi su e giù dal villaggio per le piccole necessità a cui non può rispondere da solo, ma in quanto cittadino europeo contribuisce alla fiscalità generale. Sarà contento, di sapere che c’è un po’ di lui in quella brodaglia giallastra che a volte invade l’orizzonte verso la pianura della megalopoli? Mah! E la stessa cosa vale anche per le famose future generazioni, quelle che ispirano tutte le chiacchiere sulla sostenibilità per intenderci, i bambini lentigginosi dei manifesti pubblicitari del nuovo modello dove stanno famiglia, bagagli, e sussidi naturalmente. Che fare? Come ben noto, di fronte a una patologia prima si agisce, meglio è, esistono probabilità in più di riuscire a combinare qualcosa di buono.

Gli scienziati suggeriscono che da subito sia indispensabile monitorare e aggiornare questa cosa dei costi esterni collettivi, rendendola chiara, esplicita, trasparente. Cioè la scienza dice l’esatto contrario di quel che vorrebbero le case automobilistiche e i «ragionevoli moderati», moderati in tutto salvo quando si tratta di ragioni proprie. Una volta capito esattamente quanto via via ci costa il disastro, si capisce anche quanto possiamo e dobbiamo investire nell’uscita dall’ingorgo secolare, che (non va dimenticato) produce quella cosettina chiamata cambiamento climatico. Ecco che la libera scelta democratica di andarsene ovunque e sempre in macchina, anche per il re consumatore, diventa un tantino meno opaca nei suoi aspetti di costo sociale, e deve essere valutata, prezzata, giudicata. Magari, un pochetto scoraggiata, se non si offende nessuno. Non con l’uso della forza pubblica, ovviamente, ci sono tanti altri metodi, fra cui quello di investire quote di quelle cifre da capogiro nei trasporti collettivi, o promuovere alternative residenziali, di lavoro, di servizi e tempo libero, economicamente accessibili.. E sottolineo economicamente, perché quando si paga davvero un prodotto o un servizio, ovviamente poi si comincia a chiedersi se serve, se vale la pena, se piace, o se si può farne a meno visto che esistono tante altre cose comode.

E, ci dicono sempre gli scienziati, c’è tutto un mondo da rifinire in questo senso, perché economicamente se spendo tutto lo stipendio solo guidando fino al centro commerciale, poi non potrò più farci la spesa, e il sistema consumistico collassa. Ergo cominciamo con previsioni urbanistiche che mi avvicinino quel centro commerciale, così che magari posso andarci a piedi, e la stessa cosa per il posto di lavoro, la scuola dei bambini, l’ufficio anagrafe per quella firma sul certificato. Si chiama nuova idea di quartiere, e come tutte le cose nasce un pochino dal criterio del guardarsi indietro, chiedendosi: dove abbiamo cominciato a sbagliare? E scoprire che fra i primi a sbagliare, ma non era certo colpa loro, ci sono stati alcuni padri del conservazionismo, quando dicevano che per modernizzare la città bisognava fare dei grandi piani regolatori che ne adattavano gli spazi alle esigenze industriali, di mobilità, di relazione. Certo quei piani non erano perfetti, lo si riconosceva: la perfezione stava giusto oltre l’angolo, quando i progressi della scienza e della tecnologia avrebbero permesso di evitare le fratture della modernizzazione, adattando tutto virtualmente, come già allora succedeva col telefono per certe comunicazioni. Oggi, coi telefonini e tutte le chiacchiere a proposito e sproposito di Smart City, forse ci siamo arrivati, a quel punto. Ma siamo anche arrivati al punto di esternalizzare la «inefficienza sociale» della modernizzazione automobilistica, come la chiamano neutri gli scienziati, inascoltati dalle sordissime case automobilistiche e dai «ragionevoli moderati», quelli che moderano soprattutto il buon senso. Allora, riassumendo: la scienza ci indica una direzione, saremo razionali oppure avventatamente istintivi? Che migliore istinto c’è, almeno oggi, di quello dettato dal portafoglio vuoto?

Riferimenti:
Università di Dresda, The true costs of automobility: external costs of cars overview on exixting estimates in EU-27, 2012

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