Quel maledetto ultimo miglio

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Foto J. B. Hunter

Pare siano tantissimi i ragazzini che girando da turisti coi genitori per Venezia, chiedono quasi subito: «Ma qui la gente tiene parcheggiata la barca sotto casa per andare a scuola o a fare la spesa?». Non sappiamo cosa esattamente gli risponda il genitore (o l’insegnante della gita scolastica) interpellato, ma è assai probabile che si tratti di un «Si», variamente contestualizzato, anche se guardando con un minimo di attenzione il traffico, sia pedonale che di natanti, un occhio un minimo attento dovrebbe notarla, quell’anomalia: quelli che camminano sono cittadini in movimento per tutte ma proprio tutte le necessità, mentre chiunque sta su una imbarcazione (esclusi i vaporetti del trasporto pubblico) sta portando qualche carico pesante. Manca insomma ciò che in quasi tutte le altre città del mondo rappresenta la norma, ovvero il veicolo con uno o al massimo due passeggeri a costituire la norma anziché la rarissima eccezione. Ma questo risulta inconcepibile per il ragazzino, e i suoi genitori, che così si inventano un mondo di fantasia adeguato a ciò che dovrebbe essere normale, con le barchette al posto delle utilitarie. Sentendosi finalmente un pochino più a casa in quel luogo non familiare dallo strano odore. Questa è la forma mentale che ci ha plasmato addosso un secolo di automobilismo, pervasivo non solo per le forme urbane, ma per il modo in cui funziona il nostro cervello nell’orientare comportamenti e aspettative.

L’unico e la sua proprietà

Da notare che la svista veneziana non è affatto tecnologica o organizzativa, ma tutta sociale e di immaginario: in effetti esiste un normalissimo traffico pedonale su percorsi brevi e medi, affiancato da un altrettanto normalissimo traffico veicolare sui percorsi più lunghi e per i carichi ingombranti. Quello che cambia è l’individualismo proprietario, sostanzialmente, ma si tratta proprio del genere di cosa tale da modificare radicalmente tutto il resto: la «barca di famiglia parcheggiata sotto casa» immaginata dal ragazzino, avrebbe ribaltato immagine e sostanza di Venezia, ma la città ha sottilmente respinto quel modello, probabilmente ingestibile in quegli spazi. Non così tutte le altre città, e tutte le altre popolazioni urbane, che proprio non riescono a concepire l’idea che si possa vivere in modo diverso, almeno sino a tempi piuttosto recenti. Almeno finché qualcuno non ha iniziato a pensarci, introducendo l’idea di multimodalità, di condivisione, di riconversione tecnologica e organizzativa. Secondo il processo che si chiama in gergo «demotorizzazione» e vede le case automobilistiche smetterla di venderci le loro quattro ruote familiari attorno a cui immaginare le nostre giornate, il lavoro, lo shopping, il tempo libero, a volte anche il sesso e tanto altro, tutto dentro o attorno al feticcio novecentesco. Demotorizzazione vuol dire superare quell’idea proprietaria individuale, non mettere fine all’esistenza delle automobili, o delle case automobilistiche che ce le vendono, anzi.

Dal prodotto al servizio

Cosa ci può vendere, una casa automobilistica, se non ci vende un’automobile? Beh, non facciamo domande sceme, di tipo un po’ «veneziano». L’automobile di fatto ce la vende comunque, la casa automobilistica, ma semplicemente non lo fa secondo il modello proprietario che sta tramontando, lentamente ma tramonta. A partire dalla seconda auto urbana delle famiglie, un tempo aspirazione di chiunque, oggi non più per un sacco di ragioni, dal parcheggio al fastidio ai costi di manutenzione per un veicolo che, uscendo dal solito ragionamento automatico, di fatto non serve, se non per il cosiddetto Ultimo Miglio. Che può essere l’occasione particolare, o proprio l’ultimo pezzo di strada, o perché piove, o si ha timore in una zona che non si conosce, cose così. Esattamente il tipo di trasporto coperto dai servizi di car-sharing, e sarà questo l’obiettivo delle case automobilistiche, cioè produrre modelli dedicati, elettrici, sostenibili, e magari gestire direttamente le reti di ricarica, la produzione di energia locale da fonti rinnovabili, lo stesso servizio di gestione e manutenzione dei mezzi. Non si tratta di una fantasia di qualche strambo ricercatore, o politico visionario, ma semplicemente di ciò su cui stanno lavorando sodo proprio le case produttrici, ben consapevoli che pur lentamente, quello che pareva un mercato in crescita esponenziale si sta invece riducendo, man mano aumentano le questioni ambientali, energetiche, petrolifere, urbane e sociali. Chi l’ha capito per tempo, probabilmente arriverà prima e avrà un vantaggio concorrenziale con chi continuava a immaginare una società e un pianeta urbano in via di estinzione, almeno in quelle forme.

Riferimenti:

Suzanne Goldenberg, As cities fall out of love with cars, Toyota redefines its role as ‘mobility provider, The Guardian, 20 agosto 2015

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