Raffreddate il pianeta: l’ha ordinato il medico

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Foto F. Bottini

La corrente prospettiva da ragionieri nell’osservare il mondo, come ben noto, provoca sbadigli durante le conferenze sul cambiamento climatico, salvo quando si parla di conti in rosso. Parlare di livello dei mari che si alza, di città costiere che rischiano di essere spazzate via, o di micidiali siccità che desertificano intere regioni, alla classe contabile al potere fa giusto sollevare educatamente qualche sopracciglio. Le poltrone in sala iniziano a traballare solo e soltanto quando iniziano a comparire gli effetti economici (del resto piuttosto ovvi, visto che l’economia è uno dei tanti modi di confrontarsi con l’ambiente circostante) di quei gradi di temperatura in più, di quei centimetri di livello del mare in più, di quella calotta polare in meno eccetera. E probabilmente si deve allo sbilanciamento tutto finanziario dell’idea di economia dei nostri ragionieri, se nessuno salta mai nemmeno un po’ sulla poltroncina quando si trattano gli effetti del cambiamento climatico sulla salute.

Clima urbano avvelenato

Ovviamente, anche a causa dei soliti onnipotenti scettici e negazionisti, di effetti del clima sulla salute urbana se ne è parlato tardi e poco, ad esempio una decina di anni fa quando l’ondata di alte temperature estive faceva strage di anziani nelle metropoli europee … e un ministro consigliava di passare interessanti pomeriggi al centro commerciale (che per far funzionare gli impianti di aria condizionata peggiorava ulteriormente il clima globale). E gli anziani, che in massima parte non lavorano in borsa, non si leggono nelle quotazioni, spesso non lavorano neppure in fabbrica o in ufficio, non comparivano né compaiono sui radar dei nostri ragionieri. Se compaiono come problema sociale e sanitario, come costo per il welfare, la soluzione solita è quella di tagliare il welfare e andare avanti come prima. Ma la cosa, gli effetti nefasti intrecciati del cambiamento climatico, non riguarda solo gli anziani, o tutte le altre fasce di età se è per questo: riguarda il medesimo metabolismo cittadino che sta alla base delle attività economiche, detto comunemente vita. Cosa succede, dentro a questo metabolismo cittadino, più o meno?

Ammalarsi è un lavoro

Solo per restare nell’ambito del riscaldamento in sé, ovvero dell’aumento delle temperature e del loro effetto diretto, citato nel caso degli anziani (quelli che non hanno seguito i consigli del ministro) nelle metropoli europee, va detto che solo i decessi sono molto maggiori di quelli visibili nelle statistiche ufficiali, perché nel corso delle ondate termiche le cause continuano ad essere stabilite in cose come l’arresto cardiaco, o un generico aggravarsi di patologie precedenti. Diventano più gravi i problemi connessi alle varie forme di depressione, demenza, problemi psicologici in genere, consumi di sostanze a rischio. Cosa che dovrebbe forse far suonare un campanellino in più nella testa dei nostri contabili, ci sono effetti abbastanza diretti sulla produttività del lavoro con l’innalzamento delle temperature: chi opera all’esterno (il famoso settore trainante dell’edilizia fuori dalle sole statistiche, eh?) secondo calcoli sistematici vede ridursi del 10% la capacità lavorativa durante i mesi estivi. Si valuta anche che la quota sia destinata complessivamente a raddoppiarsi almeno nel 2050, e se vale per i climi temperati pensiamo a cosa succede in quelli più caldi.

Diagnosi e terapia

Come ci insegnano però da un paio di secoli gli studi urbani, malattia e terapia convivono dentro al medesimo crogiolo, si tratta semplicemente di riequilibrare le varie componenti in un senso o nell’altro, cambiando la prospettiva. Ce lo insegnava già in fondo il medico John Snow sfruttando gli stimoli dell’ambiente denso e infetto londinese per scoprire i meccanismi di diffusione del colera, e i criteri di prevenzione, innescando una serie infinita di innovazioni. Osservato da questo punto di vista, il cambiamento climatico è un classico caso in cui tutto si tiene, come nel consumo esagerato di carne pro capite, che corrisponde a metodi di allevamento perversi e pompa gas nocivi nell’atmosfera. Il danno per la salute è doppio: per la dieta sbagliata, e per il pianeta riscaldato, ad esempio si è obesi e più a rischio per le ondate termiche. Se si consuma meno carne, o non se ne consuma affatto, si interviene in contemporanea cambiando comportamento su sé stessi e sull’ambiente, in una evidente e davvero lampante sinergia.

Un esempio assai di moda, anche se non sempre chiaramente inquadrato in tal senso, è quello della mobilità urbana sostenibile, e della conseguente forma urbana sostenibile. Camminare, andare in bicicletta, in genere optare per trasporti cosiddetti attivi, fa bene alla salute, molto più in generale di quanto non si pensi a prima vista. Si riducono le emissioni inquinanti e ci si mantiene in forma migliore, tanto per iniziare. Si fa attività fisica senza alcun bisogno di organizzarsela, e la sola attività fisica riduce a sua volta i rischi di contrarre parecchie malattie legate alla sedentarietà, dal cancro in varie forme, alle malattie cardiovascolari e respiratorie. Questo solo per fare un esempio, fra i tantissimi citati nell’interessante articolo allegato, che sostiene una tesi al tempo stesso un po’ corporativa ma interessante, non nuova almeno per uno degli autori, Frumkin: le discipline socio-sanitarie che sono in fondo all’origine della città moderna, ne sono state in parte espulse, o comunque emarginate. Pare arrivato il momento di coinvolgerle di nuovo a pieno titolo.

Riferimenti:

AAVV, Climate Change: Challenges and Opportunities for Global Health, editoriale del Journal of the American Medical Association, 22 settembre 2014
Si veda anche in questo stesso sito lo studio di Howard Frumkin sul rapporto fra Sprawl e salute 

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