Restiamo in carreggiata, please!

Il «buco nero» di un vuoto urbano definito dai flussi veicolari

Quando si scorrono testi storici (ahimè spesso dimenticati a far polvere) sulla cultura delle città, l’urbanistica, l’amministrazione, appare piuttosto scontata la continuità e trasversalità, per non dire sovrapposizione e mescolanza, tra la griglia stradale e gli spazi degli isolati che definisce, siano essi edificati o aperti, privati o pubblici. E del resto è proprio dall’equilibrio e intercambiabilità più o meno programmata che nasce l’idea spaziale della città moderna, in cui l’uno definisce l’altro senza gerarchie prefissate, salvo appunto riconoscere che si tratta di due ambiti distinti. Poi però certo eccesso filosofico di meccanizzazione, notoriamente speculare alla vita, finisce per prevalere su tutto, salta la permeabilità, salgono le barriere della segregazione, e la tecnica si scatena nell’imperfetta soluzione di continuità dell’interfaccia: l’incrocio a livelli separati, il semaforo, il parcheggio di corrispondenza, le regole sui limiti di velocità variabili eccetera. È così che nasce quella notevole fetta del problema sicurezza stradale, riguardante lo squilibrio di potere tra utenti forti (e abituali, e organici al progetto) della via, e quelli che sono sostanzialmente percepiti come «intrusi» più deboli, segnatamente i viventi non avvolti da adeguato veicolo. Un tema che solo con la benvenuta crisi dell’automobilismo assoluto e pervasivo ha ricominciato ad emergere per quello che è. Ma non il solo, se pensiamo che esiste un vero e proprio problema di segregazione stradale analogo a quello etnico o economico, quando cioè le barriere generano «mostri» da mancato cronico interscambio di flussi.

Il vuoto in natura non esiste

Tra i prodotti collaterali più noti della segregazione di flussi, ci sono quegli spazi interstiziali di degrado e rischio delle «fasce di separazione», del tipo che si intravedono sbirciando dal finestrino di un treno o di un’auto in fila, quando cancellata la velocità si riassestano percezioni e cittadinanza dei luoghi. Ritrovandosi di colpo ad abitare ambiti che di norma si ignorano, ma che esistono e sono tutt’altro che vuoti: rifiuti ambientali, rifiuti umani e sociali, investimenti in pulizia, manutenzione, ordine pubblico. Tutto riversato dentro lì per via della segregazione che ne impedisce un’esistenza diciamo così normale, sulla medesima lunghezza d’onda degli spazi normalmente abitati e vissuti. Di recente sull’onda di certe improvvisate e maldestre divagazioni sul tema securitario, magari ispirate a quelle non-letture della cosiddetta «teoria della finestra rotta», sono stati lanciati programmi di manutenzione straordinaria di quegli ambiti, attraverso progetti e investimenti per arredi, bonifica, vigilanza, tutto con lo scopo di «restituire alla città» fasce di interposizione a verde o rotatorie o angoli appartati seclusi, nel tempo colonizzati da popolazioni indesiderabili di poveracci che hanno messo radici. Ma pare abbastanza evidente, se ci si riflette un attimo, come quei programmi di manutenzione straordinaria finiscano per restare desolatamente tali, ovvero non restituire un accidente alla città e all’abitabilità di quel luoghi interstiziali, se non riescono a eliminare alla radice, o quantomeno ridurre, la segregazione che sta all’origine di tutto. Senza questo presupposto, ovvero permanendo la ridottissima accessibilità e scambio di flussi, al massimo si sarà ripulito il campo per la prossima colonizzazione di emarginati indesiderabili.

Carreggiate meno carreggiabili

Il concetto tecnico e culturale delle cosiddette «strade complete», dimostra che è possibile affrontare la medesima questione, pur di nuovo parzialmente e unilateralmente, a partire dall’altra prospettiva, ovvero intervenendo sui flussi che segregano gli spazi, cercando di renderli un po’ meno segreganti. Il trucco, se così lo si può chiamare, è quello di recuperare porosità e interscambio gradualmente, sostituendo a segregazione e interfaccia rari, una serie di interventi vuoi di traffic calming, vuoi di colonizzazione della mobilità dolce rispetto a quella meccanica sinora dominante lo spazio della carreggiata. La filosofia, forse in parte analoga a quella delle antiche pedonalizzazioni centrali, o anche a quella dei cosiddetti spazi condivisi, se ne distingue abbastanza chiaramente proprio nel suo partire dalla logica dei flussi, e nella centralità dei corridoi o corsie sull’abituale ambito definito della piazza o gruppo di isolati (anche se naturalmente scambi ed effetti allargati esistono, eccome). Significativo, inoltre, è che il tema ispiratore e principale motivo di consenso, attorno alla politica delle strade complete, sia quello della sicurezza, identico nella sostanza ai progetti di bonifica straordinaria degli interstizi citati sopra, ma declinato specificamente nella Visione Zero delle vittime da incidenti stradali, anziché nella qualità urbana e abitabilità teorica. Resta una domanda: settori tecnici e culture dei due ahimè separati campi di intervento, colgono l’intreccio, oppure ciascuno va avanti per conto proprio, orgoglioso del solito slogan un po’ ottuso «quell’aspetto purtroppo non è di mia competenza, però …»?

Riferimenti:
New York City, Department of Transportation, Complete Streets (serie di presentazioni scaricabili dei progetti in corso con brevissima scheda tecnico-toponomastica preliminare)

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